L'Enigma di Piero. ピエロ・デッラ・フランチェスカ《キリストの鞭打ち》の謎を解く:最後のビザンティン人と近代の始まり. Japanese edition.
2019
Silvia RoncheyHakusuisha
Solving the Mystery of Piero della Francesca's 'La Flagellazione': The Last Byzantines and the Beginning of Modern Japan.
Silvia Ronchey (Autore)
Ikegami Fair (Lettore, Traduttore)
Nagasawa Asayo (Traduttore)
Hayashi Katsuhiko (Traduttore)
Altro su questo volume:
Riconoscimenti (3)
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Premio Bevilacqua - Torri del Benaco 2007
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Premio Elsa Morante 2006
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Premio Frontino - Montefeltro 2006
xAudio e video (5)
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2006 | Rai News 24 Tempi dispari. “La Flagellazione” di Piero della Francesca
Silvia Ronchey, intervistata da Carlo de Blasio, illustra la sua ricerca sul celebre quadro di Piero della Francesca.
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2006 | Rai Radio3 Fahrenheit. L'enigma di Piero
Ai microfoni di Fahrenheit, Silvia Ronchey illustra la sua ricerca sul celebre quadro di Piero della Francesca.
Ascolta online o scarica qui il podcast. (clicca col tasto destro e salva)
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2006 | La7 Due minuti un libro. L'enigma di Piero
Intervistata da Alain Elkann, Silvia Ronchey illustra la sua ricerca sul celebre quadro di Piero della Francesca.
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2006 | Radio 24. Un libro tira l'altro. L'enigma di Piero
Ai microfoni di Radio 24, Silvia Ronchey, alla vigilia del 553° anniversario della caduta di Bisanzio, illustra a Salvatore Carrubba la sua ricerca sul celebre quadro di Piero della Francesca.
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2006 | Rai Educational. L'enigma di Piero. Fiera internazionale del libro 2006
Dai padiglioni del Lingotto a Torino, il racconto della ricerca di Silvia Ronchey sul celebre quadro di Piero della Francesca.
Stampa (33)
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La parola del passato | 01/01/2006 | In margine alla Flagellazione di Piero d…, Fabrizio Conca
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Corriere della Sera | 13/04/2006 | Piero della Francesca, enigma risolto. l…, Pierluigi Panza
Alcuni eventi che hanno cambiato il corso della storia avrebbero potuto avere una soluzione opposta se… Qui parliamo di uno di questi «se…», la caduta dell’Impero romano d’Oriente in mano ai musulmani, e di una tavola dipinta di 58,4 x 81,5 centimetri che ha cercato di far tornare Bisanzio ai cristiani. Il dipinto è la «Flagellazione» di Piero della Francesca, conservata alla Galleria delle Marche di Urbino, e a raccontarci l’importanza politica di questa tavola è la bizantinista Silvia Ronchey in un saggio erudito e affascinante, un libro a strati, che può essere letto come un romanzo ma con un apparato di note tanto ampio da essere consultabile nella sua interezza solo su internet (dal 19, quando esce il libro,
sul sito www.rizzoli.rcslibri.it/ enigmadipiero), intitolato L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro (Rizzoli, pp. 538, € 21).
La storia dell’interpretazione della tavola inizia nel 1438, anno del Concilio di Ferrara-Firenze che doveva celebrare l’unione delle Chiese d’Oriente (greco-bizantina) e d’Occidente (romano-latina). Gli imperatori Paleologi, che governavano l’Impero romano d’Oriente, negli anni Venti avevano già cercato di saldare i legami con i latini attraverso due matrimoni, quello di Cleopa Malatesta andata in sposa a Teodoro Paleologo (ma lei si bizantinizzò) e quello di Sofia del Monferrato che andò a Giovanni VIII (penultimo imperatore di Bisanzio). Lo scopo era quello di ottenere appoggi per arginare l’offensiva dei turchi.
Proprio Giovanni VIII, nel ’38, capitanava la delegazione orientale al Concilio, insieme al patriarca di Costantinopoli e al cardinale orientale, poi latino e allievo del grande platonico Giorgio Gemisto Pletone (fondatore dell’Accademia di Mistrà), il Bessarione, che pronunciò il discorso di apertura del Concilio. A guidare i rappresentanti latini c’era invece il padrone di casa Niccolò III d’Este, con papa Eugenio IV, l’imperatore di Germania, il filosofo Trapezunzio, nobili e umanisti. Molti artisti dell’epoca accorsero ad osservarono il passaggio dei «maghi» orientali, le cui facce e le cui vesti invasero da allora la cultura figurativa dell’Umanesimo, specie con Pisanello (ritrovati dalla Ronchey al Cabinet des Dessins del Louvre medaglioni e disegni) e come testimoniano i grandi affreschi di Benozzo Gozzoli, «Il corteo dei Magi» a Palazzo Medici-Riccardi e «La Leggenda della Vera Croce» di Piero della Francesca ad Arezzo. Le conseguenze del fallimento del disegno sincretistico tra le due Chiese promosso dal Bessarione si videro il 29 maggio 1453, quando — regnante Costantino XI, fratello di Giovanni VIII morto nel ’48—i musulmani presero Costantinopoli senza che nessun signore latino intervenisse a difesa. Gli ultimi Paleologi si ritirarono a Mistrà (Sparta), centro di diffusione del platonismo.
Passarono vent’anni e il 19 agosto del 1458, in una Roma torrida e imbandierata, venne eletto papa Enea Silvio Piccolomini, Pio II. Attratto dal platonismo, si prefisse il compito di riportare Bisanzio alla cristianità. E il primo giugno 1459, di nuovo con il Bessarione, inaugurò il Congresso di Mantova per indire una crociata per liberare Bisanzio o, almeno, parte della Morea (Grecia). Per questo scopo, varò iniziative propagandistiche tra le corti europee; e fu in questo clima che Piero della Francesca, transitato a Roma, dipinse la «Flagellazione», che è una sorta di immagine dipinta delle idee di Bessarione, un manifesto a favore del ricongiungimento tra Roma e Bisanzio.
Sotto metafora, Piero della Francesca raffigurò la situazione di vent’anni prima, quella del Concilio di Ferrara, di fatto invitando— alla luce della successiva caduta di Costantinopoli — alla crociata di Pio II. Ecco la spiegazione.
La tavola è divisa in due parti. A sinistra è raffigurata metaforicamente la sorte di Costantinopoli martirizzata dall’Islam. Il personaggio seduto a sinistra, come Ponzio Pilato, è l’immagine di Giovanni VIII, imperatore nell’anno conciliare 1438, che assiste all’attacco del sultano turco (la figura di spalle) che fa flagellare il corpo di Cristo, ovvero la cristiana Costantinopoli. Nella parte destra della tavola siamo nella Ferrara del Concilio: il primo a sinistra è il Bessarione, promotore dell’asse Roma-Bisanzio sia nel ’38-’39 che nel 1459; a destra, vestito in broccato, è Niccolò III d’Este, padrone di casa nel Concilio e rappresentante delle Signorie latine. Quello al centro, angelicato, è Tommaso Paleologo, ultimo despota di Morea, destinato al trono di Bisanzio dopo i fratelli Giovanni e Costantino, che sembra attendere l’aiuto dell’Occidente per liberare (nel ’38-’39 per difendere) Bisanzio dai turchi. È scalzo perché attende di indossare i calzari purpurei, segno del potere imperiale. La «Flagellazione», dunque, metteva in guardia le Signorie a non commettere nel ’59 gli stessi errori commessi nel Concilio del ’38-’39, che avevano contribuito alla caduta di Costantinopoli. La tavola fu dipinta per un committente Estense vicino a Bessarione, che forse ne venne in possesso.
Ma anche il congresso di Mantova non sortì effetto. Nell’autunno del 1460 Tommaso Paleologo lasciò Mistrà e sbarcò ad Ancona, portando la più importante reliquia cristiana d’Oriente: il cranio di Sant’Andrea. Il mercoledì santo del ’62 la reliquia fu esposta a Roma in un delirio di folla. L’anziano Pio II annunciò di voler guidare la crociata, ma nella primavera del ’64, ad Ancona, i vari Gonzaga, Sforza, Montefeltro arrivarono con poche truppe, e le navi veneziane rimasero semivuote. Infine, nella notte tra il 14 e 15 agosto, Pio II morì.
Partì solo Sigismondo Pandolfo Malatesta, che salpò da Rimini con 13 marrani. In una notte dell’agosto 1465 raggiunse le mura di Mistrà, penetrò in città e riuscì a esumare le ossa del grande Gemisto, cugino di Cleopa Malatesta, e padre del platonismo, al quale Sigismondo si rifaceva. Forse cercò anche la salma di Cleopa. Per secoli nessuno penetrò così all’interno dell’impero ottomano (solo i veneziani presero temporaneamente Atene nel 1687).
Bessarione morì il 17 novembre 1472 a Ravenna «mentre si eclissava la luna», scrive il cronista Sfrantze. La sua sterminata biblioteca, lasciata a Federico da Montefeltro, venne — come da suo volere — ceduta a Venezia nel ’74, ed è ancora custodita nella biblioteca Marciana del Sansovino. Forse una tavola da viaggio, con dipinta una «Flagellazione», restò invece a Urbino.
La Ronchey non è stata la prima ad andare in questa direzione nell’interpretare l’enigmatica tavola. La «Flagellazione» fu notata (diremmo riscoperta) dallo storico dell’arte David Passavant a inizio Ottocento nella sacrestia del Duomo di Urbino. La tradizione diceva che era stata donata da Federico da Montefeltro ed era firmata Petri de Burgo sancti sepulcri. Alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, Charles Lock Eastlake e John Charles Robinson la videro, ma non la acquistarono per le collezioni reali. Anni dopo, il grande conoscitore Giovan Battista Cavalcaselle ne promosse il primo restauro, durante il quale si perse una scritta sul dipinto: «Convenerunt in unum». Questa iscrizione-titolo conferma la chiave dell’enigma: l’iscrizione «si sono adunati insieme» si riferirebbe sia ai convitati sia ai due Concilî (Ferrara e Mantova). In sostanza, l’esaltazione dei contenuti di Mantova (la crociata promossa da Pio II) avveniva in Piero attraverso la rappresentazione di quello di Ferrara. Kennet Clark, negli anni Cinquanta del Novecento, fu il primo ad avviare la lettura ora chiarita — dopo anni di studi — in maniera convincente dalla Ronchey. Interpretazione che trova riscontri nelle precedenti letture della Gouma-Peterson, di Carlo Ginzburg (nel libro Indagine su Piero) e Salvatore Settis.
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Il Piccolo | 24/04/2006 | L'enigma di Piero
In quel quadro di Piero della Francesca è celato un enigma.
Ma «La flagellazione» non ha mai permesso ai suoi studiosi di chiarirlo. Però adesso, Silvia Ronchey, dopo lunghi anni di ricerche, propone una tesi completamente nuova sul significato del dipinto. La chiave sta nella tragedia che ha segnato le origini dell'età moderna: la fine dell'Impero di Bisanzio.
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Il Giornale | 27/04/2006 | Il mistero di Piero. Quando i turchi fla…, Giuseppe Conte
Ci sono libri che hanno una grandiosa complessità sinfonica, ma fatta di tanti movimenti incalzanti. Che hanno una intelaiatura intellettuale e culturale formidabile, ma che dentro di essa fanno scorrere con brio idee, figure, provocazioni, emozioni, tanto che si resta egualmente ammirati dalla dottrina e dalla vivacità. Queste qualità mi sono subito sembrate appartenere a L’enigma di Piero (Rizzoli) di Silvia Ronchey, che è non soltanto una bizantinista, ma anche una scrittrice impegnata a sostenere le ragioni e la parte di Bisanzio, troppo spesso occultate dalla cultura occidentale. La storia, si dice, è scritta sempre dai vincitori. Ma l’autrice sostiene a un certo punto del suo libro che «il compito dello storico è portare alla luce anche ciò che nella storia fallisce». Dare voce agli sconfitti, ma anche ai progetti abortiti, ai sogni caduti, alle trame nascoste, ai disegni segreti. In queste pagine, lo storico diventa così mitologo, detective, allegorista, esperto in percorsi iniziatici, sociologo delle idee, letterato ed esperto d’arte.
L’assunto del libro è che, dopo la caduta di Bisanzio in mano ai turchi nel maggio del 1453, alcuni grandi uomini pensarono, lavorarono, tramarono perché la cristianità preparasse una riscossa. La loro opera non riuscì. E il loro manifesto politico si condensa in una tavola di piccole dimensioni, la Flagellazione, conservata a Urbino e dovuta a Piero della Francesca. Un altro assunto è che la civiltà bizantina, da cui in Occidente si trasse il termine «bizantinismo» per evidenti fini denigratori, fu in realtà una serie di rinascenze, senza le quali nessuno potrebbe spiegare l’origine di quel tellurico movimento occidentale che fu il Rinascimento.
I due uomini massimamente impegnati in questo sogno di riscatto sono Bessarione, un intellettuale orientale che da filosofo neopagano era diventato un altissimo prelato cristiano, e Enea Silvio Piccolomini, papa con il nome di Pio II. Si tratta di due umanisti che riconoscono l’esistenza di una religione filosofica comune a Platone e a Zoroastro, a Cristo e a Maometto, che considerano la forza delle armi non superiore a quella di una allegoria o di una metafora, nello stesso clima morale e spirituale in cui si collocano Giorgio Gemisto Pletone, Marsilio Ficino, il Pico della Mirandola del Discorso sulla dignità dell’uomo. Ma Bessarione e Pio II sono anche consumati politici. Capaci di promuovere idee e di intessere alleanze ai fini della gloria e del potere della Chiesa di Roma. Capaci anche di ispirare un artista come Piero e di fare sì che la sua insospettabile architettura di prospettive e luci possa oggi apparire al servizio di un progetto che, se riuscito, avrebbe cambiato il corso della storia.
Dipanando un materiale immenso, Silvia Ronchey svela questa trama con una avvolgente abilità nel trascinare il lettore. E mostra la presenza cospicua di Bisanzio nella Flagellazione di Piero con dati sicuri, incontrovertibili. Tanto che ben sei dei sette personaggi raffigurati sul proscenio e nella «scatola architettonica» della tavola appaiono come aventi a che fare con il mondo orientale, mentre il Cristo flagellato rappresenta la rovina di Bisanzio caduta nelle mani del Sultano. La ricchezza del libro è nel cercare il cuore del segreto, quasi settario, iniziatico di un quadro con ampi movimenti concentrici, che ci portano a conoscere tante realtà storiche, geografiche, artistiche, filosofiche, politiche, dinastiche, nel delicatissimo momento del trapasso dal medioevo all’età moderna.
Sono pagine memorabili quelle dedicate a Cleopa, principessa italiana trapiantata in Oriente, in Morea, dove il suo congiunto Sigismondo Malatesta si giocò le carte di una fallimentare crociata. O quelle su Roma nel XV secolo, quando ancora i lupi andavano a disseppellire e sbranare cadaveri nei cimiteri del Vaticano, ma nelle cui strade era viva una «festa mobile liturgica» di ammaliante bellezza, come dimostra la processione per l’arrivo delle reliquie di Sant’Andrea. O quelle che descrivono la morte di Pio II ad Ancona, mentre entra invano in porto una troppo piccola flotta veneziana. Bisanzio, ci dice Silvia Ronchey, fu distrutta dai Turchi, ma la sua rovina fu preparata da Venezia, la Repubblica annidata come un parassita nel corpo dell’Impero, ma un parassita che rappresentava la modernità, la forza esplosiva del libero mercato ai suoi esordi. Il sogno di riscossa di Bessarione e di Pio II si scontra con gli interessi dei mercanti. Ma rimane fissato nelle architetture prospettiche e luminose e nelle allegorie enigmatiche di un artista come Piero della Francesca. Alla fine, non è l’arte la dimora eterna e incruenta dei sogni?
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Il Foglio | 06/05/2006 | Urbino dei delitti e dei fantasmi, Camillo Langone
A Urbino non c’è altro da fare che uccidere qualcuno. O almeno immaginare di farlo. Sembra un’astronave di mattoni posata sul verde del Montefeltro, un’astronave disegnata a quattro mani da Luciano Laurana e Stanley Kubrick. Del solo Kubrick (il Kubrick apicale di “Arancia meccanica” “2001 Odissea nello spazio” e “Shining”) si direbbero i collegi universitari architettati invece da Giancarlo De Carlo. Chi ha copiato chi? Facciamo un po’ di conti: il Tridente, grazie ai suoi oblò il collegio più kubrickiano che ci sia, è stato iniziato nel 1973, cinque anni dopo l’Odissea. Se non altro abbiamo capito che De Carlo padre (De Carlo figlio è lo scrittore Andrea che vive in un casolare qui intorno) in quel periodo andava molto al cinema. Al Tridente ci vado con Aurelio Picca che mi è venuto a prendere alla stazione di Pesaro in Jaguar XKR. Urbino che pure è capoluogo di provincia, sede di diocesi, di accademia di belle arti, di grossa università e di museo racchiudente alcune fra le più importanti opere d’arte di tutti i tempi, per la gioia di petrolieri interisti e maomettani da molti anni non è più raggiungibile su rotaia. I binari si sono arrugginiti e la ferrovia che in tempi logisticamente più civili portava nella capitalina Carlo Bo, l’ultima duca, è stata invasa dai rovi. Studenti e turisti, due gruppi inguardabili anche nei rari casi in cui si comportano bene, per raggiungere Urbino consumano, inquinano, disturbano coi motori a scoppio il verde metafisico delle alte colline fra la Romagna e le Marche. Ci sarà un responsabile di questo stato di cose, vorrei incontrarlo e metterlo alla colonna della Flagellazione di Piero della Francesca (una delle più importanti opere d’arte di tutti i tempi racchiuse nella Galleria Nazionale), e darci dentro col gatto a nove code. Ma forse è più morto dei binari della Fano-Fossombrone-Urbino. Io comunque ho deciso che me ne frego, non posso stare male per ogni stortura del mondo e a differenza di studenti e turisti scorreggioni me lo posso ampiamente permettere visto che a Urbino vado in Jaguar XKR con tanto di autista che poi è Aurelio Picca, autore di “Via Volta della Morte” (Rizzoli), libro giallo o forse nero ambientato all’ombra del Palazzo Ducale. Come tutti gli scrittori (è più forte di loro), Picca ama in modo smodato i recensori che parlano bene di lui, dice di aver fatto testamento così se muore anzitempo il Jaguar lo lascia a me, grazie, non devi ringraziarmi te lo meriti, me lo merito però ti vedo in forma farai in tempo a cambiarne dieci di supercar, non è vero sento un dolorino qui se muoio domani voglio che il Jaguar sia tuo, va bene ma quanto bevono 358 cavalli? Bevono moltissimo infatti rischiamo di rimanere a piedi, tocca fermarsi al distributore, dal sorriso del benzinaio si capisce che da queste parti non ne vedono spesso di macchine così. Comincio a sospettare che il libro di Picca dica la verità e non panzane sul declino dell’università di Urbino quindi di Urbino: “Se negli anni Settanta e Ottanta i fuori sede provenivano da ogni regione, ora per lo più gli studenti erano molisani, pugliesi, siciliani, campani. E erano sempre più poveri”. Lo conferma lo studente di Messina che andiamo a stanare dal suo loculo al Tridente, il più lunare e disperato dei collegi universitari. Frequenta un corso di laurea incomprensibile (più le cose sono inutili più hanno nomi lunghi) e lo fa ad Urbino perché gli affitti costano meno rispetto alle grandi città e inoltre (a questo punto la voce si fa un sussurro) perché qui è più facile. Il messinese vive in uno dei tre rebbi del Tridente che andrebbe ribattezzato, chiamato in questo modo fa venire in mente un edificio metallico, lucente, guerresco, e invece i tre tubi di cemento che scendono dal colle dei Cappuccini visti dalle scale interne hanno qualcosa di organico, di intestinale, sono tentacoli di una piovra venuta a morire nel cratere scosceso di un pianeta dimenticato. Le camere del collegio della Piovra Morta sono a gruppi di otto e sono piccolissime, con bagni e cucina in comune. Solo gli spazi collettivi, situati nella testa dell’animale, sono pensati con larghezza. De Carlo, pace all’anima sua, da buon architetto ideologico per non dire comunista pensava che gli universitari dovessero studiare tutti insieme, inutile quindi sprecare metri quadri per gli ambienti personali. Di quella utopia da falansterio, lontana dalle urgenze contemporanee come gli anni Settanta e gli attuali presidenti di un qualsivoglia ramo del Parlamento, restano solo grandi sale dove risuonano le voci dei pochi studenti sopravvissuti al calo delle iscrizioni. Fuori dalla Piovra Morta riprendiamo il Jaguar fra gli sguardi dei fuorisede, più di fastidio che di invidia (tutti elettori di Rifondazione a giudicare dall’abbigliamento). Per vedere l’effetto che fa un coupé grigio perla metallizzato sui soggetti a basso reddito e alta scolarizzazione bisognerebbe provare a rimorchiare qualche ragazza, forse rifondarola ma certamente di gluteo tonico visto il numero di scale che De Carlo ha disseminato nei collegi. Ci sono tre ostacoli: 1) la scarsità di materia prima, sarà il giorno e l’ora ma stasera la base spaziale Urbino 2006 sembra abbandonata dai suoi abitanti specie di sesso femminile; 2) la scarsità di spazio nell’abitacolo, due posti più due secondo la Jaguar, due posti più zero secondo me, due posti più due nane secondo un inguaribile ottimista; 3) la scarsità di attenzione da parte di Picca, che sembra disinteressato a qualunque cosa che non sia il suo romanzo. Così tutti questi cavalli e questi metri di cofano non servono assolutamente a niente. L’ossessivo Picca ferma le donne (in albergo, al museo, ovunque) solo per regalare il libro (ne ha il bagagliaio pieno) oppure, se già erano state omaggiate, per sapere se l’hanno finito e se è piaciuto. Inutile poi lamentarsi se la ragazza del San Domenico sembra ricamare sulla nostra scelta di dormire in due camere doppie. Noi credevamo di essere due lussuosi dongiovanni abituati a prendere la camera doppia per disporre di un’alcova in caso di conquiste dell’ultimo minuto, eccoci catalogati come coppia di ricchi froci che si vergognano di far vedere che vanno a letto insieme. Se le ragazze dell’albergo avevano ancora dei dubbi, Picca glieli toglie quando nel bel mezzo dell’intemerata contro un recensore tiepido (dicesi recensore tiepido chiunque non gli dedichi una pagina di lodi sfrenate) si ferma per guardarmi come ipnotizzato: “Bello questo impermeabile, dove l’hai preso?” “Strano a dirsi ma l’ho preso a Parma”. Sempre più conquistato: “E la cintura? Formidabile questa cintura!” “L’ho comprata a Bellagio la settimana scorsa e ho anche speso pochissimo”. Una scena disgustosa, peggiorata dalla sua maglia a righe orizzontali. “Fa tanto Jean Genet”. “Appunto”. A Urbino non c’è altro da fare che uccidere qualcuno. O almeno immaginare di farlo. Fortezza Bastiani dell’università italiana, solo un bel caso di cronaca nera, meglio se con addentellati rosa, potrebbe ricordare al mondo che Urbino non è soltanto un’utopia didattica fallita, un museo per scolaresche vocianti, una città senza abitanti e un’università senza studenti. L’ultimo fattaccio risale a troppi anni fa e nessuno dei protagonisti guidava il Jaguar e nemmeno una Maserati come gli assassini di “Via Volta della Morte”, il giallo che ci voleva e che pure l’assessora alla cultura non ha gradito. Picca scrive di indagini e delitti, e fin qui tutto bene, ma poi affonda il colpo sul declino dell’ateneo e questo è parlare di corda in casa dell’impiccato. “Urbino senza gli studenti è morta, non ha né sa di che vivere”. Un vecchio professore malandato mi offre la versione ufficiale: il calo non riguarda le iscrizioni ma le frequenze, inoltre il problema non è locale bensì nazionale. Colpa della riforma Moratti? Miracolo, non è colpa di Donna Letizia ma di Luigi Berlinguer che ha frantumato l’insegnamento in moduli di un mese. Calo di iscrizioni o di frequenze se non è zuppa è pan bagnato, per le languenti attività commerciali non cambia nulla. Meno studenti circolano e più la città si addormenta e più forte è l’esigenza di far girare l’adrenalina. Ci vuole un crimine almeno letterario che poi magari ci scappa la fiction e Urbino diventa meta di tele pellegrinaggi come la Ragusa del commissario Montalbano. Gli indigeni lo hanno capito e comprano “Via Volta della Morte” con slancio. Il tormentoso Picca verifica l’andamento delle vendite mettendo il naso in ogni libreria, informandosi sugli scontrini, interrogando sui rifornimenti. Tutte ce l’hanno e lo smerciano bene, salvo la libreria della Galleria Nazionale dove non è mai arrivato. Per l’autore è un grosso cruccio, se ne lamenta con la cassiera che non c’entra niente, non è lei a fare gli ordini. Ovunque tranne al museo il libro è in vetrina, complice la furba copertina con Federico da Montefeltro di profilo, girato in negativo e perciò trasformato in fantasma. Il ritratto ovviamente è quello celeberrimo di Piero della Francesca, l’unica attrazione urbinate che tira. Perché Raffaello, l’altro grande inquilino della Galleria Nazionale, è ancora più fuori moda dell’università. Il libraio di via Vittorio Veneto dice che di libri su Raffaello non se ne vendono più, che adesso tutti vogliono Piero. Non c’entrano le mostre, l’importanza dei quadri esposti, dev’essere un mutare di sensibilità. Raffaello appare naturale (che poi lo sia davvero è un altro discorso) quanto Piero sembra artificiale e quindi ideale fornitore di icone per il post-umano prossimo venturo. Esoterico, matematico, su di lui è appena uscito “L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey (sempre Rizzoli), avvicente librone anch’esso presente in ogni vetrina urbinate che si rispetti. L’autrice, dotta e scaltra come una vecchia basilissa, ha avuto l’accortezza di suddividere in tanti minicapitoli di pochissime pagine ciascuno il suo lungo lavorio attorno alla Flagellazione di Cristo, quadro cervellotico su cui si sono spaccati la testa decine di storici dell’arte e di storici tout court. Come spesso accade, meglio il catalogo che la visione live. A pagina 129 del Classico dell’Arte Rizzoli-Skira dedicato a Piero (soli 9,90 euri) la Flagellazione sembra chissà che quadro, nel salone della Galleria Nazionale ecco una tavoletta di legno imbarcata e tarlata, con figure microscopiche destinate a rimanere tali siccome per vederle bene bisogna avvicinare il naso alla protezione trasparente, con inevitabile scatto dell’allarme e occhiatacce del personale. Nel giallo di Picca non ho capito chi sia il colpevole, sviato dalla descrizione di alcune inevitabili orgette universitarie (c’è altro da fare a Urbino fra studenti e professori o meglio, fra professori e studentesse?). Nel saggio di Silvia è tutto chiaro, il colpevole è il Maomettano, allora come oggi. Cristo alla colonna rappresenta la cristianità orientale flagellata dai turchi e i signori in primo piano sono cristiani occidentali che stanno discutendo di una crociata per salvare Bisanzio. Non lo sa quasi nessuno (non certo le scolaresche qui intorno) ma in quei pochi centimetri quadri è racchiuso l’estremo tentativo papale di respingere l’alieno di là dal Bosforo. Col senno di poi la Flagellazione è un fallimento politico e nonostante questo o forse proprio grazie a questo un grande successo artistico. Ancora siamo qui a parlarne e a Dio piacendo le scolaresche vi transiteranno davanti ancora per molti secoli. Picca invece è già stufo, scalpita, sbuffa, teme che Silvia Ronchey gli rubi la scena, Urbino è sua e che nessuno osi disturbare il duca nel suo ducato. Sulla Flagellazione ha un’idea personale: Piero si è ispirato a un edificio a pochi passi da qui. Mi ci porta, è un vecchio portico di via Valerio col soffitto a cassettoni, forse quattrocentesco. Sì, un po’ somiglia, poi certo il pittore ci avrà aggiunto del suo, chissà. Ma che gliene frega al monomaniaco Picca di Piero della Francesca, per lui è solo il grafico che gli ha disegnato la copertina. Mi porta sulla scena del delitto, in Via Volta della Morte, che esiste davvero ed è una lateralina semicieca di via Vittorio Veneto, sulla destra salendo da piazza della Repubblica. Il nome attirò anche Piovene che ne parla nel suo Viaggio in Italia, Picca non lo sapeva e quando glielo dico si esalta, secondo lui non è casuale che lui e il conte vicentino calpestino nelle proprie pagine lo stesso metro quadro d’Italia. Pare che gli antichi volsci fossero legati per sotterranee linee linguistiche e di sangue ai veneti, e questo spiegherebbe lo speciale afflato tra Picca, che è di Velletri, e Parise e Comisso. Fa niente che tutti, ma proprio tutti, quando vedono Picca non pensano agli scrittori veneti bensì al più toscano degli scrittori novecenteschi, Malaparte, tanto i due si somigliano nel fisico, nei vestiti, nell’esibizionismo vitalistico. Se c’è un rapporto con Comisso è solo fiumano: gli aggettivi più pronunciati dal patriottico Picca sono “ardito” e “spavaldo”. Alle sette di sera l’astronave Urbino non sembra nemmeno più un set di Kubrick, sembra “Solaris” di Tarkovskij. Girando in Jaguar intorno alle mura Picca vede materializzarsi angosce e desideri. I torricini sono di volta in volta “due sottilissime gambe di cubiste” e “corna tra occhi di bestia”. A sentir lui Federico da Montefeltro era un satanista sanguinario, lo proverebbe il disegno di un tizio con la coda che mi ha mostrato nei sotterranei del Palazzo. Silvia Ronchey nel suo librone non accenna a queste pratiche ma che c’entra, lei è una storica, si basa sui documenti laddove Picca è un medium, cade in trance, ha le visioni. Davvero non c’è niente da fare in questa città, parcheggiata la belva ci infiliamo al Piquero di via San Domenico e beviamo una birra dopo l’altra e sfidiamo a calciobalilla due studenti vestiti con camicie a quadri che al momento sono gli unici clienti del locale. Due che di orge ne hanno viste poche, di omicidi ancora meno e che, sia detto senza stupido orgoglio, perdono tutte le partite.
