Il mistero di Piero. La «Flagellazione», un manifesto politico
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La tavoletta misura 0,89 per 0,81 centimetri ed è appesa a una parete del Museo di Urbino, entro l’enorme Palazzo Ducale costruito da Luciano Laurana nel 1465. Accanto ha la Madonna di Senigallia e la Veduta di una città ideale, forse del medesimo artista. La tavoletta rappresenta una delle scene più truculente e atroci di tutta la tradizione storica e pittorica europea: la Flagellazione di Cristo, che non dico nell’arte posteriore, del Cinque e soprattutto del Seicento, giunge al parossismo, ma già nell’arte medievale è rappresentata con brutti ceffi, sibili di sferze, urla e sputi. Qui l’azione si svolge nell’immobilità e nel silenzio più assoluti, con pallidi colori e tenui respiri, come in un acquario, e con personaggi che, per dirla con Bernard Berenson nel suo capitolo sulla «impassibilità » di Pietro della Francesca, «non curano le bufere e gli urti della vita» e mostrano come il loro stesso pittore, con nostro grande piacere e ammirazione, dispieghi una «incommensurabile superiorità alle nostra passioni ed ai nostri dolori».
Nella metà di sinistra, sul fondo di un portico ionico, un grave signore seduto osserva assieme a un dignitario di spalle due uomini statuari ed uno ignudo tranquillamente appoggiato a una colonna. A destra, in primo piano e del tutto al di fuori di quel quadrato magico, due anziani signori si fronteggiano di profilo (uno sembra battere il tempo con la mano) e chiudono in mezzo un bel giovane biondo.
Ci si può accontentare di cogliere la bellezza soave della prospettiva sui lucidi pavimenti a scacchi o sulle mura dei palazzi; godere dei colori pallidi e tenui che si rilevano appena appena dalle architetture classiche. Ma anche così, qualcosa inquieta in questi pochi centimetri di spazio, sui quali non possediamo alcun documento; e non ci si è mai accontentati dell’episodio, bensì ci si è sempre e sùbito interrogati su cosa esso celi e cosa in realtà rappresenti.
C’è una tradizione locale e a lungo accettata, secondo cui la scena rappresenta Oddantonio di Montefeltro conte di Urbino, circondato da due consiglieri inviati da Sigismondo Malatesta per tramare la sua morte: Oddantonio fu in effetti assassinato nel 1444, e il fratellastro Federico, divenuto signore della città, per onorare la sua memoria avrebbe ordinato il quadro paragonando la vittima al Cristo stesso fra due flagellatori. Ma già Kenneth Clark nei primi anni Cinquanta proponeva un’allegoria totalmente diversa, più ampia e suggestiva. Erano quelle le date del riacutizzarsi del confronto cruento e drammatico tra la Chiesa e l’Oriente; nel 1453 Costantinopoli cadeva nelle mani dei Turchi, il millenario impero bizantino crollava, e i Concili si succedevano per affrontare le questioni religiose e politiche che tormentavano (che cominciavano a tormentare) e che assediavano la Chiesa latina.
È un accenno. Nell’arengo scende ora, da attrezzata studiosa di civiltà bizantina, Silvia Ronchey, con un volume, L’enigma di Pietro. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro. Altro che segreti di Templari e segreti di Leonardo. Invece un frutto serio di ricerche svolte in biblioteche, archivi, curie, monasteri di mezza Europa, da Mistrà a Ginevra, e di tali proporzioni, che l’Autrice offre nel corposo volume a stampa quaranta pagine di Bibliografia e sessanta di Note, ma rinvia anche a una loro redazione più ampia e completa in un sito Internet.
Non per questo il libro è ostico, tutt’altro, e anche per il lettore comune: poiché, come appunto spiega l’Autrice, è «una narrazione», o un romanzo storico in cui nulla è inventato ma la storia stessa è romanzesca; attraverso il quale, tessendo molti fili e riunendone infine i capi, si conclude proiettando sul dipinto di Pietro l’ombra della drammatica e funesta presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, avvolta a sua volta da intrighi e da personaggi celebri o oscuri, potenti o miseri, e da una proliferazioni di scritti e di opere d’arte che dànno anch’essi la misura della grandiosità e dello sgomento dell’evento.
Sùbito all’inizio compare uno dei protagonisti dei fatti che entreranno nel quadro di Piero, il cardinale Bessarione, che venuto dall’Oriente in Italia vi svolgerà opera culturale e politica. Ed ecco il Concilio di Costanza, che fra il 1414 e il 1417 affollò la cittadina svizzera di decine di migliaia di ospiti, fra cui papi e antipapi, prelati, sovrani, letterati e artisti, e avviò – inutilmente – il piano di salvataggio di Bisanzio, già allora minacciata. L’operazione si sviluppa vent’anni dopo nell’altro Concilio di Ferrara e Firenze, convocato per giungere alla conciliazione fra le Chiese di Occidente e di Oriente, mentre si saldano anche opportune alleanze matrimoniali fra le case regnanti, grandi e piccole, delle due parti del Mediterraneo, ed emergono i gran signori della storia di allora, ammirati e raffigurati nel loro sfarzo e nella loro esoticità da frotte di artisti: dal Pisanello, da Gozzoli, dallo stesso Piero nel ciclo della Croce di Arezzo, e nel nostro quadro. Fra di essi, il penultimo imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo, sposo di Sofia del Monferrato, e giunto nel ’38 a capo della delegazione orientale al Concilio, è infatti il personaggio seduto, simile a Pilato, sullo sfondo della Flagellazione, intento ad assistere – ecco il punto – alle percosse inflitte a Costantinopoli dal sultano turco (il personaggio di schiena che impartisce gli ordini ai due carnefici del Cristo).
Quanto alla scena in primo piano sulla destra, nei suoi tre attori muti sono da riconoscere, da sinistra, due altri bizantini: il Bessarione appunto, e il giovane Tommaso Paleologo erede del trono di Bisanzio; terzo e ultimo poi sulla destra, Niccolò III d’Este, principe filobizantino e amico di Bessarione.
Non dunque un semplice scena sacra, e nemmeno una congiura di palazzo; bensì una manifesto politico, uno squillo di riscossa a sostegno delle iniziative di soccorso all’Oriente ferito e alla cristianità minacciata, ideate da politici avveduti e da intellettuali allarmati – ma destinate a un nulla di fatto.
Per spiegare e sostenere tutto questo – con grande vivacità anche di scrittura – l’Autrice stende una trama vastissima, avvolge il piccolo quadro pierfrancescano di grandi intrecci storici, e ne rileva dettagli minuti, apparentemente insignificanti ma che si fanno significanti sotto la sua lente di esperta (perché Giovanni VIII porta i calzari di porpora – sono il simbolo dell’autorità imperiale – e il sultano no; e così pure non li porta il giovane biondo...).
Dappertutto, ma soprattutto nel capitolo centrale del libro, che è quello intitolato Vent’anni dopo, chiarisce e dissipa le difficoltà che insorgono e si oppongono alla tesi. Su quella tavoletta di pochi centimetri quadrati crea un affresco, ch’è la storia d’Italia e d’Europa nei decenni cruciali seguìti a quella che già fu «una sorta di 11 settembre elevato all’ennesima potenza».