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La Stampa | 06/05/2006 | L'ultimo Bizantino nella Flagellazione D…, Enzo Bianchi
Quando nel 1054 venne sancita con reciproche scomuniche la frattura tra chiesa d'occidente e chiesa d'oriente, gli eventi contingenti non fecero altro che suggellare un progressivo estraniamento nel quale si erano affievoliti fino a scomparire non solo i tratti comuni che avevano caratterizzato il mondo cristiano del primo millennio, ma lo stesso linguaggio che li esprimeva. La deriva reciproca cui erano andate incontro la cultura, le modalità di espressione della fede, l'arte, il governo della societas aveva trasformato due universi "fraterni" in soggetti estranei se non ostili.
Non sorprende che, quattrocento anni dopo, l'evento sconvolgente e drammatico della caduta di Costantinopoli in mano ai turchi sia stato vissuto a oriente come un tracollo epocale, mentre l'occidente non solo assisteva impassibile ma vi contribuiva in maniera non marginale. Eppure proprio quell'immane tragedia ripropose all'insieme della cristianità il dramma della divisione delle chiese, che il concilio di Ferrara-Firenze di pochi anni prima era riuscito ad affrontare solo sulla carta. E, come avveniva abitualmente in quell'epoca di cristianità, nuovi disegni di geo-politica e strategie ecclesiali si intersecavano, fecondandosi od ostacolandosi a vicenda.
Quanto siamo oggi lontani da quella particolare capacità di lettura degli eventi della storia, e quanto possa essere prezioso riacquisire almeno in parte quel respiro a due polmoni che caratterizzava ancora la società europea e mediterranea al dischiudersi dell'era moderna, ce lo rivela uno stupendo libro di Silvia Ronchey, acuta bizantinologa dell'Università di Siena. Con rara maestria e abilità narrativa, la Ronchey dà voce a un'insolita eppur attendibilissima interpretazione del dipinto di Piero della Francesca raffigurante la Flagellazione: in realtà in esso si cela il disegno dell' "ultimo bizantino" - Bessarione, legato di Costantinopoli al concilio, fautore dell'unione tra oriente e occidente cristiano e poi cardinale - di liberare la capitale dell'impero cristiano d'oriente dalla dominazione turca attraverso una nuova "crociata" che, nonostante il suo prodigarsi, resterà però "fantasma".
Così, muovendoci tra i personaggi del quadro e le realtà che essi simboleggiano, saltando attraverso agilissimi capitoli di poche pagine dal Monferrato a Costantinopoli, da Roma a Ferrara, da Rimini a Basilea, veniamo a conoscere personaggi storici di fascino tale da non aver bisogno di alcuna finzione letteraria.
L'audace rilettura della Ronchey è documentata con grande serietà: nel volume troviamo un Regesto minore di oltre sessanta pagine, che rimanda alla versione completa disponibile su Internet, un imponente apparato bibliografico, quasi duecento illustrazioni a colori assieme a numerosi alberi genealogici. Eppure la narrazione scorre con scioltezza tra intrighi di corte e citazioni contemporanee, studi prospettici e congetture storiche, ritratti di personaggi e ricerche archivistiche.
Un libro che è un atto di amore per il mondo bizantino, ma che nel contempo ci fornisce un quadro del nostro mondo così variegato nel suo declinarsi a oriente e a occidente, ci offre una scrittura capace di dipingere una sensibilità da noi ormai smarrita ma iscritta nel nostro codice culturale, ci propone lo svelamento di un quadro ma in realtà ci mostra quello che la nostra civiltà era cinquecento anni fa e i tesori di cui potremmo nuovamente godere se solo accettassimo di guardare il mondo anche con gli occhi degli altri, se rinunciassimo a fermarci alle apparenze, se lasciammo spazio alla concretezza che ogni sogno, come quello di Bessarione, porta con sé.
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Il Foglio | 13/05/2006 | Piero e il sogno di Bessarione, Nicoletta Tiliacos
Non è che un piccolo dipinto, a lungo ignorato e riscoperto, all’inizio dall’Ottocento, nella sacrestia del duomo di Urbino, da un tedesco, Johann David Passavant, pittore senza genio ma viaggiatore che sapeva usare gli occhi. Una tavola su legno di 58,4 per 81,5 centimetri, che mostra sullo sfondo un Cristo flagellato davanti a un impassibile Pilato e tre gentiluomini in primo piano. Una composizione malinconica e inusuale, nella quale sir Charles Lock Eastlake, un altro viaggiatore eccellente a caccia di capolavori italiani, a metà dell’Ottocento ravvisò “qualcosa di africano”. Non ritenne però di doverla acquistare, sebbene gli fosse stata offerta a un prezzo vantaggioso.
Poi, in capo a mezzo secolo, la Flagellazione di Piero della Francesca, oggi gemma della Galleria delle Marche di Urbino, sarebbe stata accolta nel pantheon dei capolavori assoluti dell’arte rinascimentale e di tutti i tempi, anche grazie alla lettura innamorata che ne fece, nel 1911, il critico Adolfo Venturi. Da allora, è stata e continua a essere la protagonista di una delle più lunghe e accanite dispute tra studiosi, su un terreno di combattimento che sta a metà tra la storia e la storia dell’arte. Una diatriba spesso accorata, degna dell’emozione che quella tavola provoca in chi la osserva, e degna della densità e della complessità dei significati che in essa trovano espressione. E che appaiono come un rompicapo, un mosaico nel quale manca sempre il modo di sistemare l’ultima tessera. Di quella disputa, ma soprattutto del mondo e del secolo nel quale la tavola di Piero della Francesca fu commissionata e composta, racconta, dando la propria personale ma assai credibile soluzione del mistero, la bizantinista Silvia Ronchey. Autrice di un libro importante e ricchissimo, frutto di otto anni di ricerche, comparazioni e studi serrati, intitolato “L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro” (Rizzoli, 540 pagine, 21 euro).
Al Foglio, Silvia Ronchey spiega innanzitutto perché anche lei è stata catturata dalla malia della Flagellazione. Una malia che nasce dall’inquietudine, da una sensazione di sospensione e di lutto, “perché il quadro di Piero è un quadro luttuoso. L’impressione che comunica è di paralisi, d’impossibilità di agire sul reale. E’ il lutto dell’intellettuale che sa che non riuscirà a modificare la realtà, a incidere davvero nella politica, ma nello stesso tempo non rinuncia ad agire”. Il lutto di cui parla la Ronchey è quello per la perdita di Bisanzio, caduta in mano turca il 29 maggio del 1453 (la tavola di Piero è del 1459-60), mentre l’azione vagheggiata è l’avvio di una crociata che doveva riportare sul trono di Costantinopoli l’ultimo dei Paleologhi: Tommaso, l’ultimo porfirogenito, “nato nella porpora” che è simbolo del potere dei discendenti di Costantino. Tommaso, despota della Morea, arrivò esule in Italia nel 1460, in cerca d’aiuto contro il sultano. Ad accoglierlo, e ad accogliere con lui la preziosissima reliquia del cranio di sant’Andrea (patrono della chiesa d’oriente così come Pietro e Paolo lo sono di quella d’occidente), c’era Papa Pio II, al secolo il nobile Enea Silvio Piccolomini. E c’era il cardinal Bessarione, aristocratico bizantino nato a Trebisonda, antico dignitario dei Paleologhi poi convertito al cattolicesimo, si dice, per poter meglio sostenere la causa del riscatto dell’impero costantinopolitano. Bessarione, dice Silvia Ronchey, è “un uomo in lutto per il suo secolo”. Non abbandonerà mai l’abito nero da ex monaco basiliano, e sarà il grande tessitore di alleanze diplomatiche e di matrimoni politici. E’ anche un umanista eccellente, cresciuto all’Accademia di Mistrà, la fratrìa neopagana e umanista che il filosofo Giorgio Gemisto Pletone aveva fondato nel Peloponneso, presso l’ultima e più brillante tra le corti bizantine: quella della Morea, appunto, di cui era signore Tommaso Paleologo. L’uomo “alto, biondo e di grande aspetto” e “afflitto da costante malinconia”, che mai sarebbe guarito dal dolore per l’impero perduto e che sarebbe morto senza veder realizzata la crociata voluta da Pio II e da Bessarione.
Di quella “crociata fantasma”, promossa a Mantova nel 1459 ma mai partita, la Flagellazione è il manifesto politico. Per noi occulto, incomprensibile, offuscato dai secoli ma soprattutto, dice Silvia Ronchey, “dalla grande rimozione ideologica di Bisanzio da parte dell’occidente”. Quella rimozione ha reso a lungo indecifrabile, quando non ha dato luogo a interpretazioni astratte, banalizzanti e localistiche, una simbologia che l’“Enigma di Piero” spiega in un modo avvincente e stringente, tanto da renderla del tutto trasparente. Se altri illustri esegeti avevano già compreso e afferrato il filo che legava la Flagellazione all’umore filobizantino radicato nell’intellettualità e nelle corti italiane del Quattrocento (tra tutti, basterà citare Carlo Ginzburg e il suo “Indagini su Piero”, Einaudi), Silvia Ronchey riesce però a fare l’ultimo passo. Incastra l’ultima tessera nel mosaico, senza nessuna concessione alla fiction e sempre nell’ambito della più rigorosa verifica filologica.
Vediamolo da vicino, allora, l’enigma svelato. Sullo sfondo, il Cristo flagellato rappresenta Bisanzio, la cristianità d’oriente sotto attacco, l’impero conquistato dai turchi.
L’uomo impassibile con i calzari rossi e l’atteggiamento inerte è Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore di Bisanzio (nonché fratello di Tommaso e dell’ultimo imperatore, l’eroico Costantino XI, morto in combattimento durante la disperata difesa della città). Fu Giovanni VIII a guidare la delegazione orientale al concilio di Ferrara-Firenze che si tenne nel 1438-39, quando già su Bisanzio incombeva la prossima fine, e che doveva discutere la riunificazione delle chiese. L’uomo di spalle, abbigliato alla turca ma a piedi scalzi (ancora privo, cioè dei calzari purpurei, simbolo della regalità bizantina) è il sultano, in procinto di violare la Grande Città. Veniamo ai tre uomini in primo piano. Quello a sinistra di chi osserva è Bessarione, l’uomo con la barba, l’unico con la bocca socchiusa, che parla per convincere e rassicurare gli interlocutori. Accanto a lui, la figura di giovane biondo è quella, idealizzata, di Tommaso Paleologo, vestito di porpora ma a piedi scalzi (in attesa di riavere i calzari della sovranità bizantina e l’aiuto occidentale). All’estrema destra della tavola, infine, l’uomo dal prezioso vestito di broccato è Niccolò III d’Este, che accolse a Ferrara il concilio del 1938-39.
Agli occhi del tempo, ogni figura doveva apparire inequivocabile: “Un giovane dall’aspetto bello e nobile, vestito di porpora e con i piedi scalzi non poteva che essere un erede al trono bizantino”, spiega Silvia Ronchey, soddisfatta dell’appoggio di uno studioso come Salvatore Settis, che su quell’identificazione, una sorta di punto nascosto proprio perché sotto la lampada, l’ha incoraggiata a procedere. La tavola di Piero doveva dunque rappresentare un incitamento ad ascoltare il grido di dolore che arrivava da Bisanzio e dall’ultimo erede al suo trono. Rievocava il concilio di Ferrara, al quale Bessarione aveva partecipato come esponente della delegazione orientale, e così ammoniva chiunque contemplasse la scena: guai a ripetere l’errore di Ferrara, Bisanzio non doveva essere nuovamente lasciata al proprio triste destino. Era la grande idea di Bessarione, alla quale quell’uomo geniale, ieratico e coltissimo (di lui si diceva ; “Avete mai visto Bessarione senza un libro in mano?”) lavorò tutta la vita.
Silvia Ronchey racconta che “alle vicende del dipinto di Piero è intrecciata una storia di grandi intellettuali che vogliono incidere nel loro tempo, e che hanno una grande competenza, una grande intelligenza e anche uno spietato cinismo politico. Personaggi pragmatici, che però non rinunciano a coltivare i loro ideali. Bessarione conosceva ogni staterello tedesco, ogni piega della politica dei suoi tempi. Ha viaggiato tutta la vita, portandosi appresso i medici che cercavano di curare i calcoli renali che l’hanno sempre afflitto, così come affliggevano il suo sodale Pio II”.
La ricostruzione della storia della Flagellazione è, per Silvia Ronchey, l’occasione per raccontare in modo brillante e appassionato un mondo fatto “di grandi pensatori. Come Nicola Cusano, come Giovanni Torquemada, zio del celebre inquisitore e riformatore della disciplina dei monasteri, come Giorgio Gemisto Pletone, il filosofo che riporta in auge il platonismo dopo dieci secoli di dominio aristotelico, ed è un personaggio-chiave del Rinascimento. Intellettuali affiancati da grandi capi di stato, come Ludovico Gonzaga, Niccolò d’Este, Sigismondo Malatesta, Francesco Sforza”. Rappresentanti, cioè, delle famiglie italiane che, a diverso titolo e con diversi gradi di coinvolgimento, sono legate alla stirpe dei Paleologhi. Non a caso, il libro di Silvia Ronchey prende le mosse dall’arrivo a Costantinopoli, nell’estate del 1420, delle due spose occidentali promesse da Papa Martino V a due figli dell’allora imperatore Manuele II Paleologo. Le due giovanissime Sofia di Monferrato, destinata al futuro Giovanni VIII, e Cleopa Malatesta, abbagliante per sapienza e bellezza, promessa di Teodoro II, despota della Morea e predecessore del fratello Tommaso. E’ proprio Cleopa, dice Silvia Ronchey, “la vera eroina della storia. Tutto parte dal suo matrimonio, diretta conseguenza del Concilio di Costanza (1414-1418) e della risoluzione dello scisma d’occidente. Martino V diventa l’unico Papa, al prezzo della promessa, fatta a Bisanzio, di risolvere anche lo scisma d’oriente e il problema dell’unione delle chiese. Il matrimonio di Cleopa è un punto cruciale di questa saldatura, lo snodo da cui seguire la traccia del clan filobizantino e della sua influenza in Italia”. Cleopa era un fantasma che aleggiava sul libro di Silvia Ronchey, “una congettura, l’anello mancante per una ricostruzione credibile. Ho seguito le sue tracce da Mistrà, dove è vissuta e dove probabilmente è stata uccisa, fino a Rimini”. Lì, dall’archivio storico “è uscita la prova della conversione di Cleopa all’ortodossia, fatto che potrebbe essere stato all’origine della sua soppressione. In un manoscritto autografo di Bessarione ci sono poi dei versi funebri da lui dedicati in gioventù a Cleopa Paleologhina Malatesta, nei quali si parla di un affresco e di una iscrizione sulla sua tomba. Sono andata a Mistrà, e delle cose di cui parla Bessarione non ce n’è traccia. Ma la monaca di un antico monastero mi racconta del ritrovamento di una mummia, acconciata e vestita all’occidentale. Non possiamo essere sicuri che la mummia di Mistrà sia quella della sposa arrivata dall’Italia per Teodoro II. Ma gli archeologi dei tessuti confermano che quelle vesti sono di provenienza adriatica, e degli anni Venti del Quattrocento, quelli in cui a Mistrà si trovava Cleopa”. Silvia Ronchey la descrive come “bella, bionda, precocissima intellettuale, ferrata in greco antico e in latino, fine conoscitrice della letteratura classica, come si conveniva alla pupilla di uno zio potente come Carlo Malatesta, signore di Rimini e capo dell’illustre casata. E coraggiosa, perché riuscì a sopravvivere in una corte ostile, e a sedurre, dopo anni, il marito omosessuale, e ad avere da lui una figlia, Elena. Nel frattempo, Cleopa disegna Mistrà, le lascia la propria impronta inconfondibile. Soprattutto, seduce i componenti dell’Accademia di Pletone, l’indiscussa élite intellettuale dell’epoca. Sarà l’unica donna a essere iniziata ai loro segreti”.
Nell’ “Enigma di Piero” troviamo, magnificamente raccontate, le storie intrecciate di Cleopa, di Bessarione, di Enea Silvio Piccolomini, di Tommaso Paleologo e di molti altri giganti dell’epoca. Ma c’è, soprattutto, la storia della riconquista mancata di Bisanzio, della crociata fallita prima ancora di partire. Secondo Silvia Ronchey, “la rimozione che ha reso così incomprensibile la Flagellazione nasce da lì, da quel fallimento causato dall’incapacità, dalla non volontà, da parte dei principi della cristianità occidentale, di dar concretezza al sogno di Enea Silvio Piccolomini e di Bessarione”. Da qui nasce anche la radice del singolare magnetismo del quadro di Piero, “perché sentiamo che racconta qualcosa che ci coinvolge, ma non sappiamo esattamente che cosa. Interpella ciò che siamo diventati. Fa sentire in modo segreto, a noi smaliziati contemporanei abituati alle catastrofi globalizzate dalla televisione, il peso dolente, insopportabile, di una catastrofe avvenuta più di cinque secoli fa”.
La caduta di Costantinopoli, seppure preceduta da conflitti con l’occidente e da uno scisma mai sanato, secondo Silvia Ronchey “è stata come un 11 settembre elevato all’ennesima potenza. Non è per vetero-storicismo, ma quando un quadro comunica qualcosa di così forte, questo non può che essere legato alla realtà e alla politica del tempo in cui quell’opera è stata concepita”. Se la Flagellazione emoziona anche lo spettatore ignaro di ogni spiegazione è per “la sua perfetta, ancorché misteriosa, incarnazione di un’idea forte. Ha a che fare con il sangue, con la perdita, con la sconfitta. Con un’amputazione, uno scollamento che il nostro mondo paga, in un certo senso, ancora oggi”.
La rimozione di Bisanzio, si diceva, “è soprattutto una rimozione ideologica. Non c’entra la chiesa cattolica, come si potrebbe essere portati a credere. E’ un Papa, Pio II, una delle menti appassionate che lavorano per non ‘dimenticare Bisanzio’”. E allora? “E allora c’è una specie di grande imbarazzo, che nasce dal fallimento di cui parlavamo prima. Il fallimento di qualcosa, una crociata vittoriosa, che avrebbe risolto una gran quantità di problemi. La polemica attorno alla famosa donazione di Costantino, per esempio, perché Cesare e Pietro sarebbero stati di nuovo riuniti, il potere dei Papi e quello dell’imperatore avrebbero trovato una nuova radice comune”. La posta in gioco è talmente alta, che, nel momento in cui si capisce che quell’operazione è irrimediabilmente fallita, Bessarione sarà indotto a non puntare più sui principati italiani, ma sul nuovo principato russo, attraverso le nozze da lui combinate tra Zoe (poi detta Sofia) Paleologhina, figlia di Tommaso, e il Gran Principe di tutta la Russia, che di conseguenza potrà rivendicare la successione giuridica, l’eredità e il ruolo geopolitico di Bisanzio.
L’autore della Flagellazione respira quell’atmosfera intellettuale e politica: “Piero non è solo il depositario di una tecnica artistica, ma è personaggio dialogante con l’intero mondo, politico, storico e umano che lo circonda. Anche lui è un iniziato platonico, e sa usare la prospettiva in modo impressionate. Il personaggio che nella Flagellazione vediamo di spalle, come su una soglia rispetto al Cristo flagellato, è nella posizione dello spettatore del quadro. Che si sente risucchiato dal meccanismo prospettico, come se vi stesse entrando. Il coinvolgimento intellettuale e morale aveva un suo corrispondente visivo che a sua volta era frutto di uno studio a 360 gradi sulla prospettiva. E c’era insieme un messaggio morale forte: chi non è coinvolto, chi non entra, chi non si fa catturare, è come il turco”.
Piero della Francesca, Benozzo Gozzoli, Pisanello, Jacopo Bellini, Andrea Mantegna, lo stesso Carpaccio, sono tutti parte “del clan filobizantino. Sono parte, cioè, del piano politico di salvataggio di Bisanzio, sponsorizzato dalle massime famiglie, dai massimi intelletti politici dell’epoca, italiani e non solo. Quei grandi pittori sono tutti legati mani e piedi agli stessi committenti. E c’è un personaggio, in Francia, che probabilmente è il vero committente della Flagellazione: il cardinale Guillame d’Estouteville, artefice della riabilitazione di Giovanna d’Arco, parente del re di Francia e candidato al soglio pontificio nella stessa elezione che incoronò Enea Silvio Piccolomini come Pio II. C’era, insomma, un vero movimento d’opinione, tra i committenti e tra i pittori che si sceglievano reciprocamente”. Ma quello che rende “straordinaria la Flagellazione di Piero e che invece non c’è, a mio avviso, in opere come il Corteo dei Magi di Benozzo, che pure fa riferimento a sua volta ai legami con Bisanzio, è il rispecchiamento della paralisi della politica. Della luttuosità e del pessimismo di fondo, dello scacco dell’agire politico. La Flagellazione ci prende perché è avvolta in un’aura di emozione, di senso di colpa. Il dramma è sublimato nell’arte, ma ci viene detto che la politica è, comunque, un lago di sangue. Una serie di precedenti verbali della Flagellazione, come i discorsi di Papa Eugenio IV, mi convincono poi che forse i flagellatori non sono nemmeno turchi. Possono essere i pirati, i predatori, coloro che approfittano comunque della sofferenza altrui”. La Flagellazione è dunque il ritratto di un senso di colpa, “che nasce dal peccato originale della non consapevolezza. Una colpa dell’infanzia dell’età moderna, la colpa verso il mondo orientale, l’abbandono di Costantinopoli. Di un mondo, cioè, che a un certo punto è diventato esotico ma che fa ancora parte di noi e delle nostre radici”.
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La Repubblica | 17/05/2006 | Una pista Bizantina per Piero, Salvatore Settis
C’è una pista bizantina nella Flagellazione di Piero della Francesca. Il suo inesorabile congegno prospettico ci sconcerta con vertiginosa mise en abyme: Gesù flagellato è in secondo piano, in primo piano tre figure estranee all’azione principale conversano fra loro. Che rapporto c’è fra le due metà del quadro? Quando e dove ha luogo la conversazione sulla destra? La flagellazione avviene entro un edificio all’antica, a destra invece è una strada o piazza all’italiana, con edifici in pietra e in cotto e un giardino pensile folto di allori. Due luoghi e due tempi, dunque? Riconosciamo Pilato in trono, un carnefice in turbante (di spalle), i due flagellatori e il Cristo, ma chi sono mai i tre statuari dialoganti?
Nel quadro, lo sappiamo da J. D. Passavant che la vide prima di un improvvido «restauro» (ante 1839) c’era anche una scritta, Convenerunt in unum. Parole della liturgia del Venerdì Santo, riprese dal Salmo 2.2 («Insieme si son radunati i principi, contro il Signore e l’Unto del Signore»), e dagli Atti degli Apostoli 4.26 («Si sono adunati infatti Erode e Pilato, i gentili e gli Israeliti»). I tre dialoganti sono dunque complici di Pilato? Ma allora perché gli voltano le spalle? L’interpretazione tradizionale del quadro (basata su un inventario settecentesco) lo spiega con un aneddoto: il giovinetto biondo sarebbe lo scapestrato duca Oddantonio di Montefeltro, ucciso da una congiura a 17 anni (1444), ai lati due membri della sua famiglia.
Interpretazione dinastica, come la romanzesca ipotesi di Burckhardt (1860) che nella Deposizione di Raffaello vide il ricordo dell’uccisione di Grifonetto Baglioni, un altro giovanotto di dubbi costumi, della famiglia dei signori di Perugia. Il quadro celebrerebbe dunque Oddantonio, paragonandolo al Cristo flagellato: ma questa lettura è in realtà il frutto di una sua riabilitazione, orchestrata a fine Cinquecento dal duca di Urbino Francesco Maria II. A lui risale la commissione di un’opera storica ad hoc, di quegli anni è un ritratto di Oddantonio ricalcato sul giovinetto di Piero. La pista bizantina, a lungo offuscata da questa storietta di corte, fu aperta da Kenneth Clark (1950). La flagellazione del Cristo, argomento della conversazione che si svolge sulla destra, è per lui metafora della presa turca di Costantinopoli (1453); occasione del dipinto fu forse la Dieta di Mantova, convocata da Pio II nel 1459 per esortare i principi cristiani alla crociata; il dialogante barbuto sarà Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore di Bisanzio. Più tardi (1976) Thalia Gouma-Peterson sottolineò che Pilato ha il volto di Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore, che fu in Italia per il concilio di Ferrara- Firenze (1438-39), estremo tentativo di riunificazione delle chiese d’Oriente e d’Occidente per salvare il suo morente impero. Identificazione indubitabile, per la celebre medaglia del Pisanello, a cui si accompagnano molti suoi disegni e una vastissima eco nell’arte italiana. Dei tre dialoganti, quello di destra è un principe occidentale, quello di sinistra un Greco che fa da «ponte» fra Bisanzio e l’Europa, il giovinetto una figura allegorica.
Il Greco cerca di convincere un principe cristiano a intervenire in aiuto di Costantinopoli, la cui sofferenza è rappresentata dalla flagellazione del Cristo, sotto lo sguardo dolorosamente impotente di Giovanni VIII.
Ma chi è l’ambasciatore greco? Nelle famose Indagini su Piero (1981, 1994), Carlo Ginzburg lo identificò in Bessarione, il grande erudito (secondo nuovi documenti, imparentato coi Paleologhi), centro generatore dei progetti di unione delle Chiese e di salvataggio di Bisanzio. Ma fa problema la data presunta del quadro, intorno al 1459: Bessarione aveva allora cinquantasei anni, l’»ambasciatore » del quadro ne mostra venti di meno e non ha insegne cardinalizie. Il gentiluomo in broccato che lo sta ascoltando sarebbe allora il messo papale che gli recò nel 1440 l’annuncio della nomina a cardinale (Ginzburg lo identifica con Giovanni Bacci, che ricorre in altre opere di Piero); il giovinetto potrebbe essere Buonconte da Montefeltro, il figlio di Federico morto di peste nel 1458, di cui Bessarione aveva apprezzato le virtù. Insomma, il dipinto è del 1459, ma la scena rappresentata assomma in visione sinottica allusioni che vanno dal 1439-40 al 1458.
Ci voleva una bizantinista di consumata esperienza per portare questa pista fino in fondo. Con sapiente scrittura che intreccia quattro piani narrativi (il quadro di Piero, i rapporti Europa-Bisanzio, la storia delle ricerche e i contrasti di metodo fra storia dell’arte e antichistica), L’enigma di Piero di Silvia Ronchey (Rizzoli, pp. XIV-540, — 21) rilegge in chiave bizantina l’impianto e l’occasione del quadro.
L’identificazione di Pilato con Giovanni VIII è confermata, valorizzando specialmente i calzari di porpora, attributostandard dell’imperatore d’Oriente.
Come aveva proposto Chiara Pertusi (1994), il porticato che ospita Cristo e i suoi flagellatori allude a Bisanzio (il bronzo classico in cima alla colonna sigilla il livello metaforico della rappresentazione: questa flagellazione del Cristo non avviene in Gerusalemme, bensì in una città ricca di statue antiche, Costantinopoli); Gesù rappresenta la cristianità orientale sotto il flagello dei Turchi. Quanto all’ordinatore del supplizio, di spalle e con un gran turbante, è il sultano turco, scalzo perché aspira ai calzari del basileus. Sul limitare fra le due metà del quadro, Bessarione non ancora cardinale, con stivali da viaggio (da ambasciatore), alza la sinistra con la palma in basso, in un gesto di eloquio che in antico (per esempio nel Marco Aurelio del Campidoglio) fu quello del pacator orbis, il pacificatore del mondo. Parla a un principe occidentale, il gentiluomo in broccato, calzature di corte e sciarpa rossa (becchetto) sulla spalla: Nicolò III d’Este, che ospitò a Ferrara il Concilio del 1439. Fra loro, un giovinetto «porfirogenito» (nato nella porpora), e perciò vestito di rosso, ma coi piedi nudi perché anch’egli aspira ai calzari purpurei dell’Impero: Tommaso Paleologo, che fu a Ferrara da giovane e tornò in Italia per perorare, ultimo erede legittimo dell’impero, la riconquista se non di Costantinopoli almeno della Morea, di cui era stato despota. E’ questa dunque un’evocazione, datata c. 1459, di una scena di vent’anni prima: Bessarione argomenta davanti all’ospite del Concilio (dunque ai principi cristiani) la pace fra le Chiese e il riscatto di Bisanzio dal flagello turco. Evocazione eloquente non solo per la magia prospettica, ma anche per il gioco delle simmetrie: al Cristo fra i flagellatori corrisponde il giovane Paleologo assorto in regale distacco. Ai calzari purpurei dell’imperatore corrispondono i piedi nudi dei due aspiranti al la successione, il fratello Tommaso e il Gran Turco; il quale ultimo fa con la sinistra esattamente lo stesso gesto di Bessarione. Anche la sua è una «pacificazione del mondo», ma di segno opposto, la vittoria dell’Islam sulla cristianità orientale. Dipinta «secondo le intenzioni di Bessarione», la tavola di Urbino potrebbe essere stata un dono per lui: aveva senso rievocare, all’altezza della Dieta di Mantova, il pathos di quel mancato soccorso a Bisanzio che ne aveva permesso l’annientamento.
Per Silvia Ronchey, questo quadro privato presuppone una prospettiva che ricongiunge a quello europeo il punto di vista di Bisanzio. Perciò hanno un ruolo essenziale nel libro non solo il fascino duraturo che le delegazioni greche esercitarono sugli artisti italiani, ma le parentele fra principi italiani e la casa imperiale bizantina e le «spose occidentali» inviate in Grecia. Le dispute teologiche fra le due Chiese cedono il passo, davanti ai Turchi, a una Realpolitik giocata da una parte (i Greci) con le armi della disperazione, e dall’altra (i Latini) con mille astuzie, tese più a garantire a sé stessi l’eredità ideale di Bisanzio che a restituire agli ultimi Paleologhi i loro domini. Se fosse riuscita la crociata di Pio II, il despotato della Morea (il Peloponneso) poteva essere una testa di ponte della cristianità occidentale, anzi quasi un infeudamento al papa dell’impero romano d’oriente, una translatio imperii in senso inverso a quella di Costantino. Per Bessarione era più importante assicurare ai suoi signori un futuro dinastico; perciò Zoe, figlia di Tommaso Paleologo, sposò il Gran Principe di Mosca Ivan III, che assunse il titolo di Czar (cioè Cesare), e diventò l’erede legittimo di Bisanzio. Quelle nozze, in un’ultima illusione di onnipotenza, furono celebrate per procura a Roma, da Sisto IV, quasi che il sovrano russo gli si fosse sottomesso; ma nonostante la ricca dote pagata sulla cassa pontificia, a Mosca furono ricelebrate secondo il rito orientale (1472). La vera translatio imperii avvenne così verso Mosca, «terza Roma» secondo un leitmotiv della storia russa che s’incarna nelle parole del monaco Filofej di Pskov (1523), declamate anche dall’Ivan il Terribile di Eizensteijn: «Due Rome caddero, ma la terza Roma, Mosca, non cadrà».
L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro è il sottotitolo di questo libro ricco e avvincente. L’ultimo bizantino è Tommaso Paleologo, giovane nel quadro di Piero ma poi maturo «signore addolorato, di grande aspetto» quando torna in Italia con la reliquia della testa di Sant’Andrea; la crociata fantasma è quella tenacemente, vanamente voluta da Pio II. Ma quale è la rivelazione del quadro? Attratti dal suo enigma, in queste pagine vediamo riemergere l’Oriente cristiano che la memoria storica dell’Occidente ha marginalizzato, lo vediamo reintegrarsi con l’Europa, come nel 1459 era ancora possibile. Vediamo come il fallimento di quel progetto abbia sancito la divisione in due della cristianità, che ancora condiziona la scena geopolitica del mondo (secondo Victoria Clark, «i confini della NATO e dell’Unione Europea ricalcano quasi esattamente la più antica linea di frattura della storia europea, quella fra impero d’Oriente e d’Occidente, confermata dallo scisma del 1054»).
Indagando un grande dipinto, si dispiega ai nostri occhi un quadro ancor più vasto. Il grandioso scenario di pensieri e di passioni del Quattrocento diventa (è) il nostro.
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Specchio | 20/05/2006 | Bisanzio: cade l'ultimo enigma, Alberto Sinigaglia
La notte del 29 maggio 1453 Costantinopoli cade nelle mani di Mehmet II il Conquistatore. Irrorata di sangue come 249 anni prima, quando vi era approdata la quarta crociata franco-monferrina-veneziana. Stessa violenza distruttrice e assassina: civili d’ogni età sgozzati e fatti a pezzi. Solo il grido guerriero dei giannizzeri turchi è diverso: «Allah! Allah!». Fine dell’impero di Bisanzio. Spiega Silvia Ronchey: «Un 11 Settembre immensamente più devastante», sigillo dello scontro fra cristianesimo e islam. E investigando L’enigma di Piero, scopre che la straordinaria Flagellazione di Piero della Francesca (sopra, un particolare) racconta, con i suoi personaggi, un ambizioso progetto politico che fallì. Quasi il manifesto dell’estremo tentativo di salvare la civiltà bizantina.
L’autrice, rigorosa e caparbia, ne cerca tracce nei dipinti dell’epoca e negli archivi. Ma avendo il piacere e l’arte di narrare, ne trae un racconto avvincente e sorprendente. Chiama al proscenio il papa, il sultano, la principessa, cardinali, spie russe, torbidi signori rinascimentali e, «come un ragno nella tela, il genio politico dell’ultimo grande bizantino, Bessarione». Ripresenta con forza una cultura millenaria e i suoi valori. Si chiede - e ci chiede – perché l’Europa, proprio l’Europa, l’abbia rimossa.
L’enigma di Piero, di Silvia Ronchey, Rizzoli, 540 pagine, 21 euro
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Avvenire | 20/05/2006 | Piero e l'11 settembre di Costantinopoli, Michele Dolz
La Flagellazione di Piero della Francesca è tra i dipinti più noti della storia dell’arte, sebbene la sua scoperta e rivalutazione risalgano solo a metà Ottocento. Ma questa tavola detiene per così dire il primato dell’enigma, poiché fino ad oggi ci si è arrovellati nel decifrarne il significato. Sullo sfondo si riconosce facilmente un Cristo flagellato. A suo fianco un impassibile Ponzio Pilato guarda la scena con aria depressa, mentre di fronte e con le spalle volte all’osservatore si staglia un testimone vestito alla turca. Tutto questo in una sorta di porticato dalla prospettiva calibratissima. In primo piano, lontano da quella scena, tre personaggi sembrano discorrere in una serenità quasi triste.
A sciogliere il nodo arriva ora il libro della bizantinista Silvia Ronchey, L’enigma di Piero. Otto anni di ricerca, viaggi, confronti, interviste, sono state necessarie per compilare questa summa sul dipinto e ben si può dire che, dopo l’appassionata interpretazione di Adolfo Venturi nel 1911, costituisca il più alto tributo al quadro e forse anche a Piero come interprete del suo tempo.
Per l’autrice questo è un dipinto luttuoso che riesce a comunicare (verissimo!) un senso di paralisi, di incapacità all’azione, di ineluttabilità degli eventi. Il motivo del cordoglio va cercato nella caduta di Costantinopoli il 29 maggio 1453. Oggi non riusciamo a comprendere l’effetto devastante di quella perdita su tutto il mondo cristiano, ben di più di un 11 settembre.
La cultura occidentale ha rimosso il triste evento rendendosi però con questo incapace a comprendere se stessa, perché non si può prescindere dalla millenaria storia bizantina. Il libro chiarisce che la causa della rimozione non va cercata nella Chiesa cattolica, se fu proprio papa Pio II insieme al convertito cardinale Bessarione a volere non solo la memoria ma la riconquista di Costantinopoli. A questo scopo si tentò di organizzare una crociata per riportare sul trono di Costantinopoli Tommaso Paleologo, l’ultimo erede di Costantino arrivato esule in Italia. Siamo al Congresso di Mantova del 1459. Ma ad Ancona, nel 1464, i Gonzaga, gli Sforza, i Montefeltro arrivarono con poche truppe. A Ferragosto morì Pio II. Salpò soltanto Sigismondo Pandolfo Malatesta, che sarebbe riuscito a fare una incursione più ardita che efficace entro le mura di Mistrà. La rimozione dipenderebbe da questo fallimento collettivo. E a tale congiuntura storica si riferisce, secondo l’autrice, la tavola pierfrancescana. Il Ponzio Pilato del portico sarebbe Giovanni VIII Paleologo, che nel 1438 guidava la delegazione orientale al Concilio di Ferrara; sotto la sua guida l’impero si indebolì. Il Cristo flagellato è la Chiesa d’Oriente minacciata e colpita dall’avanzare islamico. Di spalle, il sultano assiste alla sconfitta dei cristiani. I personaggi in primo piano sarebbero, da sinistra, il cardinal Bessarione, che aprì il concilio nel ’38 con la prospettiva dell’unificazione delle due Chiese. Al centro il giovane Tommaso Paleologo, fratello di Giovanni VIII, attende dall’Occidente un aiuto per difendere Bisanzio. Infine Niccolò III d’Este, che ospitò il concilio. Una scritta persa in un restauro recitava: «Convenerunt in unum», riferendosi certamente al Concilio di Ferrara ma anche all’assise di Mantova in vista della crociata indetta da Pio II. All’epoca l’aiuto a Tommaso Paleologo non arrivò. Vent’anni dopo, nel 1459-1460, Piero o il suo committente invitano a non ripetere lo stesso errore.
Ma l’errore, se errore fu, si fece.
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Io Donna | 20/05/2006 | Il codice di Piero, Anna Maria Speroni
A volte, con certi libri, è meglio non lasciarsi ingannare dalle apparenze. L’enigma di Piero (Rizzoli), in libreria da alcuni giorni, è uno di questi. Possono 520 pagine dedicate a un solo dipinto appassionare un pubblico diverso da quello degli addetti ai lavori? Possono. L’autrice per prima lo definisce “mattone”, ma è meglio non darle retta: il volume di Silvia Ronchey è un esempio riuscito di ricerca storica tradotta a uso dei non esperti. E montata come un poliziesco. Lo scopo è comprendere il significato di un quadro misterioso: per farlo si cercano indizi, attraverso gli indizi si ricostruiscono eventi dimenticati, grazie a questi eventi si imbastisce una teoria suggestiva.
Il punto di partenza è la Flagellazione di Piero della Francesca (alla Galleria nazionale della Marche di Urbino), uno dei dipinti più incomprensibili della storia dell’arte. Sconosciuta la committenza, la data, il significato, vero enigma, appunto, per gli studiosi da un secolo e mezzo a questa parte.
Perché è tanto strano?
«La maggior parte dei dipinti ha vari livelli di lettura. Di solito almeno uno è evidente. La Flagellazione invece sconcerta perché non è chiaro neanche il primo livello: Cristo messo sullo sfondo, quei tre uomini in primo piano che parlano senza dar peso alla scena dietro di loro... Una composizione del genere non ha senso neppure a una lettura superficiale».
Perché Piero della Francesca sarebbe stato così oscuro?
«È proprio questo il punto: lui non era stato oscuro per niente. Il quadro era leggibilissimo per i contemporanei. Loro sapevano che cosa significasse».
Che cosa?
«Cristo flagellato rappresenta la chiesa d’oriente e Costantinopoli distrutte dai turchi; quello che sembra Ponzio Pilato è Giovanni VIII Paleologo, imperatore di Bisanzio; il personaggio di spalle è il sultano turco. I tre in primo piano sono Bessarione, il diplomatico bizantino che nel 1438 aveva sollecitato (senza successo) l’intervento delle signorie italiane a favore di Bisanzio; Tommaso Paleologo, erede al trono; e Niccolò III d’Este, padrone di casa al concilio di Ferrara del 1438-39 dove Bessarione aveva chiesto aiuto».
E i contemporanei di Piero erano in grado di leggere tutto questo?
«Ma certo. La caduta di Costantinopoli nel 1453 fu un evento epocale. Ebbe un impatto tremendo sulla gente. Era l’Islam che distruggeva la cristianità, l’impero romano d’oriente che crollava dopo quasi mille anni. Un 11 settembre all’ennesima potenza. Bisanzio non era un mondo a parte: i sovrani erano imparentati con quasi tutte le famiglie italiane che contavano, Este, Sforza, Montefeltro, Gonzaga, Malatesta, papa Pio II Piccolomini; era un territorio enorme in cui varie etnie riuscivano a convivere; garantiva le comunicazioni dell’Europa con l’Estremo Oriente».
Come abbiamo fatto a dimenticarlo?
«È stata una colossale rimozione. L’Occidente tentò di salvare Costantinopoli ma non ci riuscì. E preferì dimenticare il fallimento. Probabilmente appena tre generazioni dopo i fatti nessuno era più in grado di comprendere il significato della Flagellazione».
Che era?
«La rappresentazione di quanto successo nel 1438: le signorie perse in chiacchiere mentre i turchi distruggono l’impero. Qualcuno, forse Bessarione, volle il dipinto nel 1459 (questa la sua data, secondo me) per portarlo al concilio di Mantova, dove si sarebbe deciso se organizzare o no una crociata contro i turchi. Era un manifesto politico, uno strumento di propaganda, un invito ai nobili italiani a non comportarsi come nel 1438. Un invito a intervenire».
E come andò?
«Male. Solo Sigismondo Pandolfo Malatesta partì per la crociata. L’impero romano d’Oriente era finito».
La Flagellazione è stata interpretata in vari modi, spesso molto diversi dal suo. Perché è così convinta di avere ragione? Non è che lei, essendo una bizantinista, vede bizantini dappertutto?
«Non ho inventato niente. Ogni elemento del libro è riconducibile a una fonte. E già altri studiosi prima di me avevano avuto intuizioni simili».
Quanto ci ha messo a prepararlo?
«Sette anni. In famiglia non mi sopportavano più. L’unico solidale è stato il gatto, sempre seduto vicino al computer».
I suoi studenti l’hanno aiutata?
«Molto. Hanno girato di loro iniziativa per biblioteche e monasteri, pieni di entusiasmo. Ma quello che conta è imparare un metodo. Questo dovrebbe trasmettere l’università: far capire che non bisogna mai fermarsi a quello che ci viene detto, perché le cose potrebbero stare in un altro modo. Bisogna avere parametri rigorosi per conoscere e interpretare la realtà, criticare non vuol dire parlare a vanvera».
Lei insegna Civiltà bizantina: è una materia scelta da molti studenti?
«Considerato che Siena è una università abbastanza piccola direi di sì: ne ho una cinquantina. Quando studiavo io eravamo in due».
Così pochi?
«Gliel’ho detto, l’interesse per la storia bizantina è recente. La rimozione è durata almeno cinquecento anni».
Perché adesso interessa di più?
«Perché quei paesi sono più vicini: alcuni appartengono già all’Unione europea, altri ne diventeranno parte».
E lei perché si è dedicata proprio a questo pezzo di storia e di mondo?
«Ho frequentato il liceo negli anni Settanta. Non si faceva lezione quasi mai, i giorni passavano tra occupazioni e assemblee. Io dopo un po’ mi annoiavo, si dicevano sempre le stesse cose... Così andavo in biblioteca a tradurre greco e latino. E più studiavo e traducevo, più mi accorgevo di quanto ci fosse ancora da scoprire».
Una vera passione.
«La ricerca è meravigliosa. È anche un antidepressivo potente. E aiuterebbe tanti adolescenti sostanzialmente depressi e un po’ rimbambiti a scuotersi, a scoprire l’esistenza di cose gratuite molto più interessanti e gratificanti di quelle che si comprano».
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Il Resto del Carlino | 22/05/2006 | L'enigma di Piero: soluzione a vista, Luigi Luminati
Ci può raccontare un quadro come fosse la fotografia di un grande giallo storico? Si può sciogliere un enigma di interpretazione lungo un secolo con sette-otto anni di ricerca incrociata tra storia bizantina e rinascimentale, arte e politica, letteratura e religione? Si può pensare che una tavola dipinta su legno, di modeste dimensioni, sia così importante per la storia dell’Occidente e abbia qualcosa di magico, una sorta di karma, che le ha consentito di evitare acquirenti d’arte francesi e inglesi, e di passare senza danni attraverso un clamoroso furto di capolavori?
Si può, se siete Silvia Ronchey, docente di civiltà bizantina all’Università di Siena,
fine storica ma anche donna capace di raccontare le storie che sa, fors’anche per l’esperienza televisiva. Si può perché Silvia Ronchey ci riesce benissimo nel suo «L’enigma di Piero», dedicato alla Flagellazione, ospite da più di un secolo della Galleria nazionale di Palazzo Ducale a Urbino, ma dedicato, sostanzialmente, al racconto di un periodo storico fondamentale, che ha inciso profondamente anche nella società in cui viviamo.
L’ultimo bizantino
Il declino e la scomparsa di Bisanzio, con la presa di Costantinopoli ad opera dei turchi nel 1453, è al centro del messaggio «politico» del quadro di Piero della Francesca. Dipinto che ha più letture sovrapposte, ma nasce in un ambiente, quello delle signorie italiane, permeato dall’importanza della sopravvivenza di Bisanzio anche per l’Occidente e dall’incapacità collettiva di affrontare il problema. «La caduta di Bisanzio è paragonabile — spiega Silvia Ronchey — alla distruzione delle torri gemelle di New York. Perciò occuparsi di quella storia è come discutere del presente. Nel 1453 la civiltà occidentale affronta un interlocutore pericoloso, allora, come forse oggi, non ha gli strumenti per comprenderlo fino in fondo. L’Impero Bizantino, da questo punto di vista, con i suoi undici secoli di storia multiculturale e multireligiosa, probabilmente li aveva. Ma l’occidente, dopo la caduta di Costantinopoli, ha pensato bene di dimenticare Bisanzio».
Insomma la Flagellazione è allo stesso tempo la fotografia di un lutto - la sconfitta di Bisanzio - ma anche l’esortazione a reagire, a combattere, a tentare di recuperare quella tradizione attraverso una crociata.
Il fallimento
E’ in sostanza l’immagine di un fallimento. «E’ evidente che l’elemento della sconfitta è incombente — aggiunge Silvia Ronchey —, ma c’è anche una esortazione al fare. Diciamo che rilancia sia l’ottimismo della volontà che il pessimismo della ragione». Il quadro, ma anche e soprattutto il libro, si racconta attraverso i personaggi, che sono tanti. Ma il cardine è Bessarione, il nobile e religioso bizantino, che diventa cardinale cattolica, combatte con ogni mezzo politico per ottenere il risultato: impegnare la Chiesa ed i principi italiani ed europei nel salvataggio di Bisanzio. Bessarione è una sorta di Richelieu, un uomo che utilizza tutti i mezzi politici a sua disposizione per arrivare al risultato finale. «E’ l’evidenza della capacità degli intellettuali di quell’epoca — spiega Silvia Ronchey — di essere anche uomini di Stato. Bessarione è così acculturato da farsi venire i calcoli renali a forza di leggere e copiare libri. Tanto che lascerà a Venezia una biblioteca ricchissima. Ma nel contempo porterà avanti un disegno preciso ai massimi livelli politici del Rinascimento».
Si fa cardinale cattolico il «basileus» bizantino. Lo fa mantenendo sempre gli abiti della sua tradizione: le vesti nere, i cappelli caratteristici, la barba lunga a due punte. E’ così che viene ritratto in diversi quadri, anche da Burruguete per la serie degli uomini illustri commissionata dal Duca Federico. E’ così che lo troviamo tra i tre personaggi in primo piano della Flagellazione. «La conversione è un mezzo non un approdo, Bessarione rimarrà sempre un bizantino», spiega l’autrice.
L’eredità di Bessarione
Alla fine non riuscirà nell’intento, nonostante due concili organizzati in Italia per superare le divergenze religiose tra cattolici ed ortodossi e per riunire lo scettro di Costantino ed il soglio di Pietro. Bessarione esce sconfitto ed allora decide, nella sostanza, di attuare quello che potremmo definire il «piano B». Fa sposare l’ultima erede della dinastia dei Paleologhi, Zoe, con il Gran Principe di Russia. «Riaffidando così — spiega Silvia Ronchey — l’ortodossia religiosa e l’eredità giuridica di Bisanzio al nascente impero russo. Sembra poco ma è tanto. Ci sarà l’impero zarista, ci sarà Stalin che era un bizantinomane. Il Papato viene sconfitto e di lì a poco subirà la Riforma protestante. Se fosse tornato a Roma il titolo di Costantino forse la storia d’Europa sarebbe stata diversa. Se fosse riuscita la crociata sognata da Bessarione non avremmo avuto l’attuale situazione dell’area Balcanica. Tutto sarebbe cambiato». Nel frattempo cambia il pontefice, Pio II (Enea Silvio Piccolomini), che tanto si era battuto per sostenere Bessarione e che aveva riportato le reliquie di S. Andrea in vista della riunificazione religiosa e politica, muore. Senza di lui cambia la politica di Roma, cambia l’atteggiamento della Curia e Bessarione pensa bene di togliere tutto alla Chiesa cattolica: l’eredità Bizantina, ma anche la sua, personale. I suoi inestimabili libri.
Freddy dal naso spaccato
E, come in un giallo che si rispetti, per ottenere questo risultato, Bessarione si rivolge a colui che era stato il principale oppositore dell’idea di una crociata per Bisanzio. Colui che si era opposto all’iniziativa patrocinata dal Papa e da Sigismondo Malatesta con tutta la sua forza e la sua capacità di influenza politica.
Si tratta di Federico da Montefeltro, che viene nominato esecutore testamentario della consegna della biblioteca di Bessarione alla Repubblica di Venezia. «Tra i due c’era un’amicizia di fondo, Bessarione sapeva che Federico era capace di tener testa ai vescovi romani che avrebbero voluto impadronirsi del suo tesoro. Si fidava del Duca di Urbino», racconta Silvia Ronchey. Federico aveva fatto cresimare da Bessarione suo figlio pochi mesi prima della morte del cardinale bizantino. Quest’ultimo aveva lasciato i suoi libri e probabilmente parte dei suoi beni ad Urbino contando di ritornarci. La morte lo coglie in viaggio, chissà cosa è invece rimase a Urbino? «Sappiamo dall’elenco della donazione— aggiunge la storica —, conservato alla Biblioteca Oliveriana di Pesaro cosa è finito a Venezia. Federico da Montefeltro è stato molto rigoroso e serio. Ma ciò non toglie che altro sia rimasto ad Urbino, a cominciare dalla tavola di Piero».
Il mistero urbinate
In sostanza la piccola tavola che ha interessato tanti storici dell’arte, altro non era che un dipinto portatile. Presumibilmente dello stesso Bessarione, che poi lo ha lasciato al molto amato Duca Federico. E non è poco. Visto l’interesse che il dipinto suscita dall’inizio del Novecento. «E’ un interesse che interpreta un senso di colpa collettivo, è il simbolo di una perdita per la civiltà occidentale. Un peso che ci portiamo dietro», chiosa Silvia Ronchey. Ma è anche un’opera con tanti piani di lettura: «C’è un messaggio elitario rivolto ai grandi politici ed intellettuali dell’epoca. Ma c’è anche un esoterismo platonico che dà un’impronta di sé al quadro. Elementi matematici, armonie prospettiche, accenni di cabale numerologiche, ancora da capire, ancora da studiare».
Esoterismo e sincretismo
D’altra parte non si può capire fino in fondo la «Flagellazione» senza pensare a Leon Battista Alberti, al Tempio Malatestiano di Rimini, ma anche alle Accademie Platoniche che sorsero a Firenze, Urbino, Roma e Rimini in quel tempo. Non si può svelare l’enigma di Pietro senza imbattersi in altri. Come quello di Sigismondo che torna dalla sfortunata crociata di Morea riportando le spoglie di Gemisto Pletone, che era già stato ospite del signore di Rimini in vita e che torna in riva all’Adriatico per riposare per sempre. E per consacrare ad un’idea rinascimentale il Tempio Malatestiano.
«E’ la prova dell’innesto — scrive Silvia Ronchey— della cultura bizantina. Il Rinascimento nasce dalle ossa dei bizantini. Senza l’esoterismo platonico non si decifra il Tempio Malatestiano e tanti influssi successivi».
L’altro enigma: Cleopa
La pesarese Cleopa, figlia ultimogenita di Malatesta dei Malatesta (detto dei Sonetti per la sua propensione alla poesia) signore di Pesaro, era stata adottata dal potente Carlo Malatesta, signore di Rimini e capo della famiglia. Rischiò di diventare imperatrice bizantina per aver sposato Teodoro II, despota di Morea, e secondo nella successione imperiale. Cleopa, a differenza di un’altra sposa occidentale dei Paleologhi, Sofia di Monferrato, rimase fedele alla sua «missione politica» di collante tra est e ovest. Aveva la fiducia del pontefice ma conquistò gli intellettuali platonici, morì troppo presto, improvvisamente, con risvolti misteriosi, quando secondo Silvia Ronchey, «dalle orazioni funebri bizantine si può capire che potesse essere anche incinta». Ma è di Cleopa il corpo mummificato rinvenuto qualche lustro addietro in un santuario di Mistrà?
Altre ricerche da fare
Sciolto, per quanto possibile, l’enigma di Piero, individuati dalla Ronchey tutti i personaggi coinvolti: Cristo rappresenta Costantinopoli flagellata dai turchi, l’uomo di spalle il sultano Mehmet II che guida i carnefici, sul trono Giovanni VIII Paleologo che come Ponzio Pilato cerca di salvare il salvabile. In primo piano ci sono Bessarione, il «porfirogenito» (nato nella porpora) Tommaso Paleologo e Niccolò III d’Este come protagonisti del disegno di riconquista di Bisanzio. Restano però altre ricerche da fare. Silvia Ronchey avrebbe anche un suo piano di lavoro: «Mi piacerebbe determinare se la mummia recuperata è davvero Cleopa. Ci vorrebbe un esame del Dna, sono già in contatto con il comune di Rimini, ma il problema è trovare un erede dei Malatesta vivente. C’è tanto da studiare sulla presenza di Bessarione e dei suoi allievi tra l’Adriatico ed il Montefeltro».
Nel frattempo possiamo consolarci con questa straordinaria permanenza della «Flagellazione» di Piero della Francesca a Urbino. «E’ inspiegabile come non sia stata acquistata da Lord Eastlake nell’Ottocento — conclude Silvia Ronchey —, oppure come sia passata indenne attraverso i secoli ed un clamoroso furto. Evidentemente ha un suo karma e le circostanze hanno voluto che rimanesse dove doveva rimanere. Nel posto giusto».
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Il Venerdì di Repubblica | 26/05/2006 | Quell'11 settembre di 500 anni fa, Brunella Schisa
Ci voleva una storica bizantinista come Silvia Ronchey per sciogliere l’enigma di uno dei quadri più studiati del ’400, la Flagellazione di Piero della Francesca, che racconta l’ultima rovinosa crociata per salvare Costantinopoli, caduta in mano ai turchi nel 1453. Il Cristo flagellato, secondo l’autrice, che ha dato un nome a tutti i personaggi, rappresenta Bisanzio, allora assediata dai musulmani. A sinistra, il sultano turco assiste alla scena, mentre in Ponzio Pilato si cela l'imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo. Le tre figure sulla destra rappresentano i protagonisti di quel fallimento.
Un quadro incomprensibile per noi ma chiarissimo nel '400.
«Nella metà del ‘400 la realtà era evidente e lo è stata per tutto il Medioevo. Bisanzio era l’America, la cultura dominante, il paese forte e ricco, il punto di riferimento della civiltà, la potenza egemone. Nel momento in cui cade Costantinopoli, si scatena un’emozione paragonabile a quella dell'11 settembre».
E tutta quest'emozione nel quadro è presente?
«Certo, e i contemporanei la capivano, ma poiché la storia è scritta dai vincitori, dopo il fallimento del tentativo di riprendersi Costantinopoli, se ne perde la memoria».
Si può dunque dire che la Flagellazione è il manifesto del mancato ricongiungimento tra Roma e Bisanzio?
«Sì, per questo il quadro ha un alone luttuoso. È un manifesto del pessimismo della ragione unito all’ottimismo della volontà. Il manifesto della paralisi umana di fronte alla storia».
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il Sole 24 ore | 28/05/2006 | Enigmi artistici, Marco Carminati
Da anni la bizantinologa Silvia Ronchey insegue la sua pista, interrogando senza sosta uno dei dipinti più enigmatici della storia dell'arte, la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca conservato nel Palazzo Ducale di Urbino.
I risultati della sua «caccia al quadro» sono contenuti nelle cinquecento pagine del nuovo libro. Il dipinto è il protagonista della trama, ma attorno ad esso ruotano come in un vortice papi e cardinali, imperatori e marchesi, cortei di dame e cavalieri. Lo sfondo storico e politico della vicenda è uno dei più drammatici della storia europea: siamo alla metà del Quattrocento, l'antica Costantinopoli, capitale dell'Impero Romano d'Oriente, sta per essere ingoiata dalle fauci della Mezzaluna.
L'Occidente è sotto choc. Secondo Silvia Ronchey la Flagellazione di Urbino si comprende solo se inserita in questo fosco contesto.
In passato erano prevalse letture diverse. Roberto Longhi era convinto che il dipinto nascondesse la memoria di Oddandatonio da Montefeltro, trucidato nel 1444; altri studiosi come Gombrich o Bertelli rifiutarono la storicità delle figure rappresentate, preferendo tentare letture allegoriche-biblico-teologiche. Nel 1950 Kenneth Clark fece da apripista a un nuovo filone di lettura: la tavoletta andava associata alle sofferenze della Chiesa flagellata dall'avanzata dei Turchi. Su questo solco s'è inserita Silvia Ronchey.
La sorte di Bisanzio sarebbe il vero tema del quadro. Le tre figure poste in primo piano si riferirebbero ad avvenimenti che si svolsero nel 1459, probabile anno della realizzazione del quadro. La parte di sinistra invece, posta come in retroscena, farebbe invece riferimento a un episodio avvenuto nel 1439, però da mettere in relazione col colloquio in primo piano.
Nel 1453 Bisanzio era caduta nella mani del sultano Mehmet II. Nel 1459, su invito di papa Pio II, si riunì a Mantova un vertice internazionale nel disperato tentativo di organizzare la riscossa cristiana in Oriente e in particolare nella Morea, ultima roccaforte bizantina che ancora resisteva all'avanzata turca. Sul trono di Morea il papa voleva reinstallare Tommaso Paleologo, l'ultimo esponente in vita della famiglia imperiale. Il cardinale Bessarione era stato il grande artefice del concilio.
Secondo Silvia Ronchey, la parte destra del dipinto, illustrerebbe i protagonisti di questi fatti, i quali convenerunt in unum, come recitava la perduta iscrizione sulla base del dipinto. Il terzetto sarebbe così identificabile: come già aveva intuito Carlo Ginzburg (1981), il Bessarione è la figura col turbante all'orientale, la barba biforcuta, le vesti eleganti e gli stivaletti da viaggio. Bessarione sta parlando col gentiluomo in broccato che si trova all'estrema destra. In passato si è voluto riconoscere in lui Giovanni Bacci, il committente degli affreschi di Piero ad Arezzo, ma la Ronchey propone adesso di riconoscervi Niccolò III d'Este. E chi sarebbe il giovane apollineo che sta muto al centro della scena? Studiosa del mondo e del cerimoniale bizantino, Silvia Ronchey osserva che il giovane veste la porpora, il panno esclusivo degli imperatori. Il giovane è bello, biondo, con gli occhi azzurri come le fonti descrivono l'ultimo rampollo della casata imperiale, quel Tommaso Paleologo giunto nel 1460 in Italia «spogliato, profugo, nudo, rivestito solo dei suoi natali». La Ronchey fa notare che il giovane è scalzo. Un fatto altamente simbolico: un imperatore bizantino era tale solo se indossava le pantofole del basileus. Tommaso Paleologo è scalzo perché è stato detronizzato.
Se sono loro i tre personaggi del "proscenio" e due di loro stanno parlando, che cosa si stanno dicendo? Come in un flashback, ottenuto grazie all'applicazione della prospettiva, il "retroscena" a sinistra ci riporta indietro nel tempo alle discussioni che animarono il concilio di Firenze, celebrato nel 1439 alla presenza dell'imperatore Giovanni VIII Paleologo e di Bessarione per sancire la riunione della chiesa latina e quella orientale. Bisanzio e la cristianità erano in grave pericolo, erano sottoposte a flagelli come Cristo alla colonna. Nel dipinto si vede l'imperatore Giovanni VIII (e non Pilato come s'è creduto) che assiste alla scena del supplizio, seduto in trono, di profilo (come in una celebre medaglia di Pisanello), con le insegne della sua dignità bene in vista, il cappello a punta, la veste e le pantofole purpuree. La scena della flagellazione sembrerebbe ambientata a Costantinopoli, città che all'epoca conservava molte reliquie della Passione, tra cui la colonna della flagellazione. Il signore di spalle col turbante in testa che assiste al supplizio è con ogni probabilità il sultano Mehmet II, colui che non è ancora giunto a Bisanzio ma che vede da vicino l'umiliazione del cristianesimo e del suo impero.
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La Stampa | 19/06/2006 | Altrove, Guido Ceronetti
Non risulta a Vespasiano da Bisticci che Federico da Montefeltro conoscesse il greco. Ma aveva studiato Omero e Platone, i tragici e i lirici. Si faceva sempre leggere qualcosa in latino, durante i pasti, per esempio le Storie di Livio. Gli piaceva anche l’italiano di Dante, Petrarca, Boccaccio. Soprattutto, adorava la filosofia.
Aveva una mente metodica e ordinata. Ogni cosa alla sua corte era bene organizzata e rigorosamente fuori moda come in un monastero. Per esempio, voleva che i libri fossero «scritti con la penna», su pergamena, e invece di comprare, come tutti, i nuovi incunaboli, manteneva una squadra di copisti. Mangiava poco, evitava i dolci e non beveva vino, ma sidro di ciliegia, di melograno o di mela
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QN Quotidiano Nazionale | 20/06/2006 | La crociata fantasma dell'ultimo Bizanti…, Luigi Luminati
La tavola, dipinta su legno, è piccola: 58,4 centimetri x 81,5. Forse per questo è scampata, nell’Ottocento, alla razzia dei compratori d’arte francesi ed inglesi, rimanendo nel Palazzo Ducale di Urbino. Eppure attorno al significato della "Flagellazione" di Piero della Francesca hanno discusso fiori di storici dell’arte, cercando di individuare i personaggi e di svelare così «l’enigma di Piero». L’operazione è felicemente riuscita a Silvia Ronchey , docente di Civiltà Bizantina all’Università di Siena che racconta dell’«ultimo bizantino » e della «crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro » nel suo «L’enigma di Piero» (Rizzoli).
L’enigma è risolto?
«Credo che sia risolto l’enigma fondamentale del messaggio politico contenuto nella tavola. Piero racconta dell’estremo tentativo di salvare l’Impero bizantino dalla conquista turca.Un tema politico molto importante in quei decenni del ’400».
E’ lo specchio di un fallimento...
«Direi che i piani di lettura della "Flagellazione" sono molteplici. C’è un messaggio che definirei elitario, rivolto ai grandi intellettuali che, a quell’epoca, erano anche attori veri della politica. Ove si esprime un pessimismo di fondo sulla possibilità vera dell’agire umano sulla storia. E’ l’alone di sconforto, pessimismo, cupezza che emerge. Mac’è un controcanto all’esortazione politica, all’agire. Ottimismo della volontà, pessimismo della ragione ».
C’è poi il piano esoterico, che lega Piero al Tempio Malatestiano di Rimini, alle Accademie Platoniche.
«C’è una chiara impronta nel quadro: elementi matematici, armonie prospettiche, piani di lettura. Credo anche cabale numerologiche che andrebbero ancora studiate ».
In realtà il protagonistaprincipale del quadro è Bessarione, l’unico religioso bizantino che diventa cardinale cattolico. Una sorta di Richelieu dell’epoca.
«Un grande intellettuale che gioca su tutti i tavoli pur di salvare Bisanzio. Si fa cattolico restando, in sostanza, ortodosso. Testimoniandolo con l’aspetto esterno, ma soprattutto con la sua presenza politica nelle Corti rinascimentali. Non era un convertito vero, era un leader di Bisanzio».
Il suo tentativo di riunire il soglio di Pietro ed il titolo di Costantino fallisce...
«E la Flagellazione ne è il simbolo: con il sultano che guida i flagellatori, l’imperatore che assiste impotente e con i tre personaggi in primo piano, di cui uno è sicuramente Bessarione. Il quale, nonostante non riesca a salvare Bisanzio, che cade nel 1453 in mano ai turchi, trova il modo di lasciare l’eredità di questo impero multietnico durato undici secoli. E lo fa affidando la chiesa ortodossa e l’eredità giuridica di Bisanzio al nascente impero russo attraverso il matrimonio dell’ultima erede».
Se Bessarione avesse raggiunto il suo obiettivo...
«Avremmo avuto una storia diversa, un’Europa completamente diversa. L’attualità di quelle vicende è sotto gli occhi di tutti. Non a caso ho paragonato la caduta di Costantinopoli alle Torri gemelle».
Invece Bisanzio è stata quasi rimossa dalla cultura occidentale...
«Vero, di qui la difficoltà di capire la tavola che Bessarione probabilmente portava con sé, fino a lasciarla, poco prima della morte, a Federico da Montefeltro».
Sigismondo Malatesta e Federico sono tra i grandi protagonisti del libro...
«Bessarione era riuscito, con il matrimonio di Cleopa con Teodoro ad imparentare la dinastia dei Paleologhi con iMalatesta e di conseguenza il pontefice e molte signorie italiane. La bellissima principessa pesarese-riminese lottò in tutte le maniere per sopravvivere e per portare avanti questi disegno, fino alla morte, così improvvisa da far sorgere sospetti, soprattutto perché nell’orazione funebre di Bessarione si dà l’idea di un possibile erede...».
Eppure Bessarione affida a Federico da Montefeltro l’altro suo tesoro: la sua sterminata biblioteca, destinata a finire a Venezia. Nonostante il Duca di Urbino sia il principale oppositore politico alla crociata fantasma di Sigismondo e del Papa.
«Lo fa perché è un uomo di grande cultura, che copia di suo pugnomolti testi antichi. E’ un politico capace e sa benissimo che Federico è un principe illuminato, ma anche capace di tenere testa alla Curia romana. In realtà Bessarione toglie tutto al nuovo pontefice: l’eredità politica di Bisanzio che va in Russia, la capacità di riassorbire lo scisma ed anche i suoi libri, l’altro suo tesoro, che attraverso Urbino finiscono alla Repubblica di Venezia».
Mentre la piccola tavola in legno di Piero rimane al Duca di Urbino...
«Proprio così...».
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il Venerdì di Repubblica | 07/07/2006 | Islam e Cristianità, la crisi in due dat…, Rosanna Zerilli
Prendendo spunto da uno dei quadri più belli ed enigmatici del Rinascimento, Silvia Ronchey, che insegna storia bizantina all'università di Siena, nel suo L'Enigma di Piero (Rizzoli, pp. 513, euro 21), tenta con coraggio di sciogliere il mistero che da sempre avvolge la Flagellazione di Piero della Francesca. Con una felice intuizione anche astrologica, l'autrice paragona la data della caduta di Bisanzio (29 maggio 1453) all'11 settembre 2001: due eventi epocali, visti attraverso la crisi del rapporto tra Islam e cristianità. La sua originale analisi induce a considerazioni, che restituiscono al lettore l'atmosfera del mondo bizantino quasi dimenticato dalla cultura moderna, eppure essenziale per capire il senso degli eventi di oggi.
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Corriere del Ticino | 22/07/2006 | Il mistero di Piero. La «Flagellazione»,…, Carlo Carena
La tavoletta misura 0,89 per 0,81 centimetri ed è appesa a una parete del Museo di Urbino, entro l’enorme Palazzo Ducale costruito da Luciano Laurana nel 1465. Accanto ha la Madonna di Senigallia e la Veduta di una città ideale, forse del medesimo artista. La tavoletta rappresenta una delle scene più truculente e atroci di tutta la tradizione storica e pittorica europea: la Flagellazione di Cristo, che non dico nell’arte posteriore, del Cinque e soprattutto del Seicento, giunge al parossismo, ma già nell’arte medievale è rappresentata con brutti ceffi, sibili di sferze, urla e sputi. Qui l’azione si svolge nell’immobilità e nel silenzio più assoluti, con pallidi colori e tenui respiri, come in un acquario, e con personaggi che, per dirla con Bernard Berenson nel suo capitolo sulla «impassibilità » di Pietro della Francesca, «non curano le bufere e gli urti della vita» e mostrano come il loro stesso pittore, con nostro grande piacere e ammirazione, dispieghi una «incommensurabile superiorità alle nostra passioni ed ai nostri dolori».
Nella metà di sinistra, sul fondo di un portico ionico, un grave signore seduto osserva assieme a un dignitario di spalle due uomini statuari ed uno ignudo tranquillamente appoggiato a una colonna. A destra, in primo piano e del tutto al di fuori di quel quadrato magico, due anziani signori si fronteggiano di profilo (uno sembra battere il tempo con la mano) e chiudono in mezzo un bel giovane biondo.
Ci si può accontentare di cogliere la bellezza soave della prospettiva sui lucidi pavimenti a scacchi o sulle mura dei palazzi; godere dei colori pallidi e tenui che si rilevano appena appena dalle architetture classiche. Ma anche così, qualcosa inquieta in questi pochi centimetri di spazio, sui quali non possediamo alcun documento; e non ci si è mai accontentati dell’episodio, bensì ci si è sempre e sùbito interrogati su cosa esso celi e cosa in realtà rappresenti.
C’è una tradizione locale e a lungo accettata, secondo cui la scena rappresenta Oddantonio di Montefeltro conte di Urbino, circondato da due consiglieri inviati da Sigismondo Malatesta per tramare la sua morte: Oddantonio fu in effetti assassinato nel 1444, e il fratellastro Federico, divenuto signore della città, per onorare la sua memoria avrebbe ordinato il quadro paragonando la vittima al Cristo stesso fra due flagellatori. Ma già Kenneth Clark nei primi anni Cinquanta proponeva un’allegoria totalmente diversa, più ampia e suggestiva. Erano quelle le date del riacutizzarsi del confronto cruento e drammatico tra la Chiesa e l’Oriente; nel 1453 Costantinopoli cadeva nelle mani dei Turchi, il millenario impero bizantino crollava, e i Concili si succedevano per affrontare le questioni religiose e politiche che tormentavano (che cominciavano a tormentare) e che assediavano la Chiesa latina.
È un accenno. Nell’arengo scende ora, da attrezzata studiosa di civiltà bizantina, Silvia Ronchey, con un volume, L’enigma di Pietro. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro. Altro che segreti di Templari e segreti di Leonardo. Invece un frutto serio di ricerche svolte in biblioteche, archivi, curie, monasteri di mezza Europa, da Mistrà a Ginevra, e di tali proporzioni, che l’Autrice offre nel corposo volume a stampa quaranta pagine di Bibliografia e sessanta di Note, ma rinvia anche a una loro redazione più ampia e completa in un sito Internet.
Non per questo il libro è ostico, tutt’altro, e anche per il lettore comune: poiché, come appunto spiega l’Autrice, è «una narrazione», o un romanzo storico in cui nulla è inventato ma la storia stessa è romanzesca; attraverso il quale, tessendo molti fili e riunendone infine i capi, si conclude proiettando sul dipinto di Pietro l’ombra della drammatica e funesta presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, avvolta a sua volta da intrighi e da personaggi celebri o oscuri, potenti o miseri, e da una proliferazioni di scritti e di opere d’arte che dànno anch’essi la misura della grandiosità e dello sgomento dell’evento.
Sùbito all’inizio compare uno dei protagonisti dei fatti che entreranno nel quadro di Piero, il cardinale Bessarione, che venuto dall’Oriente in Italia vi svolgerà opera culturale e politica. Ed ecco il Concilio di Costanza, che fra il 1414 e il 1417 affollò la cittadina svizzera di decine di migliaia di ospiti, fra cui papi e antipapi, prelati, sovrani, letterati e artisti, e avviò – inutilmente – il piano di salvataggio di Bisanzio, già allora minacciata. L’operazione si sviluppa vent’anni dopo nell’altro Concilio di Ferrara e Firenze, convocato per giungere alla conciliazione fra le Chiese di Occidente e di Oriente, mentre si saldano anche opportune alleanze matrimoniali fra le case regnanti, grandi e piccole, delle due parti del Mediterraneo, ed emergono i gran signori della storia di allora, ammirati e raffigurati nel loro sfarzo e nella loro esoticità da frotte di artisti: dal Pisanello, da Gozzoli, dallo stesso Piero nel ciclo della Croce di Arezzo, e nel nostro quadro. Fra di essi, il penultimo imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo, sposo di Sofia del Monferrato, e giunto nel ’38 a capo della delegazione orientale al Concilio, è infatti il personaggio seduto, simile a Pilato, sullo sfondo della Flagellazione, intento ad assistere – ecco il punto – alle percosse inflitte a Costantinopoli dal sultano turco (il personaggio di schiena che impartisce gli ordini ai due carnefici del Cristo).
Quanto alla scena in primo piano sulla destra, nei suoi tre attori muti sono da riconoscere, da sinistra, due altri bizantini: il Bessarione appunto, e il giovane Tommaso Paleologo erede del trono di Bisanzio; terzo e ultimo poi sulla destra, Niccolò III d’Este, principe filobizantino e amico di Bessarione.
Non dunque un semplice scena sacra, e nemmeno una congiura di palazzo; bensì una manifesto politico, uno squillo di riscossa a sostegno delle iniziative di soccorso all’Oriente ferito e alla cristianità minacciata, ideate da politici avveduti e da intellettuali allarmati – ma destinate a un nulla di fatto.
Per spiegare e sostenere tutto questo – con grande vivacità anche di scrittura – l’Autrice stende una trama vastissima, avvolge il piccolo quadro pierfrancescano di grandi intrecci storici, e ne rileva dettagli minuti, apparentemente insignificanti ma che si fanno significanti sotto la sua lente di esperta (perché Giovanni VIII porta i calzari di porpora – sono il simbolo dell’autorità imperiale – e il sultano no; e così pure non li porta il giovane biondo...).
Dappertutto, ma soprattutto nel capitolo centrale del libro, che è quello intitolato Vent’anni dopo, chiarisce e dissipa le difficoltà che insorgono e si oppongono alla tesi. Su quella tavoletta di pochi centimetri quadrati crea un affresco, ch’è la storia d’Italia e d’Europa nei decenni cruciali seguìti a quella che già fu «una sorta di 11 settembre elevato all’ennesima potenza».
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Il Messaggero | 23/07/2006 | Il capolavoro dei due mondi, Claudio Strinati
Silvia Ronchey ha condotto una indagine vastissima nel suo libro L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro (Rizzoli, pagg. xxx, 21 euro). Insigne bizantinista, la studiosa ha versato in questo libro la sua incomparabile competenza nel settore specifico di studi all’interno di una ricognizione che si avvale di innumerevoli e capillari informazioni inerenti alla storia dell’arte, dell’archeologia, della letteratura, della filosofia. Ne scaturisce un testo di esemplare leggibilità, tutto intessuto di una vivace vena narrativa e di una finezza di scrittura che hanno pochi termini di confronto nella produzione attuale.
Convincente e profonda l’analisi della Ronchey è condotta con un senso di modestia e moderazione che val la pena di additare a ogni studioso e che è simpaticamente percepibile nello splendido ritratto fattole da Elisabetta Catalano che la raffigura pensierosa ma sorridente al suo quotidiano tavolo di lavoro. L’autrice ha fatto, così, ricorso persino a un classico e raffinato accorgimento, quello di inserire, di volta in volta, capitoli in cui immagina il dialogo tra un antichista e uno storico dell’arte che verificano le rispettive tesi alla ricerca di una verità di fondo.
Profondo è il rispetto della Ronchey per coloro che l’hanno preceduta in questa ardua ricerca sulla Flagellazione di Piero della Francesca, uno dei più bei dipinti di tutti i tempi. Lungi dall’assumere l’atteggiamento di chi ritiene di aver capito ogni cosa e di poter contestare e ridicolizzare i colleghi, l’autrice dichiara onestamente tutti i suoi debiti, e quando rivede tesi altrui non è per dare del cretino a nessuno ma per giustificare metodi diversi sia pur nel legittimo orgoglio di essere sempre più vicina alla verità.
Piero della Francesca è un enigma in sé. Le sue opere hanno la magia e l’incanto di qualcosa che tutti sembrerebbero poter comprendere ma che sembra poi impossibile capire sul serio. A cominciare dallo stile, straordinario e unico nella storia dell’arte italiana. Si avverte in lui, e la Ronchey non perde mai di vista una riflessione del genere, un misto sconcertante di equilibrio e ferinità. Sembra l’uomo più colto e equilibrato del mondo e nel contempo un selvaggio sprezzatore della stessa civiltà che l’ha prodotto. I suoi uomini e le sue donne si presentano come regnanti e governatori ma sono pervasi da un furore latente e da una malinconia insuperabile.
Ma la Ronchey rifiuta, giustamente, ogni possibile lettura “suggestiva” per restituire una immagine vera e documentata del grande artista. Nella Flagellazione , spiega l’autrice, Piero porta a un punto culminante quella che deve essere indicata come sua caratteristica precipua e cioè l’essere stato l’erede, vero e consapevole, della cultura e della mentalità del mondo bizantino che, nei secoli precedenti, aveva espresso una serie continua di “rinascite” intellettuali e morali, culminate, poi, in quello che oggi chiamiamo il “Rinascimento” per antonomasia e che Piero porta a un livello altissimo di dimostrazione visiva.
Attraverso una serrata ricostruzione storico-documentaria, apprendiamo come la Flagellazione sia, in sostanza, il simbolo figurativo della politica culturale perseguita soprattutto dal cardinale Bessarione, uno degli uomini chiave del rapporto Oriente bizantino-Occidente romano.
Bessarione viene da Bisanzio, dal 1453 in mano ai turchi, e partecipa a quel movimento di riscatto della Chiesa di Roma che, negli anni immediatamente precedenti e seguenti l’evento della caduta dell’Impero di Oriente, cercò di creare una politica di contrasto e lotta contro il Turco.
Nel quadro memorabile di Piero, Cristo è flagellato a Costantinopoli e l’ultimo imperatore di Bisanzio, Giuseppe VIII (la cui fisionomia è nota attraverso i ritratti del Pisanello) vi assiste nelle vesti di Pilato, colui che non può contrastare l’attacco degli infedeli, adombrati nei due flagellatori che ricordano le fisionomie e gli atteggiamenti dei pirati turchi e mongoli. Di spalle si vede il sultano Maometto II che ordina la Flagellazione ma non si è ancora insediato sul trono di Bisanzio come si capisce dai suoi piedi scalzi, mentre i purpurei calzari imperiali sono ai piedi di Giuseppe VIII.
In primo piano tre uomini sono schierati davanti all’osservatore e una antica didascalia, vista dai primi visitatori del dipinto nell’Ottocento, riportava le parole del Salmo 2.2: Convenerunt in unum . Sono Bessarione, Niccolò III d’Este che ospitò il Concilio di Ferrara indetto nel 1438 per tentare la conciliazione tra Chiesa greca e latina, e Tommaso Paleologo, l’aspirante a quel trono di Bisanzio che non potè mai più conseguire dopo la caduta, despota della Morea nel Peloponneso dove il papa Pio II Piccolomini sperava di recuperare un avamposto del dominio della Chiesa di Roma.
Tutto fallì, e Piero avrebbe eseguito il mirabile quadro, come omaggio al Bessarione e al suo pensiero politico, quando a Mantova, nel 1459, si radunò la fatale conferenza mirata alla preparazione di un crociata contro il Turco. Pio II, vecchio e stanco, morì prima di poter partire per questa impossibile spedizione e la Flagellazione rimase nell’eredità dei beni del cardinale Bessarione quale solenne e dolente monito su una utopia destinata a segnare, di fatto, la irreversibile scomparsa di un mondo che pure aveva generato la fama e la gloria dei massimi pensatori e filosofi del tempo. Ma non è la prima volta che il senso della delusione genera la certezza solenne e incontrovertibile dell’opera d’arte volta a celebrare nello spazio estetico un inattuabile ma pur desiderato destino.
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Il Foglio | 01/08/2006 | Preghiera, Camillo Langone
“Se il figlio della cugina del papa non fosse morto prima di nascere, se l’occidente avesse intrapreso per tempo una crociata…”. Silvia Ronchey (“L’enigma di Piero”, Rizzoli) ipotizza che intorno al 1420 le potenze cristiane avrebbero potuto risolvere una volta per tutte il problema che sta alla radice di molti guai presenti. Egoismi e fatalità impedirono che si approfittasse del momento favorevole per ridurre a più miti consigli i seguaci di un libro che da quando è stato scritto spande in tutte le direzioni odio e violenza come un frullatore impazzito. Sia lodato Israele che si fa carico del lavoro sporco che noi avremmo dovuto compiere sei secoli fa. Siano lodati i carrarmati pur se meno eleganti, e chi lo nega, dei cavallieri antiqui. Sia lodato il missile di oggi che forse eviterà la bomba atomica di domani.
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Il Foglio | 14/09/2006 | Se il Papa traccia un confine, Camillo Langone
Ieri mattina mi sono alzato, ho acceso il Televideo e in prima pagina ho letto: “‘Integralismo è contrario a Maometto’, dice il Papa.” Accidenti, vai a vedere che anche Ratzinger si è convinto che Maometto in fondo in fondo, tra una razzia e l’altra (gli storici musulmani ne contano 19 nel solo periodo medinese), era un bravo ragazzo. O forse è tutta colpa della sintesi giornalistica. Macché, a pagina 155 la notizia viene data per esteso e c’è scritto: “Benedetto XVI condanna dalla Germania il fondamentalismo islamico, definendolo ‘contrario a Maometto’”. Allora non ci sono dubbi, il Papa si è messo a studiare il Corano e ha capito che intenzione del profeta arabo era istituire una religione dolce e melodiosa, facile all’accomodamento. Il fiume di sangue che da quattordici secoli sgorga dalla Mecca sarà la solita storia delle vie dell’inferno lastricate di buone intenzioni, chissà. Sono sceso all’edicola davanti casa per comprare un po’ di giornali. Guardo subito Repubblica perché le poche ragazze che vedo leggere quotidiani, di solito sui treni, hanno in mano sempre e soltanto Repubblica (mai visto una ragazza leggere il Corriere, non so perché). E io ci tengo molto a sapere che cosa versa oggi Ezio Mauro nella testolina delle mie interlocutrici in vineria. Sottotitolo in prima pagina: “Il Papa: ‘L’Islam integralista contraddice Maometto’”. La stessa sostanza di Televideo con l’aggiunta dell’aggettivo integralista, come a dire che il maomettanesimo autentico è parzialista, tipo quello di Magdi Allam. Ma anche Khaled Fouad, l’Allam di Repubblica, stavolta è quasi papalino, dice che il problema dell’islam è la violenza (e dici poco), elogia René Girard, ricorda un povero teologo musulmano, il sudanese Mohammed Taha, che per aver proposto di mettere la sordina a certe sure coraniche particolarmente brigantesche e feroci venne impiccato nel 1983 da quei sant’uomini dei suoi correligionari. Il vaticanista Marco Politi scrive il contrario di quello che ha titolato il suo giornale ma questo non conta nulla perché gli articoli chi li legge, ormai nei quotidiani contano solo i titolisti e i rubrichinisti. Quindi nessuno avrà notato una curiosa inesattezza: l’imperatore bizantino Manuele Paleologo citato dal Papa viene chiamato Michele (Michele chi?). Verso la fine dell’articolo Politi deve pagare il pedaggio alla pigrizia mentale dei lettori di Repubblica riesumando le antiche colpe della chiesa, come se passato e presente scottassero nello stesso modo la carne dei vivi, come se il Papa a Ratisbona si fosse rivolto agli storici e non a tutti gli uomini di buona volontà interessati al proprio futuro e a quello dei propri figli.
Lo stesso sguardo rivolto all’indietro ce l’ha sul Corriere Paolo Di Stefano, che quando scrive di letteratura si trova molto più a suo agio e per raggiungere il numero minimo di battute non deve fare ricorso a idee ricevute e non pensate. Stupefacente, scoppiettante la Stampa, che in prima pagina fa l’esatto contrario degli altri giornali, arruolando il Papa nei neocon salvo poi dare spazio nelle pagine interne ad alcuni tra i più scatenati paroliberisti disponibili su piazza. Non mi riferisco a Silvia Ronchey, che la storia la conosce bene e il cui articolo islamofilo sarà da attribuire a una fase bipolare, visto che contraddice prima di tutto se stessa, nel suo affascinante libro “L’enigma di Piero” (Rizzoli) dove i bizantini assediati non sembrano per nulla ansiosi di aprire le porte ai seguaci di Allah il misericordioso. I paroliberisti sono Mario Scialoja e Margherita Hack. Il presidente della Lega Musulmana per smentire Benedetto XVI cucina il Corano come gli pare a lui, estrapolando e omettendo, concludendo, per far passare l’idea che siamo tutti schifosi uguali, con una domanda retorica eccezionalmente del cavolo: “In fondo Hitler non era un cristiano?”. No, caro Scialoja, mi sa che conosci il Vangelo ancora peggio del Corano: quando Maometto decapitava gli 800 ebrei maschi di Medina (vendendo le donne e i bambini come schiavi) era un maomettano mentre quando Hitler buttava nei forni ebrei zingari preti omosessuali eccetera era un hitleriano, il forgiatore di un’ideologia totalitaria giustamente definita dal suo delfino Rudolf Hess “biologia applicata”. Insomma la scienza al potere. Lupus in fabula ecco Margherita Hack, l’astronoma, che tira fuori un altro argomento di attualità, Galileo, e poi confida nella scienza che “permette di superare tutti i fanatismi”, con ciò facendo dubitare il lettore del suo status di scienziata (tra la Hack ringhiosa e il mite Ratzinger il fanatico chi è?).
In conclusione, di quello che ha detto il Papa in Germania nessuno ci ha capito una beata fava e questo in qualche modo mi conforta, vuol dire che abbiamo ancora davanti tanti giorni per godere e per penare, che bello. Infatti secondo Isaia la fine della storia avverrà quando “si apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi”. Di questo sturamento generale, oggi, non si percepiscono nemmeno le avvisaglie.
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Panorama | 21/09/2006 | Dove ha sbagliato l'Elmo di Scipio, Adriano Sofri
La cosiddetta vocazione mediterranea dell’Italia è tornata alla ribalta. Le luci della geopolitica mondiale si sono riconcentrate nei nostri paraggi. Possiamo equivocare e dimenticare che la grande corrente della storia del mondo passa lontano da qui, tra le due sponde del Pacifico, per esempio, e che i piccoli lembi di terra che prendono i titoli di prima pagina, Israele, la Palestina, il Libano, sono scintille di un incendio che ha altrove le sue praterie, e che bisogna restituirle di corsa alla loro periferica piccolezza. Anche il più vasto Medio Oriente deve il suo peso al petrolio e all’insipienza e all’affarismo che hanno impedito finora al mondo ricco di trovare altre fonti di energia e di affezionarsi alla sobrietà. È pazzesco che ci siamo ridotti al punto di essere più spaventati dal prezzo del petrolio che dal costo dell’odio.
Si cerca nella storia il punto in cui abbiamo sbagliato, in cui è cominciata la rovina. I bizantinologi, per esempio, sono creature risentite, e ne hanno due ragioni. La prima, che la gente misconosce la grandezza di Bisanzio. La seconda, che se si fosse fronteggiata come si doveva la minaccia turca, Bisanzio non sarebbe caduta nel 1453. Silvia Ronchey lo proclama (L’enigma di Piero, Rizzoli): quel 29 maggio 1453 ha precipitato la storia del mondo più che non abbia fatto l’11 settembre, ben altro impegno doveva mettere il mondo cristiano nella crociata per salvare il suo impero. Oggi proviamo a rimediare facendo entrare la Turchia nell’Unione Europea e tenendo presente la lezione antica.
Ho appena letto un libro di Vittorio Ianari «Lo stivale nel mare » (Guerini, prefazione di A. Riccardi), che ricostruisce la politica mediterranea italiana tra l’unità e la guerra di Libia, 1911, e si imbatte continuamente nel fardello della storia. Il grande storico di Roma Theodor Mommsen si rivolse così a Quintino Sella, nel 1871, appena tolta Roma al papato: «Che cosa intendete fare? A Roma non ci si sta senza avere propositi cosmopoliti » (domanda che piacerebbe a Walter Veltroni).
Noi che ci battiamo oggi per l’ingresso di Israele nell’Unione Europea (e della Palestina, e del Libano, e della Giordania, chissà...) leggiamo con esitazione Giuseppe Mazzini: «Tunisi, Tripoli e la Cirenaica formano parte di quella zona africana che appartiene, veramente fino all’Atlante, al sistema europeo. E sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro». E già nel 1852 Pasquale Stanislao Mancini: «È forse impresa impossibile rendere nuovamente il Mediterraneo qual natura lo fece, qual fu per secoli, un lago italiano?». Impossibilissima, naturalmente.
Sul Mediterraneo africano l’Italia sentì di avere una specie di prelazione, un diritto ereditario, venuto dagli avi romani: discendenza, del resto, piuttosto rimescolata. Scipione l’Africano campeggia su questo scenario, il famoso elmo di Scipio che dall’innocente Goffredo Mameli è arrivato, piuttosto rimescolato, fino agli innocenti calciatori. Ianari ricostruisce una presenza folta e vivace di italiani dalla Turchia al Marocco, costituita nei secoli, ma ingrossata nei decenni postunitari. L’italiano era una specie di lingua franca, parlato alla corte d’Egitto e usato nei documenti pubblici, finché la dominazione francese e inglese ridusse e confinò le comunità italiane, con una peculiare gelosia della Francia, rivale soprattutto in quella Tunisia che aveva la comunità italiana più numerosa.
Anche la popolarità degli italiani, quella cui tuttora si fa appello (incrociando le dita) nel Libano, aveva dalla sua, prima della guerra con i turchi (e con i resistenti arabi) per la Libia, e nonostante le spedizioni africane, l’estraneità dell’Italia alla gara colonialista. Che poi si mostrò come un mero ritardo, e dissipò il patrimonio di convivenze; che Ianari rintraccia, ricostruendo gli ingredienti di una politica islamica dell’Italia. Faticosamente, perché la politica islamica procedette a tentoni e fino a tempi assai recenti, nonostante la prossimità, l’ignoranza del mondo arabo e più ancora dell’islam è stata fra noi madornale. E adesso, i corsi di recupero sono piuttosto trafelati, come di chi sia inseguito.
È istruttivo scoprire l’immigrazione italiana (siciliana soprattutto, per un verso, «livornese» per l’altro, cioè di ebrei trapiantati a Livorno dalla Penisola Iberica). Le migliaia di chilometri di costa, colpevoli oggi di attirare troppi migranti, servirono all’opposto allora. A Tunisi, all’inizio del ’900, c’erano centomila italiani: il doppio dei francesi. «Con una volontà quasi sovrumana, zappavano, seminavano, vivevano di un pugno di farina e di una cipolla cruda, mangiando a volte perfino l’erba dei campi... intanto piantavano la vigna. In pochi anni, si trasformavano in proprietari».
Ad Alessandria, in Egitto, dove vivevano letterati come Ungaretti, Pea, Marinetti, nel 1909 c’erano due giornali anarchici: L’idea e Risorgete. A promuovere la cultura italiana erano, a gara, la laica Dante Alighieri e i missionari cattolici.
La retorica navale culminò in Gabriele D’Annunzio: «Fa di tutti gli oceani il mare Nostro!». La preghiera del marinaio di Antonio Fogazzaro, tuttora in vigore, si accontenta di invocare sul nemico il terrore della nostra bandiera, e: «Fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro».
Ianari ricostruisce l’attività del medico bolognese Enrico Insabato, incantato dall’Islam più ortodosso. Nel 1904 auspicava una moschea a Roma: «La pittoresca cupola e l’elegante minareto starebbero là, nella Roma dei papi, a provare che il loro regno è finito per sempre per far largo a quello della tolleranza e della libertà».
Non esattamente.
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Il Giornale di Vicenza | 16/10/2006 | Silvia Ronchey: L'influsso di Pisanello …, Giovanni Masciola
Firma de "La Stampa", giornalista televisiva, docente di civiltà bizantina all'Università di Siena, autrice di importanti saggi sulla storia di Costantinopoli, Silvia Ronchey ha pubblicato in primavera con Rizzoli un libro che ha creato notevole clamore nel mondo degli storici dell'arte ed un grande successo di pubblico. Il volume si intitola L'enigma di Piero. L'ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro. La scrittrice ci ha parlato di alcuni aspetti del suo lavoro particolarmente legati all'arte e alla storia di Verona, di Venezia e del Veneto.
Come influisce la pittura di Pisanello sulla Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca?
«Influisce in maniera diretta e prioritaria. Quello di Pisanello mi sembra essere il maggiore influsso sulla pittura di Piero. Una generazione prima di Piero, era stato il primo vero grande interlocutore dei bizantini. Piero non era stato presente al concilio di Ferrara, anche perché allora era troppo giovane. Alcuni storici dell'arte ipotizzano che fosse stato a Firenze quand'era arrivata la delegazione bizantina, ma non gli si sarebbe consentito di vedere da vicino il volto di Giovanni VIII Paleologo, ripreso invece da Pisanello. L'imperatore d'Oriente commissionò probabilmente il suo ritratto a Pisanello attraverso il giovanissimo cardinale Bessarione. Non sappiamo se fosse concepito come quello di Martino V, che peraltro non è rimasto e conosciamo attraverso la copia nella sala del trono di palazzo Colonna a Roma. Si ritiene che Pisanello fosse famoso presso i bizantini per questo ritratto e per le medaglie.
Appena sbarcano in Italia Giovanni VIII e Bessarione incaricano Pisanello di ritrarli. Cosa interdetta a chiunque altro perché la persona dell'imperatore era inaccessibile. L'imperatore era sempre attorniato dalla guardia e dal suo seguito. I cartoni del Louvre e di Chicago del ferragosto 1438 sono la prova che Pisanello ha rappresentato dal vivo Giovanni VIII e probabilmente Bessarione. La scritta sulla medaglia di Giovanni VIII fusa da Pisanello è di Bessarione. Si suppone che Pisanello abbia ritratto Bessarione e che abbia tramandato a Piero il volto del cardinale giovane rappresentato nella Flagellazione. Altri schizzi di Pisanello influenzano non solo Piero, ma anche molti altri artisti.»
Qual è la chiave di lettura bizantina del San Giorgio e il drago di Pisanello nella basilica di Sant'Anastasia a Verona?
«Questo affresco, capolavoro assoluta della pittura quattrocentesca, ha certamente un significato antiturco. Rimarca la necessità per l'Occidente di preparasi a salvare Bisanzio. Nella lettura allegorica il turco è identificato col drago. Giovanni VIII, vestito d'ermellino, su un cavallo dalle narici spaccate. Il cronista bizantino Siropulo riferisce che quel cavallo venne comprato a Ferrara nell'agosto 1438 da un possidente della delegazione russa. Era già stato tratteggiato da Pisanello in schizzi e medaglie. Quindi l'affresco non poté essere completato prima del 1438. Il secondo elemento è il tergo del cavallo, presente anche nel rovescio della medaglia di Giovanni VIII e negli schizzi. Il terzo è la principessa Maria Comnena di Trebisonda, sposa di Giovanni VIII Paleologo, dai tratti circassi. Vi sono descrizioni di lei da parte di viaggiatori occidentali. Nessuna delle donne dipinte da Pisanello ha questi occhi quasi orientali, color oro, tipici di quell'etnia. E poi nell'affresco ci sono i turchi e appunto i draghi.»
Perché l'Europa ha dimenticato il ruolo di Bisanzio?
«Tutto questo grande fermento per i tentativi di salvare Bisanzio si riflette particolarmente sulla pittura, ma anche sulla letteratura e soprattutto sulla politica. I tentativi cominciano negli anni '10 e vanno avanti fino agli settanta. Purtroppo falliscono. E siccome la storia è dei vincitori, alla fine la realtà di Bisanzio si eclissa. Quando Bessarione vede che tutto fallisce fa sposare l'ultima dei Paleologhi con col principe di Russia. A questo punto si crea una precortina di ferro fra il mondo cattolico e ortodosso. Per questo il passato bizantino viene poi rimosso e la storia cattolica dimentica sia il piano di salvataggio di Bisanzio sia Bisanzio stessa. Trapela da Pisanello, Benozzo, Piero. La centralità di Bisanzio nella percezione politica europea è condivisa anche dal popolo.»
Qual era il progetto geopolitico di Pio II in Grecia?
«Voleva salvare il Peloponneso, più facilmente difendibile e scalo fondamentale per i traffici, vitale Venezia. Con la caduta del Peloponneso inizia la decadenza di Venezia. Quando Pio II sale al soglio, non si pensava ancora che i turchi lo occupassero e bloccassero il passaggio delle merci. Doveva governarlo Tommaso Paleologo, il giovane biondo nella Flagellazione.»
Come doveva strutturarsi lo Stato di Tommaso Paleologo?
«Si sarebbe organizzato nella maniera già studiata dall'accademia di Mistrà, che era non solo scuola filosofica, ma anche importante laboratorio politico. Una via di mezzo fra la polis greca e le signorie italiane e i piccoli regni tedeschi. Bessarione aveva addirittura già regolamentato il sistema scolastico. Il progetto era importantissimo anche per la Chiesa, rappresentava la riunificazione fra il trono di Pietro e lo scettro di Costantino negli anni drammatici in cui Lorenzo Valla refutava la donazione costantiniana. Se si fosse realizzata questa riunificazione e questo rinnovamento della Chiesa forse si sarebbe evitato lo scisma luterano. Le conseguenze di questo si sentono ancora oggi. I discorsi di Papa Ratzinger sono similissimi a quelli di Pio II. E la caduta di Costantinopoli è un 11 settembre all'ennesima potenza. Nella battaglia di Varna, per salvare Bisanzio, erano caduti i rampolli di tutte le famiglie d'Europa, nobili e umili. E sia gli artisti sia la gente comune erano estremamente partecipi di questa temperie.»
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Engramma | 01/11/2006 | La Flagellazione di Piero della Francesc…, Monica Centanni, Fabrizio Lollini
Si potrebbe dire, provocatoriamente, che il primo merito di questo libro sta nel suo successo editoriale. Il tema della ricerca di Silvia Ronchey è la decrittazione dell''enigma' della tavola di Urbino, alla luce del contesto storico della metà del Quattrocento. Non si tratta, certo, di un tema facile, ma l'autrice riesce nell'operazione di conferire appeal a una materia come la bizantistica che si porta addosso, più o meno a ragione, un alone di erudizione, muffa e polverosità, e che comunque non è un ambito di studi che goda di visibilità e di ampia divulgazione. Il libro di Ronchey, uscito nell'aprile 2006 in una collana non specialistica della Rizzoli, ha goduto invece di un pronto riscontro di critica, ben al di fuori del ristretto ambito delle riviste di settore e, relativamente alle cifre di vendita della saggistica in Italia, ha riscosso un riconoscimento di pubblico ampio e caloroso. Che un saggio di un filologo e storico bizantino, su un tema che si colloca all'incrocio tra le competenze dell'iconologo, dello storico dell'arte e dello storico tout court, sia apprezzato da un pubblico di lettori non specialisti, è quindi un vero conforto per chi crede che la divulgazione degli esiti della ricerca non debba essere relegata in accademia, non debba circolare solo tra gli addetti ai lavori, riservata ai colleghi afferenti allo stesso gruppo disciplinare, ma che la comunicazione culturale debba, anzitutto, rivolgersi a un pubblico di persone colte, mirando a un target di lettori intellettualmente vivaci e interessati all'aggiornamento degli studi di scienze umane. Il pregio del saggio di Ronchey sta però, soprattutto, nella strutturazione formale che la studiosa impone al suo lavoro: il sommario del volume articola in ricercata giustapposizione capitoli di ricostruzione storica e letteraria, capitoli di storia culturale e delle idee, ma anche di metodologia di storia dell'arte, di iconologia. Nella gamma variegata dei registri retorici che il saggio offre, trovano spazio anche pagine del diario dello studioso che si concede al racconto condividendo la sua esperienza di ricercatore, e così restituisce al suo lettore, in toni simpateticamente 'ingenui', il pathos dell'esplorazione tra le carte d'archivio, l'emozione del rovistare in scatole e faldoni, mettendo le mani sui documenti e materiali preziosi, spesso (come nel caso dei disegni di Pisanello) anche di grande valore artistico. Nella architettura del volume trova spazio anche la 'confessione' dei dubbi, della parzialità del sapere dello studioso che si cimenta non tanto a trovare in altri approcci disciplinari riscontri al supporto delle ricerche nel suo campo, ma mette alla prova il suo sapere a fini coraggiosamente impropri: inframmezzati nella struttura del volume si trovano sezioni narrative, in forma di dialogo, che riproducono lo scontro/incontro disciplinare tra la parola (e le tecniche) dell' 'Antichista' e l'occhio (e le tecniche) dello 'Storico dell'arte'. L'abile e studiata struttura espositiva è sostenuta dalla cifra vincente della qualità di una scrittura gradevole e accattivante, e che pur tuttavia mai cede alle semplificazioni divulgative. La diversità di registri retorici dei vari capitoli del saggio corrisponde dunque, felicemente, alla diversità delle prospettive e delle metodologie di indagine: al centro sta la carica 'enigmatica' dell'opera – il quadro di Piero, oggetto primo e insieme pretesto della ricerca – e l'immagine dà prova ancora una volta della sua potenza: proietta e riflette luci di intelligenza, attrae suggestioni e significati. Zum Bild das Wort: tutto ruota intorno all'immagine che cattura l'attenzione del ricercatore e del lettore (necessario spettatore 'a distanza' della performance interpretativa dello studioso) e nell'agone disciplinare la potenza dell'immagine pare avere, ancora una volta, la meglio sulla potenza della parola sia nella scelta del tema di indagine, sia per l'armamentario metodologico che sostiene lo snodarsi della ricerca. Dal punto di vista dei contenuti, delle ragioni argomentative, e in generale della tesi interpretativa Ronchey guadagna dunque al suo lavoro l'attenzione critica puntuale sia dello 'Storico dell'arte' sia dell' 'Antichista' (per richiamare in scena le stesse maschere e stare al gioco che la studiosa evoca drammaturgicamente nei suoi dialoghetti): sulla metodologia generale, sulla tesi interpretativa perseguita, ma anche sul dettaglio delle singole argomentazioni, entrambi, 'Storico dell'arte' e 'Antichista', sono provocati, quasi ad ogni passo, a interloquire con l'autrice. Alcuni appunti in ordine sparso a conferma dell'interesse che questa lettura suscita.
Si chiede lo 'Storico dell'arte': le opere d'arte, specie le opere d'arte del Rinascimento italiano, stimolano positivamente l'esercitazione interpretativa di competenze e saperi diversi: ma siamo sicuri che nella temperie della nouvelle vague iconologica alcuni dati visivi non siano sottoposti a una sorta di iperinterpretazione? Sarà congruo considerare come segnali di specifiche intenzioni dell'artista alcuni elementi iconografici (l'idolo sulla colonna; il cappello da Paleologo; la scala) o stilistici (la doppia fonte di luce; la regolarità albertiana del muro di fondo)? non sarà che il non-storico dell'arte che si cimenta nell'indagine iconologica prende per eccezionali elementi compositivi che in realtà sono più che frequenti e 'normali' nelle convenzioni pittoriche del tempo? (Sul punto, vedi anche, in questo stesso numero di "Engramma", Note su Indagini su Piero di Carlo Ginzburg). Si chiede a sua volta l'' Antichista': una volta riconosciuta l'importanza del Concilio del 1438-39 di (Venezia)-Ferrara-Firenze-(Roma) e una volta accertata l'indubbia influenza che quell'evento ebbe su alcuni episodi artistici (ad esempio sulla rinascita del genere della medaglia all'antica), siamo sicuri che la suggestione di quell'evento storico sia apprezzabile, a distanza di anni e decenni, in tante e tanto disparate opere d'arte? (Sulla questione, vedi già il monito alla cautela di Anna Pontani, Firenze nelle fonti greche del Concilio, in Firenze e il Concilio del 1439, Atti del convegno di studi, a cura di Paolo Viti, Firenze 29 novembre-2 dicembre 1989, Firenze 1994). E si chiede ancora lo 'Storico dell'arte': secondo Ronchey la Flagellazione raffigura sinteticamente il Concilio di Ferrara-Firenze del 1438-39 e i tre personaggi in primo piano rappresentano, nell'ordine, Bessarione, Tommaso Paleologo, Niccolò III d'Este. Ma l'opera è datata agli anni cinquanta del Quattrocento, quindi Piero nell'opera si collocherebbe anche nell'"orizzonte di speranze" dell'imminente Concilio di Mantova del 1459. Ma si dà il caso di un dipinto in cui sia proposta una sfasatura spazio-temporale come quella, di vent'anni, proposta da Ronchey (ma già da Carlo Ginzburg)? In altre parole: è ipotizzabile, in base ai parametri cronologici e percettivi propri del Quattrocento, che un'opera datata agli anni cinquanta fotografi un episodio del 1439, oltre tutto con l'acribia filologica di restituire ai protagonisti l'età e l'aspetto che avevano all'epoca? E ancora: al termine del percorso che dovrebbe portare alla soluzione dell''enigma', restano sospese alcune domande che lo 'Storico dell'arte' giudica fondamentali e pregiudiziali rispetto a qualsivoglia lettura interpretativa del soggetto: chi avrebbe commissionato l'opera? chi l’ha concretamente pagata? per quale sede o per quale destinatario? Non più a quanto pare Giovanni Bacci, già chiamato in causa come committente da Carlo Ginzburg. Secondo Ronchey l'ideatore e committente dell'opera è con tutta probabilità (anche se una probabilità tutta indiziaria) il Bessarione: ma Bessarione aveva avuto modo di essere committente di Piero per molti decenni e in varie città (ad esempio a Bologna, mentre Piero era in città, o a Ferrara; o a Roma) e, nel corso di trent'anni, non è attestata alcuna documentazione che provi un rapporto diretto di committenza tra Bessarione e Piero: in base a quale fondamento è lecito supporre che il committente possa essere stato il prelato greco? Secondo Ronchey l'abito da dignitario bizantino della figura in primo piano raffigurerebbe Bessarione giovane, all'epoca del Concilio di Ferrara. Ma Bessarione aveva un look ben identificabile e più che noto ai suoi contemporanei, caratterizzato dalla veste nera da monaco basiliano, dalla barba (non a doppia punta come quella del 'dignitario bizantino') e in seguito dalle insegne cardinalizie: era insomma ben diverso dalla figura inserita nel gruppo delle figure in primo piano della Flagellazione. Che senso può esserci nel farsi raffigurare in modo da non essere riconosciuti? I tre personaggi raffigurati in primo piano sarebbero, dunque, da sinistra a destra: Bessarione stesso, Tommaso Paleologo, Niccolò III d'Este: ma quale sarebbe il rapporto tra il committente e gli altri personaggi identificati nel dipinto? Bessarione aveva avuto occasione di incontrare Niccolò III d'Este a Ferrara durante il Concilio, ma Niccolò era morto già dal 1441: quale interesse potevano avere committente e artista a inserire nell'opera il ritratto dell'antico signore di Ferrara (a cui nel frattempo erano succeduti prima Lionello, e poi Borso)? Una delle sezioni più suggestive del volume è quella in cui viene ricostruito il peregrinare di corte in corte dell'"ultimo bizantino" Tommaso Paleologo, dopo la caduta di Costantinopoli e la conquista della Morea, nel disperato tentativo di convincere i signori e i papi del tempo a indire un Concilio (che viene organizzato a Mantova nel 1459) e quindi una Crociata (la "crociata fantasma" evocata nel titolo del volume) per riscattare l'onore dell'impero bizantino e liberare i territori occupati dal Turco: sia il Concilio che la Crociata falliranno, ma la missione di Tommaso si compirà con la translatio imperii di Bisanzio nella terza Roma dell'impero russo, mediante il sangue di Zoe Paleologina (futura Sofija "raina de Rossia"), sposa del 'nuovo Costantino' lo zar Ivan III; secondo Ronchey l'ideazione del dipinto, raffigurante il Concilio del 1439, si colloca nella temperie di attese e di speranze che agitavano le corti italiane alla fine degli anni cinquanta sulla questione della riconquista del trono imperiale di Bisanzio. Anche in questo caso, comunque ammesso di accettare per plausibile la rappresentazione nel quadro di Piero di un Tommaso Paleologo giovane, sarà pur da notare che i tratti della fisionomia, i colori e le vesti dell'angelicata figura al centro del trittico di personaggi della Flagellazione non corrispondono affatto a quelli di Tommaso Paleologo. Si può dunque credere che anche in questo caso (come per il 'giovane Bessarione') sia stato inserito nell'opera il cripto-ritratto giovanile di un personaggio vivente, ma rappresentato in modo irriconoscibile per i contemporanei? E ancora: la retrodatazione della scena rappresentata al Concilio di Ferrara del 1438-39 sarebbe comprovata dalla presenza di Giovanni VIII Paleologo assiso sul trono, in secondo piano nel dipinto, come spettatore eccellente della flagellazione di Cristo. Com'è noto, il personaggio viene identificato con l'imperatore bizantino che era al potere ai tempi del Concilio grazie al confronto con la medaglia pisanelliana: questa presenza viene molto valorizzata da Ronchey, ma già Carlo Ginzburg e altri prima di lui citavano la presenza della figura come prova significativa dell'ambientazione cronologica della scena in un passato più o meno lontano rispetto all'effettiva esecuzione dell'opera. Ma siamo sicuri che la figura in trono, a uno spettatore degli anni cinquanta del Quattrocento, evochi proprio ed esclusivamente Giovanni VIII Paleologo? Come è stato provato, a partire dai primi anni quaranta si moltiplicano le occorrenze di ritratti esemplati, per via di derivazione diretta o poligenetica, sul modello della medaglia pisanelliana e/o sui disegni preparatori della stessa. Di fatto però i tratti della fisionomia (quella barba a punta, quel profilo) e gli accessori che caratterizzano l'abito dell'imperatore bizantino (il colletto rialzato della veste, il copricapo-skiadion) nel repertorio iconografico del tempo non identificano esclusivamente Giovanni VIII, ma molto precocemente si prestano alla raffigurazione di altre figure di potenti, storiche o contemporanee: Erode, Pilato, Costantino il Grande (ma si veda in questo stesso numero di "Engramma", Centanni e Pedersoli, Nota sulla cronologia della Battaglia di Costantino e Massenzio), Carlo Magno, fino a Maometto II; o alla rappresentazione del 'greco' (si veda, in "Engramma", L'effigie di Giovanni VIII Paleologo (galleria iconografica), a cura di Alessandra Pedersoli). Il ritratto dell'unico basileus bizantino che fosse stato in Occidente (nel soggiorno in Italia durante il Concilio del 1438-39) era dunque ben noto grazie alla (relativamente) ampia circolazione della medaglia, ma quel ritratto aveva assunto molto presto la funzione di convenzione iconografica di rappresentazione del potente orientale: il basileus bizantino, ma anche il re ellenistico, il legato di Cesare, infine il Sultano. Non sarà incauto fondare sul Pilato in trono della Flagellazione l'identificazione specifica del penultimo imperatore di Bisanzio? Non sarà improprio trattare quella presenza come elemento decisivo per la cronologia della scena evocata nel dipinto? E del resto: nella scena della flagellazione di Cristo è sostenibile che una figura nettamente 'positiva' come quella del basileus di Bisanzio sia sovrapponibile alla figura, quanto meno ambigua, di Pilato? Un ruolo di spicco tra i molti personaggi storici che Silvia Ronchey convoca come coprotagonisti della sua ricostruzione, è affidato alla principessa di Mistrà, Cleopa Malatesta, morta nel 1433. Intorno alla "sposa occidentale" di Teodoro II Paleologo, signore di Morea, sulle vicende della sua vita e della sua morte precoce, la studiosa imbastisce una sorta di romanzo di intrighi: tra gli ingredienti non manca neppure una misteriosa e affascinante mummia femminile, rinvenuta a Mistrà in abiti principeschi, intorno alla quale si svolge una vera e propria indagine, in omaggio al genere giallo storico-archeologico. Secondo Ronchey, Cleopa sarebbe stata un personaggio di riferimento nella setta politico-religiosa di Mistrà ispirata ai 'misteri pagani' del filosofo Gemisto Pletone, ma anche la vittima di una congiura dinastica sorta in seno all'aristocrazia bizantina. Interviene qui l' 'Antichista' a domandarsi: siamo sicuri che dai documenti epistolari e letterari noti, e in particolare dalle lettere della stessa Cleopa e dall'orazione scritta da Gemisto Pletone per la morte della giovane sposa di Teodoro, si possano evincere le prove di una 'conversione' al paganesimo della nobile Malatesta? Non si tratta invece, come par di leggere chiaramente nei testi, di una 'conversione' della principessa italiana all'ortodossia della Chiesa orientale? E quanto agli esami scientifici che la studiosa invoca per provare l'ipotesi del delitto, siamo sicuri che un test del DNA sulla mummia potrebbe essere utile a dimostrare "se la giovane aristocratica occidentale fosse effettivamente incinta al momento della morte e se fosse stata effettivamente assassinata?" (p. 202). E ancora: sarà possibile definire Gemisto Pletone come l'"unico vero pagano del Rinascimento" (p. 26) o dire che la dottrina da lui predicata, e condivisa anche dal Cardinal Bessarione, sia anacronisticamente definibile come "dottrina dell'Eterno Ritorno"? (p. 165). Infine, sulla tavola di Urbino (o sulla cornice) risultava fosse un tempo apposta la scritta CONVENERUNT IN UNUM, con ogni probabilità originale. Si tratta di una citazione biblica tratto dal Salmo II, poi ripresa negli Atti – “Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius” – che riferita propriamente alla Passione di Cristo fa parte del servizio del Venerdì Santo. Il passo biblico (ripreso anche in Dante, Monarchia II, 1) è inequivocabilmente riferito ai re e principi della terra uniti "contro il Signore e contro Cristo suo figlio". L' 'Antichista' potrebbe obiettare: com'è possibile legare il senso della citazione ai "convegni" conciliari (del 1439 e del 1459) e alle tre figure che "si ritrovano" in primo piano? La scena rappresentata è indubbiamente un episodio della Passione di Cristo, a cui il brano del salmo è direttamente collegato nella liturgia: sarà mai possibile ipotizzare un significato diverso della citazione, e anzi opposto rispetto alla lettera precisa e puntuale del passaggio biblico? È possibile che il committente, chiunque fosse, avesse dato l'incarico dell'opera a uno dei pittori più cari sul mercato per essere poi parificato visivamente, grazie alla citazione biblica ben nota anche per il suo uso liturgico, ai convenuti a torturare Cristo? E, anche dal punto di vista grammaticale: è possibile nel contesto intendere "in unum" come moto a un luogo fisico e non come intende l'esegesi già antica "id est: unam pravam voluntatem"? Tutti appunti e osservazioni che dimostrano come grazie alla ricchezza documentaria ed ermeneutica offerta nel saggio venga stimolato anche il dibattito tra studiosi sui singole argomentazioni interpretative. Il libro di Ronchey è dunque non solo un test importante e riuscito per il lancio di un formato di alta divulgazione 'all'anglosassone' dei prodotti scientifici: è anche un lavoro che non accende soltanto l'interesse del pubblico, ma in via più generale solleva questioni importanti sotto il profilo metodologico, teorico ed epistemologico (sul punto, in questo stesso numero di "Engramma": Note a Il filo e le tracce di Carlo Ginzburg), ovvero sullo statuto tutto da ridefinire del metodo delle scienze storiche e sul genere della loro scrittura.
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Alibi | 01/01/2007 | Otto personaggi in cerca di un nome, Saul Stucchi
La celeberrima Flagellazione di Urbino vanta la più alta concentrazione di enigmi per centimetro quadrato nella storia dell’arte. L’unica certezza è la paternità: Piero della Francesca ha posto infatti la sua firma sul primo gradino del trono di Pilato. Secondo la bizantinista Silvia Ronchey la Flagellazione andrebbe letta come “manifesto” politico per esortare i suoi spettatori alla crociata contro i Turchi che pochi anni prima avevano conquistato Costantinopoli Nella storia dell’arte nessun’altra opera ha generato tante ipotesi. La piccola tavola di pioppo sulla quale Piero della Francesca ha dipinto, in un anno imprecisato della seconda metà del Quattrocento, la Flagellazione è infatti il campo d’indagine preferito da iconologi, storici e appassionati d’arte. L’unica cosa certa è appunto la paternità del capolavoro, avendo l’autore posto la propria firma sul primo gradino del soglio di Pilato (Opus Petri de burgo Sancti Sepulcri). Al pari l’unico personaggio sull’identità del quale vige la quasi totale concordia è il Cristo alla colonna: tutti gli altri sono illustri anonimi, a cominciare dai tre uomini in primo piano così curiosamente disposti. A prima vista sembrano discorrere tra loro, ma nessuno guarda in faccia gli altri interlocutori; indossano vesti assai diverse e uno addirittura è scalzo. Perché? A questa e ad altre numerose domande propone una risposta la bizantinista Silvia Ronchey nel suo ultimo saggio L’enigma di Piero edito da Rizzoli.
1. Pilato Giovanni VIII Paleologo Il penultimo imperatore
Fu Jean Babelon, in un articolo pubblicato nel 1930, il primo a identificare il Pilato della tavola con Giovanni VIII Paleologo, il penultimo imperatore bizantino. I detrattori di questa tesi fanno invece notare che l’atteggiamento del basileus fu tutt’altro che passivo nei confronti degli attacchi turchi, nient’affatto “pilatesco”. Silvia Ronchey aggira l’ostacolo sottolineando l’accezione sacrale e giuridica di Pilato, in quanto rappresentante dell’impero romano. Il volto del personaggio in trono rivelerebbe una dolorosa impotenza più che una colpevole inerzia. Altri fanno notare che la postura rimanda alle statue funebri: Piero alluderebbe in questo modo al trapasso di Giovanni VIII. Quello sul trono di Costantinopoli sarebbe dunque l’ex imperatore, ma i calzari purpurei, simbolo del potere imperiale, sono ancora ai suoi piedi a indicare che l’eredità bizantina è ancora contesa tra i Turchi e la cristianità. I primi sarebbero rappresentati dall’uomo di spalle con il turbante, nel quale alcuni studiosi vedono il pascià; la seconda invece sarebbe rappresentata dal giovane biondo in primo piano. Entrambi i personaggi sono appunto scalzi. A chi di loro spetterà il trono di Costantinopoli, la Seconda Roma? Pare questa la drammatica domanda sottesa alla Flagellazione urbinate.
2. Cristo alla colonna La chiesa flagellata L’Oriente minacciato
È l’unico personaggio sul quale esiste la quasi unanimità di opinioni. Il “quasi” è di rigore in quanto il critico Pope- Hennessy ha scorto invece nella scena del Cristo alla colonna la rappresentazione del sogno di San Gerolamo, nel quale il santo sogna appunto di essere fustigato perché colpevole di leggere i testi classici, ossia di autori pagani. L’improbabile esegesi fu suggerita al celebre critico dal raffronto con un’opera di Matteo di Giovanni, ma non ha trovato seguaci a dispetto della reputazione goduta dal proponente: è infatti evidente che la scena in secondo piano rappresenta la flagellazione di Cristo. Sono in molti a compiere un passo in avanti ulteriore, identificando nel Cristo alla colonna la Chiesa d’Oriente e Costantinopoli martirizzate dai Turchi. Cristo però non è ancora crocifisso, ma solo flagellato: la tavola alluderebbe quindi a una situazione precedente la caduta di Bisanzio. Un altro particolare interessante: il pittore tedesco Johann David Passavant visitò Urbino attorno al 1836 e prese nota di una scritta posta accanto ai tre personaggi in primo piano. La scritta recitava “Convenerunt in unum”, una citazione dal Salmo 2: “[i principi] si sono adunati insieme [contro il Signore e il suo Cristo]”. La scritta è scomparsa da tempo, rendendo se possibile ancora più misteriosa l’intera storia del quadro.
3. I carnefici I pirati turchi Il Sultano in attesa
Secondo lo studioso Creighton E. Gilbert l’uomo con il turbante di fronte a Cristo, che dà le spalle allo spettatore, sarebbe Erode. Silvia Ronchey nota invece che il personaggio in questione indossa un inconfondibile turbante turco e ha per veste un lungo caftano. Non sarebbe però un turco qualsiasi, bensì il sultano in persona, quel Maometto II che fece cercare per le strade di Costantinopoli il cadavere di Costantino XI, l’ultimo imperatore, per levargli i calzari purpurei con il simbolo dell’aquila bicipite. Sarebbe il gesto compiuto dalla sua mano sinistra a ordinare la flagellazione di Cristo, sollevando Pilato dalla responsabilità del crudele atto. Secondo la bizantinista i due fustigatori rappresenterebbero la minaccia turca, incarnata soprattutto dai pirati: all’epoca in cui Piero della Francesca dipinse la tavola urbinate i pirati turchi flagellavano (è il caso di dire) le coste del Peloponneso, ovvero della Morea cristiana. La Ronchey si spinge fino a congetturare che il flagellatore di sinistra, quello che indossa una tunica azzurra, abbia i tratti di un turco anatolico, mentre quello di spalle con la veste verde nasconda i tratti di un turco mongolico. I due carnefici sarebbero quindi la rappresentazione dei due “tipi” di turco conosciuti dagli occidentali del tempo.
4. L’idolo d’oro Simbolo imperiale Reliquia di Bisanzio
Secondo il racconto dei Vangeli la flagellazione di Cristo si svolse nel pretorio di Gerusalemme, la residenza del governatore romano Ponzio Pilato. La ricostruzione che ne fa Piero è frutto di elaboratissimi calcoli geometrici, a cominciare dal pavimento marmoreo Per la statua d’oro collocata alla sommità della colonna alla quale è legato Cristo pare che Piero si sia ispirato ai resti di un colosso situato di fronte al Laterano, a cui apparterrebbero i frammenti oggi conservati nel cortile dei Musei Capitolini. La statua raffigurava l’imperatore Costantino. Sol Invictus: simboleggia la vittoria di Cristo sulla morte. La studiosa americana Gouma-Peterson intravede nella colonna un chiaro riferimento alla città fondata da Costantino, interpretata come Seconda Roma, ma anche come Seconda Gerusalemme. Era considerata una “città-reliquario” e la presa da parte dei Turchi musulmani equivaleva per i contemporanei a una profanazione. La Scala visibile alla sinistra di Pilato, secondo Ginzburg, alluderebbe alla Scala Santa che al tempo di Piero era situata in Laterano. Per lo storico sarebbe un prezioso indizio per la datazione della tavola, successiva al viaggio a Roma del pittore: la Flagellazione sarebbe stata realizzata a Roma tra il 1458 e l’anno seguente.
5. L’uomo con la barba Bessarione L’ispiratore del piano
Per Ernst Gombrich l’uomo barbuto in primo piano sarebbe Giuda, intento a restituire i denari del tradimento. Lo stesso studioso ha però ammesso che la sua tesi ha l’insuperabile punto debole della mancanza di qualsiasi riferimento alle monete accettate dall’apostolo traditore. Silvia Ronchey invece non ha dubbi sul fatto che si tratti del cardinale Bessarione. “Brucia d’intelligenza”: così definirono il prelato orientale i primi a vederlo quando sbarcò in Italia. L’imperatore Giovanni VIII aveva puntato molto (se non tutto) su questo giovane che salì tutti i gradini della carriera diplomatica e di quella ecclesiastica, tanto da sfiorare il soglio di Pietro in un paio di occasioni. Bessarione, in qualità di “mediatore orientale”, conosceva talmente bene la questione bizantina da poter dare le spalle alla flagellazione preso com’era nella sua opera di illustrazione della situazione agli altri astanti. All’identificazione osterebbero l’età dell’uomo raffigurato (più giovane rispetto al Bessarione del tempo) e l’assenza delle insegne cardinalizie, oltre alla mancanza del nero saio basiliano con il quale Bessarione manifestava il lutto per la caduta di Costantinopoli. Consapevole del valore culturale del tesoro librario accumulato in vita, donò la propria collezione alla Repubblica veneziana. Il lascito costituì il primo nucleo della futura Biblioteca Marciana.
6. Il biondo scalzo Tommaso Paleologo Il candidato tradito
Carlo Ginzburg, nel suo ormai classico saggio Indagini su Piero (Einaudi), vede nell’enigmatica fi gura del biondo al centro della scena principale un ritratto di Buonconte da Montefeltro. Figlio di Federico II, il giovane morì prematuramente di peste quando aveva soltanto 17 anni: la fissità dello sguardo e l’assenza di emozioni fanno pensare che si tratti effettivamente del ritratto di un morto. Per altri invece si tratterebbe del primo figlio legittimo del duca, ovvero Guidobaldo, anch’egli morto in giovane età. Per la Ronchey sarebbe invece Tommaso Paleologo, fratello minore di Giovanni VIII. La bizantinista vede nel fatto che sia scalzo la denuncia della sottrazione dei calzari purpurei, simbolo del potere imperiale che gli spettava per diritto di nascita, come testimonierebbe la sua veste di porpora. Ultimo porfirogenito (appunto nato nella porpora, secondo il rituale imperiale), Tommaso aderiva a una politica filo-latina che voleva ancorare Bisanzio al mondo occidentale contro l’avanzata dei Turchi e le pressioni dell’ala turcofila, capeggiata da un altro suo fratello, Demetrio. Ultimo signore della Morea cristiana, Tommaso aveva un ruolo centrale nel progetto di salvataggio di Bisanzio. Un suo ritratto nei panni di San Paolo è rappresentato in una delle statue del Ponte Elio a Roma.
7. L’uomo in broccato Niccolò III d’Este L’alleato filo-bizantino
Quando lo spettatore si sofferma sulla scena in primo piano, la sua attenzione è immediatamente catturata dal sontuoso vestito in broccato indossato dall’uomo all’estrema destra. Carlo Ginzburg vi scorge il ritratto dell’aretino Giovanni Bacci, al quale lo studioso attribuisce la committenza dell’opera. Ginzburg arriva a questa conclusione confrontando i tratti somatici dell’uomo con quelli di altri personaggi raffigurati in alcune opere di Piero, come la celebre Madonna della Misericordia di San Sepolcro. La Ronchey identifica invece il personaggio all’estrema destra con Niccolo III d’Este, sottolineando il fatto che Giovanni Bacci era una figura di secondo se non di terzo piano nel panorama italiano contemporaneo e sicuramente era fuori luogo in una rappresentazione che – a suo dire – ha tutte le caratteristiche per essere un “manifesto” politico pro-Bisanzio. La bizantinista nota che l’elaborata veste ha il suo parallelo più vicino nel costume indossato da un personaggio raffigurato nella Madonna col Bambino e Lionello d’Este di Jacopo Bellini (conservata al Louvre). Il parallelo non viene notato casualmente, in quanto Lionello era figlio di quel Niccolò III, principe filobizantino e amico di Bessarione, che secondo la Ronchey sarebbe raffigurato nell’uomo in broccato della Flagellazione.Saul Stucchi
INTERVISTA A SILVIA RONCHEY
Silvia Ronchey, romana, è docente di Civiltà bizantina e di Filologia Classica all’Università di Siena. Nel 2001 ha pubblicato per Rizzoli L’anima del mondo, una conversazione con lo psicologo e filosofo James Hillman, seguito nel 2004 da Il piacere di pensare che ripete la stessa formula con il medesimo interlocutore. Al 2002 risale invece la pubblicazione de Lo stato bizantino per i tipi di Einaudi.
Professoressa Ronchey, perché ha preso in esame la Flagellazione?
Perché sono molti i quadri misteriosi, che hanno un doppio livello di lettura. Ma in questo caso l’enigma è evidente: il quadro, così com’è, non si legge. Non si capisce perché la flagellazione di Cristo debba essere raffigurata come un’azione che si svolge in un retroscena, praticamente ignorato dai tre personaggi nel proscenio che parlano tra loro. Fin dalla riscoperta di Piero in età vittoriana gli studiosi si sono sempre scervellati sull’ermeneutica del quadro.
Da dove ha preso avvio la sua analisi?
Il mio percorso è partito da Bessarione, dallo studio delle sue opere giovanili in greco (composte prima del concilio di Ferrara-Firenze del 1438-9), quando era dignitario alla corte di Mistrà. In queste opere ho trovato un testo sconcertante: l’elogio funebre di Cleòpa Malatesta Paleologhina, la bellissima e intelligentissima figlia adottiva di Carlo Malatesta, nonché sorella adottiva di Sigismondo Malatesta, spesso raffigurato da Piero. Viene data in sposa a uno degli eredi al trono di Bisanzio, Emanuele II, in vista di diventare imperatrice di Bisanzio mentre invece muore in circostanze misteriose nel 1433. Il tutto è iniziato da un viaggio a Mistrà, in cerca della sua tomba che però non ho trovato. Ho scoperto invece una mummia di un’aristocratica occidentale di altissimo rango che tutto fa desumere sia Cleòpa o una sua dama di compagnia. Il vestito e l’acconciatura testimoniano che non si trattasse di una donna bizantina. Studiando le alleanze dinastiche tra Paleologhi e Malatesta sono arrivata a ricostruire il piano di salvataggio occidentale di Bisanzio che si snoda tra gli anni 20 e 40 del Quattrocento. Bessarione, in qualità di cardinale “orientale” della curia romana, cercherà in ogni modo di sostenere questo piano.
Qual è, secondo lei, la chiave per sciogliere l’enigma della Flagellazione?
Ritengo che la chiave stia in noi, nella nostra mancanza di strumenti intellettuali e psicologici per conoscere la storia bizantina, soprattutto quella della Bisanzio tarda. In generale l’Occidente ha eclissato, rimosso (anche se non sono propensa a pensare a una vera e propria censura) il millennio bizantino, l’altra metà del Mediterraneo che per undici secoli aveva dominato il mondo medievale, in realtà continuando l’Impero Romano, quindi non è neppure corretto parlare di medioevo. Il trono che si rende vacante nel 1453 con la caduta di Costantinopoli non è quello di un piccolo regno balcanico insidiato dalla pressione ottomana, ma è quello dell’impero romano. Secondo la mia esegesi il quadro allude alla necessità di ricongiungere o quanto meno di recuperare all’occidente l’eredità di Bisanzio, non solo quella culturale. Quest’ultima sarà salvata col Rinascimento, mentre l’eredità statale, amministrativa e dinastica andrà perduta. Il piano di salvataggio di Bisanzio, manovrato da Bessarione, fallirà casualmente: come diceva Robespierre, il caso è il re della storia. Nessuno poteva sapere come sarebbe finita, non certo Piero che nel 1458-9, quando esegue il dipinto, assiste ai preparativi grandiosi della conferenza di Mantova indetta da papa Pio II; un summit internazionale per preparare un’imponente spedizione militare per il recupero della Morea bizantina.
Che reazioni ha registrato?
Per il momento devo dire che sono state positive. Salvatore Settis è stato per me un punto di riferimento fin dall’inizio. A partire da un mio articolo nella Byzantinische Zeitschrift mi ha incoraggiato a proseguire questa ricerca. La sua approvazione me l’aspettavo, mentre non mi aspettavo quella di altri storici dell’arte come Claudio Strinati [della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Romano]. Il mondo degli studi è però lento e dobbiamo aspettare quali saranno le reazioni più capillari. Posso comunque anticipare che la Soprintendenza di Urbino ha indetto per la primavera una tavola rotonda che si terrà proprio di fronte alla Flagellazione e che riunirà i massimi esperti internazionali di Piero della Francesca.
L’UNITÀ DI MISURA
Nel 1953 gli inglesi Bernard Arthur Ruston Carter e Rudolf Wittkower pubblicarono sulla rivista Journal of the Warburg and Courtauld Institutes un articolo fondamentale per l’esegesi della Flagellazione. I due studiosi avevano scoperto infatti gli arcani matematici sottesi alla composizione del dipinto, ripresi da Nicola Cusano e Leon Battista Alberti. L’architettura della scena è basata su un modulo pari a 4,699 centimetri, rappresentato dalla sottile striscia di marmo nero raffigurata sopra il copricapo dell’uomo barbuto in primo piano. Moltiplicato per dieci, il modulo dà la larghezza dell’opera, mentre l’altezza è pari a sette volte il modulo così ostentatamente collocato in posizione centrale da risultare pressoché “invisibile” per cinquecento anni.
LA GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE
Il Palazzo Ducale, sede della Galleria Nazionale delle Marche, fu voluto da Federico Montefeltro nella seconda metà del Quattrocento. Nel torno di pochi anni Urbino si trasformò da piccolo borgo medioevale in una città progettata e realizzata secondo i canoni dell’architettura rinascimentale. All’inizio i lavori furono affidati a Maso di Bartolomeo, mentre il disegno del mirabile cortile d’onore si deve all’architetto Luciano Laurana, autore anche della spettacolare facciata dei Torricini. La direzione del cantiere passò poi a Francesco di Giorgio Martini, al quale si devono anche i Palazzi di Jesi e di Urbania. La Galleria fu creata nel 1912, mentre l’ultimo allestimento risale al 1982. Tra i capolavori esposti meritano una menzione, oltre alla Flagellazione, la Madonna di Senigallia, anch’essa dipinta da Piero della Francesca; la Comunione degli Apostoli di Giusto di Gand; il Miracolo dell’Ostia Profanata, realizzato da Paolo Uccello e la famosa Muta di Raffaello, il cittadino più famoso di Urbino.
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| 09/06/2007 | Piero della Francesca e le corti italian…, Marco Caneschi
Ci sono dieci anni di ricerca dietro al libro “L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey, recentemente presentato dall’autrice al Teatro Bicchieraia. Dove l’enigma si annida, a questo punto si annidava, nel doppio piano prospettico della Flagellazione di Piero della Francesca custodita alla Galleria Nazionale delle Marche di Palazzo Ducale a Urbino. Rimandare alla lettura di questo saggio è d’obbligo per entrare nei segreti della tavola, dal significato della misteriosa scritta scomparsa convenerunt in unum, alla storia della testa di Sant’Andrea, apostolo di Gesù e fratello di Pietro, dall’eterno amore-odio tra Occidente e Oriente, allo spazio-tempo concepito dall’artista di Sansepolcro grazie agli artifici dell’arte e non alle formule della fisica, 450 anni prima di Einstein. Soprattutto, il lettore è catturato nell’atmosfera culturale ispirata dai più importanti umanisti del Quattrocento. Alcuni dei quali, seguendo i destini imponderabili della Storia, salirono al soglio pontificio, Enea Silvio Piccolomini, Pio II, morirono delusi o divennero cardinali dopo essere stati membri dell’accademia orfico-platonica raccoltasi a Mistrà, nel Peloponneso, Gemisto Pletone e Bessarione. I loro frutti vennero successivamente raccolti a Firenze. La Firenze di Marsilio Ficino prima ancora che di Cosimo il Grande.
C’è un quadro, si legge nel libro della Ronchey, che raffigura queste personalità: è l’Adorazione dei Magi di Benozzo Gozzoli, a Palazzo Medici-Riccardi. Il primo manifesto di questa tendenza culturale che legge finalmente Bisanzio non come un mondo piatto attraversato da secoli di progressiva decadenza, stilizzato nelle icone e nei mosaici, ma come sede privilegiata di tanti “umanesimi” anticipatori del nostro, sbocciato, guarda caso, quando i bizantini giungono in Italia.
Insieme alla loro arte diplomatica, alla loro ortodossia scismatica e al timore di una imminente conquista turca di Costantinopoli, un 11 settembre del XV secolo che arriverà puntualmente nel 1453, essi portano la riscoperta e rilettura dei classici greci che consegneranno, come un prezioso testimone, proprio all’Occidente affinché ne faccia l’uso migliore.
È un’Europa, quella orientale che ha resistito 1000 anni alla caduta di Roma: l’Europa Occidentale dovrà camuffarsi in Sacro Romano Impero, sotto l’egida prima dei Franchi poi degli Ottoni, per darsi una parvenza di ancoraggio a quel passato imperiale e glorioso. Bisanzio non ha bisogno di maquillage, Bisanzio è l’Impero perpetuatosi. Il basileus, titolo dell’imperatore costantinopolitano, è Cesare senza aggettivi, è il vero erede di Ottaviano, Traiano, Adriano, Marco Aurelio, Diocleziano, Costantino.
Quando questa città-simbolo viene conquistata da Maometto II, per la prima volta si pone nella Storia il problema del rapporto tra Europa e Islam. Studiare Bisanzio oggi non è casuale, è qualcosa che ci coinvolge in tutta la sua attualità.
Piero della Francesca e il Quattrocento erano consapevoli dell’importanza di questo passaggio traumatico, capaci di accogliere nelle loro opere quanto di più mistico e “classico” veniva loro suggerito dallo studio, dalla conoscenza e dalle suggestioni. Rileggono la vicenda umana dalla parte degli sconfitti: l’Europa greco-orientale. E ne auspicano la salvezza, o ancora il recupero nel grembo della cristianità e della romanità.
La mostra di Arezzo dà un’idea chiara di come Piero sia diventato la rosa dei venti di un’arte pittorica che si diramò ai quattro punti cardinali, le corti dell’epoca. Oltre ai quadri, ha dei tesori meno appariscenti ma importanti per Silvia Ronchey. In particolare alcune medaglie di Pisanello che raffigurano Giovanni VIII Paleologo, il penultimo basileus. Colui che partecipò al concilio di Ferrara-Firenze, che Piero vide sfilare nella città del Giglio con un codazzo incredibile di servi, consiglieri, intellettuali, monaci, cortigiani. Giovanni VIII è rappresentato di profilo nelle medaglie ora esposte ad Arezzo. Non si sbaglia allora nell’identificarlo con il Pilato seduto che nella Flagellazione guarda il supplizio di Cristo-Costantinopoli sullo sfondo della tavola. Giovanni VIII giunge a Firenze propenso a ricomporre lo scisma della cristianità, suggerito in questo da Bessarione, pur di ottenere l’impegno dell’Occidente a difendere la sua capitale ancora invitta.
Ma la tavola di Piero è successiva alla presa di Costantinopoli, lo stesso Bessarione capisce che questa è un fatto acquisito: individua allora un’altra testa di ponte nella marea turca dilagante, la Morea, dove restava a memoria imperitura la sua Mistrà esoterica da riportare nel seno della cristianità. Lì, doveva regnare Tommaso Paleologo, imparentato con i Malatesta di Rimini. Quello era il luogo adatto non tanto a una nuova unità del cristianesimo ma a una sorta di religione universale, un cristianesimo platonico, o se credete un platonismo cristianizzato. Il sogno di Nicola Cusano. Ce n’era già un’esemplificazione architettonica: l’edificio di Leon Battista Alberti, proprio a Rimini, una chiesa sublimata in tempio pagano.
A queste prospettive era favorevole anche il Papa Pio II, pontefice platonico consapevole che il titolo di imperatore romano era rimasto in capo a colui che sedeva sul trono bizantino. E riconciliare le sua Roma con quella adagiata sul Bosforo, o al limite con la sua mimesi peloponnesiaca di Mistrà, gli consentiva di tornare a essere il vescovo-guida di un’Europa a religioni unificate. Sollecitare e benedire una “crociata” equivaleva a legittimarsi quale depositario di una spiritualità e temporalità naturali, messe in discussione dalla crisi della Chiesa e dall’opera di Lorenzo Valla, in quegli anni rivelatore della falsità della fonte primigenia del suo potere, la donazione di Costantino.
Ma con il recupero di Bisanzio, ne erano consapevoli i protagonisti di quelle vicende, si restituiva a questa città un ruolo di filtro e mediazione. L’Europa, perdendola, vedrà sparire il garante di un dialogo tra essa e le culture fiorite nelle pianure asiatiche della Bactriana o nei deserti dell’Arabia.
Guardare a quei secoli, al 1453, alla caduta di Costantinopoli, senza la quale forse non avremmo avuto né le caravelle di Cristoforo Colombo né le tesi di Martin Lutero a Wittemberg, né, e qui la conclusione della Ronchey è acuta, il matrimonio tra principe di Mosca e l’ultima paleologa con il quale l’Occidente ha abbandonato alle steppe la sua sorella levantina, vuol dire affrontare i traumi dell’infanzia del nostro continente. E ora che l’Europa è diventata adulta sembra avere scordato proprio quei passaggi salienti. Lasciando Bisanzio alla deriva, oggi che si chiama Istanbul i governanti sono avviati a ripetere le medesime scelte chiudendole in faccia le porte, ha rinunciato alla sua capacità di dialogare con le civiltà a Oriente del Bosforo, che ne è sempre stato l’ingresso e l’interlocutore, senza per questo scordare l’origine romana che l’ancorava alle nostre radici.
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Il Resto del Carlino | 15/06/2007 | Dall'enigma al processo, metto in gioco …, Luigi Luminati
Forte delle trentamila copie vendute e di un’edizione tascabile con la scritta «bestsellers» appena arrivata in libreria del suo «L’enigma di Piero», Silvia Ronchey pare pronta ad affrontare qualsiasi prova. Compresa l’attesa tavola rotonda in programma questo pomeriggio (ore 17) a Palazzo Ducale con la partecipazione di importantissimi studiosi della storia dell’arte come Claudio Strinati, Antonio Paolucci, Carlo Bertelli, Antonio Giuliano e Bert Treffers. A fare gli onori di casa la soprintendente Lorenza Mochi Onori. Il tutto nella sala della Galleria nazionale delle Marche dove la Flagellazione, al centro del libro della Ronchey, è esposta.
Il luogo è ideale...
«Direi proprio di sì — risponde Silvia Ronchey, docente di storia bizantina a Siena —, l’idea è nata al Premio Frontino Montefeltro con Lorenza Mochi Onori. Abbiamo pensato di sfruttare questo suo ruolo per fare qualcosa di più e di diverso da una presentazione. Mi piace l’idea di trovarmi di fronte a degli storici dell’arte pronti a dirmi tutto quello che pensano».
Si aspetta una sorta di processo?
«Direi proprio di sì. Credo che una parte degli illustri studiosi invitati non sia d’accordo con la mia ipotesi bizantina. E credo che il luogo stimoli anche l’esposizione di opinioni contrastanti. Diciamo che l’idea del processo pubblico, che sia vero e sincero scambio di opinioni, non mi dispiace. Devo dire che, simpaticamente, Carlo Bertelli mi aveva avvertito: “Scorrerà il sangue...”».
D’altra parte non è facile far venire allo scoperto studiosi della storia dell’arte su un libro come il suo...
«Proprio così. L’appuntamento di Urbino sarà unico per varie ragioni, compresa questa. L’altro aspetto molto positivo è che ad un anno di distanza dall’uscita, a libro letto, un po’ tutte le “corti rinascimentali” toccate dall’Enigma sono sollecitate a parlarne. Andrò a Ferrara, a Rimini, ma anche a Mantova. Sono stata a San Sepolcro. In più in ogni tappa emergono studiosi locali, esperti ed amatori che propongono loro idee in relazione all’ipotesi del libro. Così più che un tour di presentazione diventa per me un arricchimento, nuove fonti, nuove possibilità, soprattutto altre conferme».
Una di queste è arrivata proprio da Urbino. Bessarione, protagonista del tentativo di crociata per salvare Bisanzio, presente secondo lei nella Flagellazione, è stato individuato anche nello stendardo del Duca Federico, risalente al 1472, appena restaurato dalla soprintendenza urbinate.
«Ho avuto uno scambio di idee con Lorenza Mochi Onori e mi pare condivisibile l’individuazione della presenza di Bessarione nello stendardo. L’uomo con la barba è riconducibile all’iconografia matura dell’ultimo dei bizantini. In più al suo fianco si può riconoscere Zoe Paleologina, la giovane erede dell’Impero Bizantino destinata a sposare Ivan III di Russia, diventando così l’imperatrice Sofia. Ciò conferma che in quel periodo nel suo viaggio italiano l’erede di Bisanzio passò anche per la corte feltresca».
L’altra novità riguarda Firenze e la nuova interpretazione dell’enigma del Virgilio riccardiano.
«E’ una grande scoperta di Giovanna Lazzi, che leggendo “L’enigma di Piero” vi ha trovato un’interpretazione possibile per decifrare l’enigma del Virgilio riccardiano. Ovvero una miniatura fiorentina del ’400 dedicata all’“Eneide” di Virgilio ma con immagini non ancora decifrate. Invece la simbologia dei personaggi è simile a quella della Flagellazione. Con Tommaso Paleologo in versione Enea: l’uno fugge da Bisanzio in mano ai turchi, l’altro da Troia distrutta dai greci. Il parallelismo iconografico è impressionante. I personaggi sono gli stessi, con grande somiglianza».
Di enigma in enigma, dove vuole arrivare?
«Intanto è stato entusiasmante l’interesse suscitato dal libro al di fuori dai canali accademici. Una scommessa vinta. Una funzione importante è stata svolta dal sito internet. Con migliaia di contatti anche per le 300 pagine di apparato delle note che abbiamo messo solo online. Ci sono state alcune segnalazioni dirette: una in particolare riguardava proprio lo stendardo del Duca Federico. E’ il vantaggio di avere pubblicato una ricerca storica di prima mano in un circuito allargato, non solo per addetti ai lavori. Abbiamo anche messo in moto una ricerca su Cleopa Malatesta che collegherà Rimini con Mistrà. Attraverso studi sul Dna fatti in Romagna ed una campagna di scavo per trovarne la tomba in Grecia».
Bisanzio, poi, è diventato quasi un tema di attualità.
«Proprio così. Il parallelismo con l’11 settembre. la guerra di religione, il rapporto con l’Islam. In questi giorni ho appena finito 20 puntate radiofoniche sulla caduta di Costantinopoli che da qui all’autunno diventeranno un libro per Sellerio».
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Il Resto del Carlino | 17/06/2007 | Il processo è rinviato, «il mistero rima…, Luigi Luminati
Silvia Ronchey aveva chiesto una sorta di processo alla sua «interpretazione bizantina» della «Flagellazione» di Piero della Francesca. Non l’ha avuta. Ha invece incassato, la docente di storia bizantina a Siena, complimenti e salamelecchi dai critici dell’arte e qualche elegante presa di distanza, in particolare di Carlo Bertelli, storico dell’arte e responsabile della mostra su Piero della Francesca in corso in questi mesi ad Arezzo. Non c’è stato processo perché la padrona di casa Lorenza Mochi Onori, gli storici dell’arte Claudio Strinati e Bert Treffers hanno ribadito la loro adesione intellettuale alla «brillante ricostruzione di Silvia Ronchey». Mentre Marco Carminati, giornalista de «Il Sole 24 Ore», ha puntato, soprattutto, sulla «capacità divulgativa espressa dall’autrice in “L’enigma di Piero”».
Così è rimasto il solo Carlo Bertelli a far capire chiaramente di non credere all’interpretazione «bizantina». «Se io nel ’400 avessi voluto esprimere un manifesto politico in un quadro mai mi sarei rivolto a Piero della Francesca — ha detto Bertelli —, mi sarei rivolto a Paolo Uccello e Filippo Lippi, ma sicuramente non a Piero». Il quale, ha convenuto nel suo elegante e divertente incedere, Claudio Strinati: «Era periferico alle grandi scelte di allora. Le sue cose più importante sono state realizzate in periferia, a casa sua, ad Arezzo, a Borgo San Sepolcro. Non a Firenze, che era il centro principale della cultura pittorica del periodo. Non a Roma, dove c’era il Vaticano». E ancora: «Cosa fa Raffaello quando diventa una sorta di sovrintendente alle belle arti in Vaticano? Elimina un affresco di Piero della Francesco per sostituirlo con uno suo».
In realtà il mistero di Piero della Francesca si interseca con il mistero di questa piccola tavola su legno che scompare di fronte alla magniloquenza di tanti quadri presenti anche a Palazzo Ducale. «Sappiamo poco di Piero», dice Strinati. E quello che si sa riguarda, in sostanza «l’amministrazione pubblica, i pagamenti, i rapporti con la municipalità». Non ci sono documenti di elaborazione, culturali si potrebbe dire. «Della “Flagellazione” non sappiamo alcunché — aggiunge Bertelli —, a questo punto sono anche convinto che sia stata dipinta prima della datazione corrente. Non sappiamo nemmeno cosa sia a livello tecnico». E Strinati, di rimbalzo: «Non sappiamo chi sia il committente, la data, a quale luogo e funzione fosse destinata». Insomma, non sappiamo — per certo — un bel niente. Eppure lo stesso Carlo Bertelli annuncia di aver cambiato idea: «Ho rivisto le mie opinioni sulla “Flagellazione” e ne scriverò presto». L’inglese con «piccolo attico a Roma» Bert Treffers è in sintonia con la Ronchey ed il suo parallelismo tra «flagellazione» di Cristo ed il declino di Bisanzio.
Così pur non essendo sotto processo, Silvia Ronchey deve incassare l’elegante critica di Bertelli: «Credo che questo quadro sia un po’ come la maledizione che Mefistofele infligge al Faust, che vedeva in ogni donna Margherita». Insomma ogni esperto può trarci una sua convinzione, senza che mai sia possibile dare una risposta definitiva. Silvia Ronchey non si scompone e continua la sua ricerca: «Intanto ad un anno dall’uscita del libro, registro che proprio ad Urbino l’individuazione di Bessarione (e Zoe Paleologhina) nello Stendardo del Duca, appena restaurato. Poi la stessa iconografia da me indicata per la “Flagellazione” è emersa a Firenze nel Virgilio riccardiano, una miniatura che rappresentava un altro mistero e che può avere una risposta». Nell’attesa di quella «prova definitiva» che Marco Carminati ha auspicato possa arrivare. Magari proprio da Urbino dove la «Flagellazione» è rimasta, dormiente, per secoli, prima di diventare un mistero della storia dell’arte.
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Jurnal fur Kunstgeschichte | 01/11/2007 | Silvia Ronchey: l'Enigma di Piero, Silvia Pedone
Lo studioso che si appresti a leggere il recente libro della Ronchey dovrà indubbiamente fare i conti con il problema del contenuto rappresentazionale di un testo visivo. In una domanda, che era già chiara ai tempi di Aristotele: a che cosa si deve mirare e che cosa c'è da tenere in conto – in agenda, diremmo oggi – quando si compongono racconti figurativi? (nota 1). Interrogativo tanto urgente quanto più, avanzando nelle ricche pagine del libro di Silvia Ronchey, il lettore si troverà a confrontarsi con i processi metodologici che sono alla base della disciplina storico-artistica e su cui l'autrice insiste provocatoriamente facendo dialogare professionisti di diversa formazione – un antichista, uno storico dell'arte ed un archeologo – con l'intenzione di dirimere una questione ancora oggi aperta, offrendo spunti di riflessione su ciò che significa fornire un orientamento metodologico convincente di fronte ad un caso concreto di interpretazione artistica.
Oggetto dell'indagine del volume è una tra le opere di Piero della Francesca più discusse dalla letteratura artistica del secolo scorso, vale a dire la Flagellazione di Cristo conservata nella Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino. La domanda iniziale trova giustificazione, ed è tanto più pertinente, se a distanza di più di seicento anni dalla sua realizzazione il dipinto "dichiara" ancora di più la sua enigmaticità. La piccola tavola è al centro di un interessante caso di fallacia interpretativa dovuta alla singolare organizzazione della scena, alla prossemica dei personaggi e alla differenziazione tra il piano di fondo ed il proscenio. Se ciò che sembra essere il tema principale, ben riconoscibile, non è altro che una figurazione di secondo piano, ci si è domandati cosa effettivamente potrebbe costituire il vero soggetto, insistendo sull'idea che ciò che sembra non è che quello che non si vede va cercato poiché potrebbe essere il "vero", ma nascosto, significato dell'opera.
I soli dati certi a disposizione dell'osservatore (forme, linee e colori) e la loro organizzazione secondo schemi consolidati (tradizioni iconografiche) non solo non chiariscono le intenzioni del dipinto, e dunque il significato dell'opera, ma al contrario lo confondono, in quanto l'unica scena riconoscibile (nota 2), la Flagellazione, appunto, giace in un piano distante, variamente interpretato come evocazione dell'episodio evangelico, eco simbolica di eventi e fatti contingenti, piano narrativo metastorico.
Assecondando quella che Umberto Eco chiamerebbe la "sindrome del sospetto" – peraltro richiamata in questo caso dal titolo di tenore investigativo del libro – si è largamente diffusa l'ingenua disposizione a credere che dietro ogni circostanza si celi un enigma fondamentale da interpretare (nota 3). Tutto ciò va ben al di là, se non a scapito, del conoscere secondo la causa, ovvero in base al procedimento di ricostruzione del funzionamento di oggetti, di testi, e nel nostro caso specifico, di dipinti. Un tema, questo, inatteso per una studiosa come la Ronchey che si è sempre occupata di storia e civiltà bizantina; in un'interessante "invasione di campo" (nota 4) che si limita – usando le sue stesse parole – a "registrare e trascrivere" le voci di cronisti e testimoni degli anni cruciali, alla metà del XV secolo, che videro la cristianità occidentale animarsi nel tentativo di salvare la pars orientalis dalla minaccia turca. La sue esperienza filologica e la naturale frequentazione di fonti e documenti d'archivio viene dunque messa al servizio dell'iconografia, nel tentativo di risolvere quell'enigma che finora non ha trovato una soluzione in grado di accordare le molteplici interpretazioni degli studiosi che vi si sono cimentati. Alle molte voci se ne aggiunge un'altra che fin dalle prime righe del testo si dichiara a favore di una lettura tutta "orientale" (o meglio bizantina) delle ragioni profonde del dipinto. Proprio questo sbilanciamento a favore della "pista bizantina" – in cui tutti gli elementi, anche quelli meno evidenti, sono intesi come prova – induce il lettore a considerare il libro sulla Flagellazione di Piero un efficace pretesto per raccontare una storia, quella più cara e famigliare all'autrice. In tal senso conviene qui soffermarci in particolare su due aspetti: la forma e il contenuto.
1. La forma. La prima peculiarità del volume è la costruzione del testo, poiché non viene usato un unico registro linguistico ma si alternano i toni dell'indagine storica, le suggestioni romanzesche, le descrizioni di viaggio e la critica artistica vera e propria. Un percorso di lettura definito fin dall'inizio come "il sommarsi di piani basculanti" che chiamano in causa la storia e la filologia, la storia dell'arte, l'antichistica ed anche la "storia delle sensibilità"; per queste ragioni si è preferito il taglio narrativo, e a volte l'espressione colloquiale dello schema dialogico, alla più canonica prassi saggistica. I numerosi (144!) seppur brevi capitoli, caratterizzati da stuzzicanti titolature, non sono altro che frammenti di un mosaico (di cui ogni tassello rappresenta una testimonianza documentaria) con i quali si intende ricostruire la vicenda storica dalla fine dell'impero bizantino.
L'originale veste data al libro porta la Ronchey a distinguere due tipi di lettori, da un lato lo specialista (antichista, storico e storico dell'arte), al quale evidentemente l'autrice è solita rivolgersi, e dall'altro un più vasto e generico pubblico di lettori. Da ciò il curioso suggerimento di iniziare il libro partendo dalla fine, ovvero dal vasto apparato bibliografico raccolto minuziosamente a conclusione del volume, o di consultare, per chi volesse saperne di più, una versione ampliata del regesto è reperibile qui. I capitoli si succedono apparentemente slegati tra di loro, ogni voce racconta un frammento della propria vicenda, come se il lettore procedendo nel suo "cammino" aprisse più porte e tornasse più volte sui suoi passi. Tra questi spaccati di storia c'è spazio anche per le vicende critiche del quadro. La scelta di non utilizzare le note a corredo del testo, dettata dall'esigenza di rendere più agevole la lettura, si scontra allo stesso tempo con la difficoltà di rintracciare, tra le tante voci documentarie di cui l'autrice si serve, il rimando specifico; ciò è per altro reso più complicato dall'uso delle abbreviazioni anche per i testi di più recente pubblicazione.
2. Il contenuto. Il piccolo dipinto su supporto ligneo (58,4 x 81,5 cm), conservato anticamente nella sacrestia del Duomo di Urbino, colpisce per il curioso ribaltamento compositivo e gerarchico dell'immagine: il tema principale (sacro) della Flagellazione è collocato in secondo piano, all'interno di un edificio architettonico porticato dalle forme classiche/albertiniane, mentre tre imponenti figure sul proscenio dialogano all'aperto su uno sfondo cittadino. A dividere la scena in due parti contribuisce la lunga linea bianca della pavimentazione, posta prospetticamente in evidente prosecuzione del colonnato-diaframma, e la chiara giustapposizione tra categorie interno/esterno (pretorio/piazza), avanti/dietro (proscenio/sfondo).
Dovendo in questa sede riassumere brevemente il dibattito critico, per altro ampiamente ripercorso nel volume, è possibile individuare, di fronte alle molte incongruenze del dipinto, tre posizioni principali: la prima, che vorrebbe i personaggi in primo piano totalmente estranei alla scena sacra; la seconda, che li vuole parte integrante dell'episodio evangelico, e la terza, che vede le due azioni unite solamente da un rapporto evocativo e simbolico-allegorico (nota 5) in cui i personaggi in primo piano altro non sarebbero che i protagonisti delle vicende storiche contemporanee alla data d'esecuzione del dipinto (nota 6), per altro non meglio precisata.
All'interno di questi tre filoni c'è spazio per le più disparate identificazioni, sia del soggetto che dei personaggi (nota 7), tentativo peraltro compiuto in questo libro anche dalla Ronchey. La studiosa prende le mosse dall'ipotesi di Kenneth Clark (nota 8), che già collocava l'opera all'interno delle vicende filo-orientali di cui furono massime espressioni la politica unionista dei concili di Ferrara-Firenze (1438-1439) e, in un secondo tempo, la promozione di una nuova crociata discussa durante la Dieta di Mantova (1459). A ritornare su questo tipo di interpretazione furono Thalia Gouma-Peterson prima e Carlo Ginzburg poi. Contemporaneamente si richiamò pure l'attenzione sulla complessa struttura architettonica ed il principio prospettico che la regola, sul simbolismo matematico e l'applicazione esoterica di un'unità di misura geometrizzante costante e matematicamente "bella", su cui hanno insistito in particolare gli studi condotti da Canter, Wittkower e Marilyn Lavin.
L'autrice, pur tenendo conto di tutti questi studi, insiste in particolare sul carattere di "esortazione figurata" del dipinto all'impegno contro i turchi (p. 137) e di manifesto politico d'incitamento militare in difesa dell'impero bizantino. Tuttavia meno convincenti sono le ragioni di fondo da cui muove l'autrice, ovvero "quella griglia di intuizioni ormai difficilmente refutabili" che sembrano essere piuttosto autoreferenziali.
Nella Flagellazione si troverebbero celati, dunque, quegli elementi – non certo semplicemente intelligibili – che equiparerebbero le sofferenze di Cristo a quelle della chiesa ortodossa e dell'Impero orientale dopo la caduta della capitale nel 1453.
Lo spazio del cosiddetto pretorio di Pilato diventa allora spazio mistico e "città ideale" e sacra, è la Gerusalemme del racconto evangelico, ma allo stesso tempo la seconda Gerusalemme, ovvero Costantinopoli, il cui simbolo si vuole riconoscere nella colonna sormontata dalla statua dorata, forse proprio quella statua bronzea di Apollo-Helios voluta da Costantino in cima alla sua colonna di porfido e per molto tempo simbolo della città (nota 9). Il penultimo imperatore orientale, Giovanni VIII Paleologo, vestirebbe poi gli abiti di Pilato – secondo quanto era stato già indicato negli anni '30 del novecento da J. Babelon (nota 10) e successivamente sottoscritto da un gran numero di studiosi – ipotesi che si fonda sulla somiglianza del profilo del personaggio assiso in trono con il più certo ritratto del basileus greco realizzato da Pisanello sulla nota medaglia bronzea oggi conservata alla National Gallery di Londra. Medaglia che è oggetto anch'essa, nel volume della Ronchey, di un'animata "discussione" (nota 11) che la vuole possibile "modello" per le figure "orientaleggianti" presenti nelle molte rappresentazioni artistiche rinascimentali.
Tuttavia, se s'intende considerare il dipinto il manifesto della Caduta di Costantinopoli, si dovrà pure rilevare, con una certa forza, che Giovanni VIII a quella data era morto già da cinque anni (1448). A tale obiezione la Ronchey non risponde direttamente, preferendo costruire un'architettura argomentativa complessa, che vorrebbe il dipinto realizzato in occasione della Dieta di Mantova, e dunque destinato ad un "principe occidentale" al fine di rievocare la triste vicenda, avvenuta solo qualche anno prima, della presa di Costantinopoli ad opera del sultano turco. Ecco allora che il mandante delle sofferenze di Cristo (e della cristianità ortodossa) – che la Ronchey riconosce nella figura del "consigliere ebreo" di Pilato, posto di spalle con un turbante sul capo e a piedi scalzi – viene identificato con il turco Mehmet II, che "ordina la flagellazione" di Cristo e allo stesso tempo aspira metaforicamente ai calzari purpurei dell'imperatore Giovanni Paleologo.
Ancora più suggestiva è l'interpretazione dei tre personaggi nel proscenio. L'uomo a sinistra, caratterizzato dalla barba bipartita – l'unico a stagliarsi contro l'architettura del Pretorio collegando così le due scene – sarebbe il celebre Bessarione, non ancora ordinato cardinale. Secondo la Ronchey, il ruolo di mediatore assunto dal prelato (tra i più convinti sostenitori della causa orientale) sarebbe rintracciabile nella posizione mediana che occupa nel dipinto, mentre i riferimenti all'abito orientaleggiante e alla barba bipartita costituiscono la sola prova sufficiente a risolvere l'enigmaticità del personaggio, sebbene non esista un preciso riscontro iconografico con i ritratti noti del cardinale. Prima di Silvia Ronchey, anche Gouma-Peterson si era espressa con un'interpretazione a favore di un personaggio orientale – per altro in contrapposizione con la figura che gli sta di fronte, indicata più genericamente come occidentale – per il quale ha cautamente preferito preferito parlare di "criptoritratto".
La Flagellazione diviene così, secondo l'autrice, l'immagine di un'idea: quell'idea di crociata voluta da Pio II e animatamente caldeggiata da Bessarione. Tuttavia, la domanda cruciale relativa al probabile destinatario del dipinto resta senza nessuna plausibile risposta, a parte l'ipotesi, invero tortuosa, che l'opera di Piero possa essere stata indirizzata ad uno dei personaggi presenti nell'incontro di Mantova, il quale si sarebbe persuaso, decifrando in filigrana nella scena della flagellazione la "memoria" del Concilio di Ferrara, ad aderire alla crociata che si stava organizzando. Una possibile chiave per sciogliere l'enigma potrebbe essere l'antico titolo che accompagnava la tavola, Convenerunt in unum, parole riferibili alla liturgia del Venerdì Santo, riportate anche negli Atti degli Apostoli per indicare "l'incombente minaccia di forze maligne". Secondo a studiosa, l'iscrizione, la cui precisa collocazione sul dipinto ci è peraltro ignota, offriva allo spettatore l'indizio sicuro dell'argomento discusso dall'uomo barbuto con gli altri due astanti.
Quanto all'uomo in abito di broccato, la Ronchey esclude le precedenti identificazioni per abbracciare l'idea che si tratti di un principe occidentale, impegnato in una politica filo-orientale. Il nome ritenuto più probabile è quello di Nicolò III d'Este, signore della città di Ferrara – che sarebbe evocata dallo sfondo cittadino – e ospite del Concilio.
Il giovane biondo – il "bel guardiano dell'Eden", nell'espressione del Longhi – rappresenta ancor oggi un problema per chi si è cimentato nel dare nomi "veri" ai personaggi "dipinti". La testa del vigoroso personaggio, l'unico con lo sguardo rivolto all'osservatore, sembra essere "contrassegnata", come già indicava Salmi, dal grande lauro che la incorona come una sorta di aureola. A fornire alla Ronchey la pista giusta per la sua interpretazione sembra essere l'ipotesi di Chiara Pertusi (nota 12), la quale interpreta la tavola in chiave profetica, collegando il dipinto alle premonizioni della Visio Danielis, secondo cui molti sconvolgimenti avrebbero messo alla prova la città di Costantinopoli, salvata infine "da un uomo d'aspetto mite e povero che sarebbe stato eletto imperatore e al quale quattro angeli avrebbero dato una spada per sconfiggere i nemici". Questa sovrapposizione del testo visivo con le "visioni" di Daniele convince la Ronchey che la figura del giovane biondo altri non possa essere se non Tommaso Paleologo, nato nella porpora e "vestito" di porpora, simbolo della regalità predestinata ma non ancora realizzata, come indicato dai piedi scalzi, ancora privi dei calzati purpurei. Erede al trono bizantino al tempo del concilio di Firenze, figurerebbe accanto al giovane Bessarione, convinto assertore della crociata, e al signore di Ferrara, potenziale alleato, mentre sullo sfondo, del dipinto e della storia, Giovanni VIII, assiso in trono, assiste impotente alle sofferenze della cristianità orientale.
Dobbiamo credere, come nella celebre favola di Charles Perrault, che le scarpe siano la chiave di tutta la storia? Se dovessimo pensare ad un manifesto politico di propaganda saremmo così disposti ad adottare un mezzo anti-economico e criptico quale l'immagine creata da Piero della Francesca?
Le aspettative proposte dalla Ronchey potrebbero realmente essere state affidate ad un piccolo dipinto di questo genere? Anche volendo concedere ottimisticamente all'opera d'arte un potere così ampio di convincimento, si deve pur rilevare che, non troppo differentemente da tutte le epoche artistiche, quando si cercano intese tattiche, lo si fa dichiaratamente, semmai sommando all'intenzione dichiarata ulteriori risvolti di significato, come gli intenti religiosi, economici, celebrativi. Piuttosto complesso da discernere e da giudicare sarebbe, invece, il procedimento inverso.
Merito di questo volume è senz'altro aver ricostruito un momento storico particolarmente affascinante in cui le sorti orientali e occidentali furono strette nell'intento di contrastare l'avanzata del Gran Turco e dove le intese matrimoniali assicurarono un futuro dinastico agli eredi dell'impero orientale. Ecco allora che nel volume della Ronchey assumono un ruolo significativo le articolate vicende delle spose occidentali, Cleopa e Sofia di Monferrato prima, e quella della principessa bizantina Zoe, figlia di Tommaso Paleologo, dopo. Nel volume viene così posto l'accento sul significato dell'accordo sponsale tra Zoe e lo Czar di Mosca Ivan III, in quanto assicurò all'impero bizantino un "nuovo" futuro.Silvia Pedone
Roma
NOTE
1. La domanda si riferisce al discorso formulato da Aristotele a proposito della tragedia. ARISTOTELE: Poetica, vv. 1452b 28-30, a cura di A. Barbino; Milano 1999, p. 29. Il dipinto della Flagellazione di Piero è stato più volte indicato dalla critica come privo di azione drammatica (BERNARD BERENSON: Piero della Francesca, or the Inolequent in Art; New York, 1954). Stupisce infatti, la particolare immobilità, o più esattamente la partecipazione passiva dei protagonisti all'evento evangelico narrato. Per un chiaro e riassuntivo schema delle interpretazioni della critica si veda: F. LOLLINI: Una possibile connotazione antiebraica della "Flagellazione" di Piero della Francesca, in: Bollettino d'Arte 65, 1991, pp. 1-28.
2. Le sole interpretazioni che differiscono dalla più diffusa convinzione che la scena si riferisca alla Flagellazione di Cristo sono di Gombrich (ERNST GOMBRICH: The repentance of Judas in Piero della Francesca's Flagellation of Christ, in: Journal of the Warburg and Courtald Institutes 22, 1959, pp. 105-107), il quale suggerisce quale tema alternativo al Pentimento di Giuda; e quella di Pope-Hennessy che vede quale possibile soggetto la meno nota Flagellazione di Girolamo. JOHN POPE-HENNESSY: Whose Flagellation?, in: Apollo 124, 1986, pp. 162-165. Ricordo, inoltre, la proposta, quanto meno originale, di Cherles Hope e Paul Taylor che identificano la scena con la Liberazione di Barabba, C. HOPE, P. TAYLOR: Piero's Flagellation and the Conventions of Painted Narrative, in: Cultura e Scuola 34, 1995, pp. 48-101.
4. Ricordo che si parlò di invasione di campo anche per l'interessante saggio pubblicato nel 1981 da Carlo Ginzburg. Per una edizione che comprenda la prima versione delle sue ipotesi e la sua successiva revisione. resasi necessaria dopo le aspre critiche, si veda: C. GINZBURG: Indagini su Piero; Torino 1994. Le polemiche suscitate offrirono lo spunto per tornare su alcune questioni fondamentali relative all'opera di Piero della Francesca, all'originalità iconografica del pittore, alla cronologia relativa e assoluta, oltre ad alimentare un fitto dibattito protrattosi a lungo e per il quale si rimanda alla ricca bibliografia nel testo della Ronchey.
5. Si fa riferimento per questa interpretazione all'iscrizione delle parole bibliche, ora perdute, Convenerunt in unum. Per la descrizione della tavola: JOHANN DAVID PASSAVANT: Raffaello d'Urbino e il padre suo Giovanni Santi, a cura di G. Guasti, I-III; Firenze 1891.
6. Si veda: GINZBURG, Indagini (cit. n. 4), pp. 54-57
7. Ricordo schematicamente le identificazioni allegoriche del giovane biondo come personificazione del "giusto universale", come figura angelica, oppure immagine dello spirito santo; le tre figure stanti furono invece indicate come allegorie dell'ebraismo, del paganesimo greco e l'eresia platonica, o più semplicemente come le personificazioni degli ebrei e dei gentili, o ancora dei re e dei principi. C'è poi chi ha visto nel tema una generica protesta anti-ebraica. I personaggi in primo piano sono invece stati indicati come: Federico, Guidobaldo e Oddantonio (morto nella congiura dei Serafini nel 1444) da Montefeltro; oppure i due uomini di profilo come Manfredo del Pio di Cesena e Tommaso Guido dell'Agnello; con Giovanni VIII Paleologo e Guidantonio da Montefeltro; o ancora con Buonconte da Montefeltro accanto a Giovanni Bacci; ed infine Ottavio Ubaldini, forse committente .
8. KENNETH CLARK: Piero della Francesca; London 1951.
9. L'ipotesi di identificazione della statua dorata con la figura di Vittoria fu formulata da Gouma-Peterson (T. GOUMA-PETERSON: Piero della Francesca's Flagellation: an Historical Interpretation, in: Storia dell'arte 27, 1976, pp. 217-233) e successivamente ripresa da Maurizio Calvesi (M. CALVESI: Identikit di un Enigma, in: Art e Dossier 70, 1992, pp. 22-27). In questi saggi si sottolinea il ruolo di Costantinopoli come "città reliquia" in quanto luogo dove venivano venerate e conservate tutte le più importanti reliquie della cristianità, inclusa la colonna della Flagellazione. Diversamente Ginzburg ha preferito leggere i riferimenti architettonici del dipinto come evocazione della città di Roma e più precisamente del complesso Lateranense, dove sappiamo si conserva la grande statua di bronzo dorato di Costantino. Lo studioso insiste su questa pista ricercando ulteriori riferimenti alla città papale ed indicando nella scala che s'intravede sul fondo del dipinto un riferimento alla Scala Santa, conosciuta per altro all'età di Piero come Scala di Pilato. M. ARONBERG LAVIN: Piero della Francesca's "Flagellation": The Triumph of Christian Glory, in The Art Bulletin 50, 1968, pp. 321-342; GINZBURG: Indagini (cit n. 4), pp. 72-74. Sembra, a mio avviso, che la suggestiva ipotesi di Ginzburg non possa trovare conferma in un elemento architettonico reso in termini così banali da non essere facilmente discernibile da una qualsiasi altra scala. Ben più interessante è la riflessione che andrebbe condotto sull'iconografia di Costantinopoli nei dipinti occidentali, e sulla caratterizzazione dei monumenti più significativi della città, che la rendano, così, inequivocabilmente riconoscibile. A tale proposito ricordo l'attenta analisi condotta da Andrea Paribeni a proposito dell'immagine dipinta su un Cassone afferente alla bottega fiorentina di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono e realizzato probabilmente nello stesso torno d'anni della tavola di Piero. In questo caso la presenza della città di Costantinopoli, insieme a quella di Ankara, (precedentemente indicata come Trebisonda), divenne elemento chiave sia per l'individuazione dell'evento rappresentato, sia per chiarire l'intricata storia di relazioni di natura politico-economica intraprese, dal probabile committente, con l'oriente. A. PARIBENI: Iconografia, committenza, topografia di Costantinopoli: sul cassone di Apollonio di Giovanni con la "Conquista di Trebisonda", in: Rivista dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte, 56, III Serie, XXIV, 2001, pp. 255-304; A. PARIBENI: Una testimonianza iconografica della battaglia di Ankara (1402) in Apollonio di Giovanni, in: Europa e Islam tra i secoli XIV e XVI, a cura di M. Bernardini, C. Borell, A. Cerbo, E. Sánchez García, Napoli 2002, pp. 427-441. Più di recente, Patricia Lurati, pur non considerando tutta la bibliografia precedente, torna sulle vicende del Cassone di Apollonio di Giovanni arrivando ad identificare nella scena con il Trionfo di Tamerlano. P. LURATI: Il trionfo di Tamerlano. Una nuova lettura iconografica di un cassone del Metropolitan Museum of Art, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 49, 2005, pp. 101-118.
10. J. BABELON: Jean Paléologue et Ponce Pilate, in: Gazette des Beaux Arts, 4, 1930, pp. 365-375. Questa proposta fu confermata da C. Brandi, da C. Marinescu, da K. Clark, T. Gouma-Peterson, da C. Ginzburg, da R. Weiss e più recentemente da G. Orofino, A. Pertusi ed in ultimo da Th. Konstantoudaki-Kitromilidou. Per i testi di riferimento si vedano le rispettive voci bibliografiche riportate dalla Ronchey. Ad identificare il personaggio di Pilato con il sultano turco Mehmet II fu invece E. BATTISTI: Piero della Francesca, I-II; Milano 1971.
11. La Ronchey, descrivendo i tratti caratteristici del basileus orientale, si sofferma sul singolare copricapo (skiadon) e sulla corta barba terminante a punta. Visto l'ampio successo che questo tipo fisiognomico ha nella produzione artistica rinascimentale, non riterrei – diversamente da quanto la studiosa fa negli esempi citati (quasi mai espliciti ritratti) – che possa trattarsi di "immagini figlie" derivanti dalla medaglia di Pisanello ritraente Giovanni VIII. Per maggiori spiegazioni di veda il capitolo del presente volume intitolato "Il viaggio di Pilato", pp. 203-205; ed anche L. BESCHI: Giovanni VIII Paleologo del Pisanello: note tecniche ed esegetiche, in Mouseio Benaki 4, 2004, pp. 117-132.
12. C. PERTUSI: L'apocalittica domenicana e la Flagellazione di Piero della Francesca, in: Italia Medioevale e Umanistica 44, 2003, pp. 115-160. Per una più ampia panoramica delle profezie legate alla caduta di Costantinopoli si veda: A. PERTUSI: Fine di Bisanzio e fine del mondo. Significato e ruolo delle profezie sulla caduta di Costantinopoli in Oriente e in Occidente, ed. postuma a. c. di E. Morini; Roma 1988.
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QN Quotidiano Nazionale | 29/06/2008 | Piero della Francesca, bizantinismi sull…, Luigi Luminati
Il mistero, l’enigma è così profondo e complicato che non bastano processi o duelli per trovare una soluzione soddisfacente. Così la sfida veneziana in punta di fioretto sull’interpretazione della Flagellazione di Piero della Francesca — che fa bella mostra al Palazzo Ducale di Urbino — tra Silvia Ronchey e Bernd Roeck, con tanto di autorevoli sostenitori, non ha avuto sostanziali vincitori. Qualche ferita superficiale, qualche accenno di sarcasmo accademico, ma non si è fatto scorrere il sangue. Il rischio vero è stato quello di «perdere di vista il quadro», avverte lo storico dell’arte Andrea Tonnesmann di Zurigo. Flagellazione come atto d’accusa nei confronti di Federico da Montefeltro per l’uccisione del fratellastro Oddantonio. E’ la tesi dello studioso svizzero Bernd Roeck e del suo libro «Piero della Francesca e l’assassino». E’ la tesi di una testimonianza di faccende urbinati, come la storiografia locale ha sempre sostenuto: «Da questo punto di vista — ha ribadito il professor Enrico Londei dell’Accademia di Belle Arti — non ci sono dubbi: la storiografia urbinate settecentesca è univoca». PER I SOSTENITORI della «scena del crimine», seppure criptata, sarebbe fondamentale avere delle pezze d’appoggio sulla committenza. Roeck insiste su Prospero Colonna, zio materno dello sfortunato Oddantonio massacrato giovanissimo dalla rivolta degli urbinati. Londei pare allargare il tiro alle sorelle di Oddantonio e sorellastre del «bastardo» Federico. Ovvero Violante, Agnesina e Sveva. Lo studioso svizzero costruisce la sua detective story attorno al ruolo di Pilato e Giuda nella «Leggenda Aurea» di Jacopo da Varazze. Sovrapponendola ai personaggi del quadro, soprattutto il trio in primo piano. «Non è Bessarione il primo dei tre, con barba e cappello — dice Roec —, bensì una trasposizione di Federico, che, nei panni di Giuda è, come nella Leggenda Aurea, traditore ed uccisore di un fratellastro». «La prova che il giovane angelicato al centro del trio — replica Silva Ronchey nel sostenere la tesi bizantina del suo bestseller L’enigma di Piero— non è Oddantonio la si desume proprio dal ritratto del ’500 ora ad Ambras. Si tratta di un tentativo di restyling dell’immagine di Oddantonio da parte di Francesco Maria II dellaRovere. Quale miglior occasione di far coinciderne l’immagine con quella della Flagellazione?». La ricostruzione, nel corso del faccia a faccia organizzato dal Centro tedesco di studi veneziani, del significato dell’opera di Piero della Francesca fatta da Silvia Ronchey convince di più il pubblico, in gran parte femminile: «Per capire il quadro non ci vuole un oftalmologo bensì uno psicologo — dice — che con una terapia elimini la rimozione di Bisanzio tipica dell’Occidente. Guardandola con gli occhi rinascimentali si può ben capire come sia intrisa del dramma di Bisanzio, in quegli anni minacciata e poi conquistata dai turchi». Per Ronchey non ci sono discussioni: «Nel Rinascimento la barba la portano solo i bizantini...». Così il cardinale Bessarione è il primo dei tre personaggi sul proscenio e Tommaso Paleologo, con i calzari rossi del Porfigeneto è Pilato che assiste alla flagellazione sullo sfondo: «Non può essere un problema di barbe e capelli», replica Gerhard Wolf (direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze). «La tavola è di carattere religioso — concludono l’olandese Bert Treffers e il tedesco Peter Schreiner — e può esprimere solo l’idea di una mobilitazione per salvare la cristianità d’Oriente». «Troppo piccola —replica Tonnesmann—, riguarda una vicenda intima, personale». Così personale che, secondo Roeck, il pittore potrebbe aver anche prestato le sue fattezze per il personaggio di destra (Borso d’Este o Ottaviano Ubaldini della Carda). Diavolo di un Piero.
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La Vanguardia | 29/06/2008 | El último Bizantino, J.F. Yvars
En la antigua librería Bocca, cerca del Duomo milanés, asistí la semana pasada a un curioso debate historiográfico con el pretexto de celebrar la reaparición de un libro definitivo sobre Piero della Francesca: L´enigma di Piero (Rizzoli), de Silvia Ronchey, acreditada docente de cultura bizantina en Siena y una de las mentes más activas en lo que llamaríamos alta divulgación cultural, que la autora desarrolla en la RAI con creciente atención de crítica y público. Piero della Francesca es un notable ejemplo de la síntesis artística del Quattrocento. Trabajó en Ferrara, Arezzo, Roma y Urbino - pintor de Federico de Montefeltro- y quizá se formara en Florencia. Olvidado pronto, fue descubierto en los inicios del siglo XX y su figura hermética ha deslumbrado a los historiadores. Tratadista y argumentador de la perspectiva y en las innovaciones del primer Renacimiento, supo describir como nadie el proceso de organización científica de la representación con criterios modernos: los colores insinúan volúmenes, la línea responde al juego de planos abiertos en profundidad. Se me escapan, sin embargo, los motivos de una fascinación que compartieron Berenson, Roberto Longhi, Lord Clark, André Chastel y Carlo Ginzburg, autores de polémicos estudios sobre el pintor. Berenson supo captar con perspicacia su "inelocuencia formal", un arte sobrio que evita el énfasis realista y la expresividad naturalista, para darnos unas imágenes hieráticas de gestos emblemáticos y significados opacos. Para Longhi, era un pintor espontáneamente arcaico, de mirada clásica, que perseguía los mejores objetivos para ese arte que llamaremos renacentista. Chastel detectó en la obra de Piero la visualización del imago mundi de la corte del duque de Urbino, la elaboración de una nueva simbología artística que aunaba el acertijo medieval con la visión alegórica de las inquietudes del momento. Y este es, quizás, el hilo de la investigación que apunta Ginzburg en su trabajo sobre lo "no visto" en la pintura de Piero, la sutil simbología cifrada en la imagen, que ha desarrollado la señora Ronchey en su deslumbrante descripción de un cuadro elíptico: La flagelación de Cristo (Galería Nacional de Urbino). La lectura que nos propone Silvia Ronchey insiste en considerar La flagelación como una de las pinturas más extraordinarias del arte occidental. Un enigma, pero por razones de peso. Es un efectista relato que usa las técnicas del thriller: la autora identifica cada uno de los personajes representados a la luz del turbulento final del imperio romano oriental. El brutal enfrentamiento entre el cristianismo y el islam que marcó los orígenes de la Europa moderna, al extremo de invocar el espíritu de cruzada, de recuperación de las fronteras de la romanidad en una ideología trascendente y globalizadora que llamamos Iglesia triunfante. ¡Recuperar Bizancio! Se trataba de traducir los logros de la romanidad en una fuente de inspiración de la moral civil cristiana y convertirla en un proyecto elaborado - el Renacimiento- que en Italia definieron los humanistas. Pero para ello, y este es el descubrimiento de Ronchey, parecían necesarios la integración en el nuevo proyecto de la evasiva estética bizantina y los residuos del helenismo refigurados con impronta cristiana en Bizancio a lo largo de mil años. De ahí el énfasis de la "leyenda áurea terrenal" que la flagelación de Cristo representa y el carácter complejo de los gestos y actitudes de los personajes, sometidos a los ardides del cardenal Besarión, para recuperar el renacer cristiano en una hábil estrategia de enlaces, pactos, conjuras y traiciones entre las cortes en diáspora: el clan bizantino, los Comnenos, Lascaris, Cantacuzenos y Paleólogos, a la búsqueda de legitimación y poder entre los estados principescos: Ferrara, Mantua, Urbino, cegados por el esplendor mercantil de Venecia. Enfrentados todos a la soberbia pontificia. Una trama inextricable de intrigas que Besarión supo dominar con férreas convicciones culturales: su legendaria biblioteca, heredera de los últimos códices griegos, acabó en Venecia alcanzando la aureola del ejemplo. Su visión era el crisol entre Oriente y Occidente, pese a las astutas confabulaciones de Montefeltro y el Papa para hacerse con el legado. Era un modelo de divina ciudad Estado, con el apoyo callado del neoplatonismo y la transfiguración ideal de la autocracia bizantina en una nueva república: constitución mixta en la que la monarquía, aristocracia y democracia no son excluyentes y se ajustan en su política a las teorizaciones de Platón y Aristóteles. En La flagelación,la escena de fondo simboliza Constantinopla, ahogada por inexpugnables columnas. El cuerpo de Cristo es la Iglesia, y Pilatos en su trono es Juan Paleólogo el Emperador. El sultán turco, de espaldas, ordena el suplicio. Sin embargo, el perfil de Pilatos es el de Besarión, el de la barba partida. Al fin de su vida, Besarión, "con más coraje que fuerza", confió su biblioteca a Montefeltro con la promesa de depositarla en Venecia. Un arriesgado pero genial gesto de cordura, que evitó de este modo su dispersión en manos de la ansiosa curia vaticana. El duque cumplió la voluntad testamentaria y prudentemente añadió un inventario de los bienes que acompañaban a los libros. Incluso tuvo el gesto sentimental de encomendar a Pedro Berruguete un retrato del cardenal Besarión, sin la deformación aguda de la nariz, como exigía la malignidad de sus contemporáneos. El imperio veneciano mantuvo a las puertas del Adriático el viejo motivo bizantino, el equilibrio entre Oriente y Occidente. La sombra de Bizancio. La cruzada fantasma se disipó en el tiempo, y quién sabe si merced al diálogo de poderes sin nombre que representó Piero en La flagelación,sin que apenas nos diésemos cuenta. Un misterioso mensaje visual y metáfora del hundimiento de un mundo. La flagelación es el retrato de una idea. La representación visual del pensamiento del meditabundo Pilatos-Besarión que tan bien entendió Huxley como una invocación al humanismo: "Piero parece haberse inspirado en lo que podríamos llamar religión de Plutarco - no se trata del cristianismo, sino de todo aquello que debemos admirar en el hombre…-. Una alabanza a la dignidad humana". El sueño de Besarión de Nicea.
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Alibi | 30/06/2008 | Convenerunt in unum, Saul Stucchi
Lo scorso 23 giugno un manipolo di studiosi è convenuto nella città dei Dogi, splendida anche sotto un sole africano, per contendersi la verità (ma “quid est veritas?”) sul quadro più enigmatico dell’arte occidentale: la Flagellazione di Piero della Francesca, esposta nel Palazzo Ducale di Urbino, pur non essendo destinata a questa sede (almeno su questo punto non paiono esserci dubbi). Non si sono rinserrati in una torre d’avorio, ma sono stati gentilmente ospitati dal Centro Tedesco di Studi Veneziani, a Palazzo Barbarigo della Terrazza, per dibattere pubblicamente di fronte a un folto uditorio di appassionati. Titolo dell’incontro: Due verità su un quadro? Recentissime indagini sulla Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca, aperto omaggio all’ormai classico saggio di Carlo Ginzburg.
A fare gli onori di casa è stato il direttore del Centro, Uwe Israel che presto ha passato la parola al professor Wolf a cui è stato affidato il ruolo di “gestire” quest’originale certamen intellettuale. Il professore ha voluto subito precisare che il suo ruolo (“il più noioso di tutti”) non sarebbe stato quello di giudice, bensì di arbitro.
Gli avversari in campo erano Silvia Ronchey, bizantinista dell’Università di Siena, e Bernd Roeck, professore di storia moderna e contemporanea all’Università di Zurigo. Ciascuno dei due era spalleggiato da due “alfieri”, selezionati per sostenere la tesi del rispettivo “capitano”. Per la professoressa Ronchey sono scesi in campo (che gli dei del giornalismo chiudano un occhio, pietosi) Peter Schreiner, dell’Università di Colonia e Bert Treffers del Koninklijk Nederlands Instituut di Roma, mentre il prof. Roeck ha potuto fare affidamento sulle dotte osservazioni di Enrico Londei dell’Accademia di Belle Arti di Urbino e di Andreas Tönnesmann, dell’Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo.
I due contendenti hanno brevemente riassunto la propria interpretazione, ricordandone i punti salienti, anche grazie all’ausilio di immagini. La professoressa Ronchey ha esordito domandosi il motivo dell’enigmaticità della tavola e individuando la risposta nella cancellazione (vera e propria damnatio memoriae) del millennio bizantino: undici secoli rimossi dalla memoria collettiva dell’Europa occidentale. Questa rimozione ha finito col rendere incomprensibili gesti, indumenti, fatti storici che invece erano ben presenti all’élite colta a cui appartenevano Piero della Francesca e il committente del quadro.
Qui sotto si può vedere un breve passaggio del suo intervento.
Il professor Roeck invece ha individuato nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine il testo che permetterebbe di svelare l’identità dei personaggi dipinti, tra cui ci sarebbe Federico da Montefeltro nei panni di Pilato (in secondo piano) e di Giuda (in primo piano). Il duca urbinate sarebbe stato raffigurato come traditore perché mandante dell’omicidio del fratellastro Oddantonio, da individuare nel giovane biondo e scalzo.
Nel breve filmato qui sotto, un passaggio del suo intervento.
Il professor Schreiner ha obiettato che il metodo di Roeck è debole: lo studioso di Zurigo prima “arresta” Federico da Montefeltro e poi cerca di dimostrarne la colpevolezza, proprio lo stesso procedimento debole che Roeck critica nel suo saggio (p. 14). È poi un sacrilegio l’analogia tra il martirio di Oddantonio e la passione di Cristo: sono due mondi totalmente imparagonabili.
Per parte sua il professor Tönnesmann si è proposto come avvocato del quadro, non di uno dei due contendenti, osservando che il quadro non ha un centro: un miracolo per un’opera di quest’epoca. Ha inoltre consigliato maggiore cautela nelle interpretazioni ricordando che nessuno di noi ha gli occhi del Quattrocento. Per lui il quadro allude a una storia familiare e non a una vicenda internazionale.
Da storico dell’arte il prof. Treffers ha commentato con un certo sarcasmo di aver udito spesso la parola “metodo”, ma di non aver sentito nulla che facesse pensare a un metodo. Andrebbe riportata in primo piano la flagellazione, la scena teologicamente più importante della tavola. Va inoltre tenuto presente il commento di Sant’Agostino al Salmo 2 che contiene le parole “Convenerunt in unum” e messa in evidenza l’esemplarità della flagellazione. Secondo la sua interpretazione anche i re, persino quelli Bizantini, devono comportarsi bene, accettando la sorte del Cristo. La Flagellazione di Piero sarebbe un manifesto religioso-politico, un messaggio a tutte le persone in qualche modo legate al committente, molto vicino al papa. Il monito morale era rivolto ai principi cristiani che dovevano capire il messaggio che l’opera di Piero promuoveva.
Il prof. Londei ha accennato ai propri studi sulla scena raffigurata nella tavola: sarebbe Urbino che si trasforma in Gerusalemme. È possibile individuare la Piazza Maggiore della città, mentre il palazzo rosa sarebbe il Palazzo del Podestà e il campanile richiamerebbe quello della piccola chiesa romanica di Urbino. Il professore ha fatto notare inoltre la doppia illuminazione, quella della realtà, propria dell’emisfero boreale, e quella della divinità, impossibile per il nostro mondo.
L’incontro è stato molto interessante, ma non è risultato decisivo, come c’era da aspettarsi. L’ultima parola sulla Flagellazione non è stata ancora detta. Chi scrive, del resto, non è neppure convinto – come è stato detto – che basterebbe l’individuazione del committente a chiarire l’enigma (o più correttamente: gli enigmi) dell’opera di Piero. Ma forse è meglio così: la ricerca è sempre più interessante e stimolante dei risultati che consegue.
PS: una fonte amica ci ha informati dell’incruento finale. Se la Tavola (la Flagellazione) ha diviso i contendenti, la tavola li ha ricomposti, trovandoli d’accordo sulla bontà delle granseole, piatto forte della cena.
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Mangialibri | 06/06/2011 | L'enigma di Piero, Gian Paolo Grattarola
Il dipinto "La Flagellazione di Cristo" di Piero della Francesca è considerato uno dei quadri più celebri ed enigmatici della pittura rinascimentale, la cui datazione si collocherebbe intorno alla metà del XV secolo. La tavola, che è esposta in ottimo stato di conservazione nelle sale museali del Palazzo Ducale di Urbino, raffigura in primo piano tre gentiluomini che conversano incuranti del Cristo martoriato, presente sullo sfondo tra un imperturbabile Ponzio Pilato e uno sconosciuto che indossa turbante e abito turco. Quando venne rinvenuta nel 1839 dall’esperto d’arte Johann David Passavano all’interno della sacrestia della città montefeltresca, il dipinto conteneva - probabilmente ai piedi dei tre personaggi in evidenza - la scritta estrapolata dal Salmo II “Convenerunt in unum”. Un ‘indizio assai importante che fu sconsideratamente rimosso nel corso di un successivo restauro, sviando i primi tentativi d’interpretazione dell’opera. Per comprendere il significato di questa tavola, piccola ma densa di misteriosi messaggi simbolici, è necessario comprendere il contesto storico dal quale Piero della Francesca ha tratto l’ispirazione e l’esecuzione, riportando indietro le lancette dell’orologio al 1453, anno della caduta di Costantinopoli… Dipanare L’enigma di Piero, ovvero far luce sulla genesi dell’opera e gli intendimenti dell’autore, non è affare per soli critici d’arte. Lo dimostra questo denso volume di Silvia Ronchey che arricchisce l’intensa mole degli studi fin qui presenti sull’argomento, con una nuova chiave di lettura che pare in grado di penetrare il mistero in maniera forse davvero esaustiva. Lunghi anni di studi, approfondite ricerche storiche e filologiche condotte sulla civiltà bizantina – materia di cui è peraltro docente presso l’Università di Siena – le consentono qui di poter ragionevolmente sostenere che nel dipinto Piero della Francesca intendesse raffigurare il martirio della Chiesa d’Oriente. E che le tre figure poste in primo piano alluderebbero ai protagonisti del Concilio di Mantova che doveva gettare le basi della riscossa cristiana. Silvia Ronchey ama in sommo grado la storia e la ritiene un fondamentale strumento di conoscenza. Da qui le deriva un modo di narrare che frammenta il racconto in una fitta serie di digressioni, dove vicende, personaggi e luoghi sembrano rievocati appositamente per offrire infiniti percorsi paralleli. Pur senza mai perdere di vita la natura antiaccademica e anticonformista della sua scrittura, la Ronchey realizza un testo che piacerà in modo particolare a quei lettori che amano inoltrarsi, senza fretta e con curiosità, negli sprofondi di un enigma storico.
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