Il codice di Piero
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A volte, con certi libri, è meglio non lasciarsi ingannare dalle apparenze. L’enigma di Piero (Rizzoli), in libreria da alcuni giorni, è uno di questi. Possono 520 pagine dedicate a un solo dipinto appassionare un pubblico diverso da quello degli addetti ai lavori? Possono. L’autrice per prima lo definisce “mattone”, ma è meglio non darle retta: il volume di Silvia Ronchey è un esempio riuscito di ricerca storica tradotta a uso dei non esperti. E montata come un poliziesco. Lo scopo è comprendere il significato di un quadro misterioso: per farlo si cercano indizi, attraverso gli indizi si ricostruiscono eventi dimenticati, grazie a questi eventi si imbastisce una teoria suggestiva.
Il punto di partenza è la Flagellazione di Piero della Francesca (alla Galleria nazionale della Marche di Urbino), uno dei dipinti più incomprensibili della storia dell’arte. Sconosciuta la committenza, la data, il significato, vero enigma, appunto, per gli studiosi da un secolo e mezzo a questa parte.
Perché è tanto strano?
«La maggior parte dei dipinti ha vari livelli di lettura. Di solito almeno uno è evidente. La Flagellazione invece sconcerta perché non è chiaro neanche il primo livello: Cristo messo sullo sfondo, quei tre uomini in primo piano che parlano senza dar peso alla scena dietro di loro... Una composizione del genere non ha senso neppure a una lettura superficiale».
Perché Piero della Francesca sarebbe stato così oscuro?
«È proprio questo il punto: lui non era stato oscuro per niente. Il quadro era leggibilissimo per i contemporanei. Loro sapevano che cosa significasse».
Che cosa?
«Cristo flagellato rappresenta la chiesa d’oriente e Costantinopoli distrutte dai turchi; quello che sembra Ponzio Pilato è Giovanni VIII Paleologo, imperatore di Bisanzio; il personaggio di spalle è il sultano turco. I tre in primo piano sono Bessarione, il diplomatico bizantino che nel 1438 aveva sollecitato (senza successo) l’intervento delle signorie italiane a favore di Bisanzio; Tommaso Paleologo, erede al trono; e Niccolò III d’Este, padrone di casa al concilio di Ferrara del 1438-39 dove Bessarione aveva chiesto aiuto».
E i contemporanei di Piero erano in grado di leggere tutto questo?
«Ma certo. La caduta di Costantinopoli nel 1453 fu un evento epocale. Ebbe un impatto tremendo sulla gente. Era l’Islam che distruggeva la cristianità, l’impero romano d’oriente che crollava dopo quasi mille anni. Un 11 settembre all’ennesima potenza. Bisanzio non era un mondo a parte: i sovrani erano imparentati con quasi tutte le famiglie italiane che contavano, Este, Sforza, Montefeltro, Gonzaga, Malatesta, papa Pio II Piccolomini; era un territorio enorme in cui varie etnie riuscivano a convivere; garantiva le comunicazioni dell’Europa con l’Estremo Oriente».
Come abbiamo fatto a dimenticarlo?
«È stata una colossale rimozione. L’Occidente tentò di salvare Costantinopoli ma non ci riuscì. E preferì dimenticare il fallimento. Probabilmente appena tre generazioni dopo i fatti nessuno era più in grado di comprendere il significato della Flagellazione».
Che era?
«La rappresentazione di quanto successo nel 1438: le signorie perse in chiacchiere mentre i turchi distruggono l’impero. Qualcuno, forse Bessarione, volle il dipinto nel 1459 (questa la sua data, secondo me) per portarlo al concilio di Mantova, dove si sarebbe deciso se organizzare o no una crociata contro i turchi. Era un manifesto politico, uno strumento di propaganda, un invito ai nobili italiani a non comportarsi come nel 1438. Un invito a intervenire».
E come andò?
«Male. Solo Sigismondo Pandolfo Malatesta partì per la crociata. L’impero romano d’Oriente era finito».
La Flagellazione è stata interpretata in vari modi, spesso molto diversi dal suo. Perché è così convinta di avere ragione? Non è che lei, essendo una bizantinista, vede bizantini dappertutto?
«Non ho inventato niente. Ogni elemento del libro è riconducibile a una fonte. E già altri studiosi prima di me avevano avuto intuizioni simili».
Quanto ci ha messo a prepararlo?
«Sette anni. In famiglia non mi sopportavano più. L’unico solidale è stato il gatto, sempre seduto vicino al computer».
I suoi studenti l’hanno aiutata?
«Molto. Hanno girato di loro iniziativa per biblioteche e monasteri, pieni di entusiasmo. Ma quello che conta è imparare un metodo. Questo dovrebbe trasmettere l’università: far capire che non bisogna mai fermarsi a quello che ci viene detto, perché le cose potrebbero stare in un altro modo. Bisogna avere parametri rigorosi per conoscere e interpretare la realtà, criticare non vuol dire parlare a vanvera».
Lei insegna Civiltà bizantina: è una materia scelta da molti studenti?
«Considerato che Siena è una università abbastanza piccola direi di sì: ne ho una cinquantina. Quando studiavo io eravamo in due».
Così pochi?
«Gliel’ho detto, l’interesse per la storia bizantina è recente. La rimozione è durata almeno cinquecento anni».
Perché adesso interessa di più?
«Perché quei paesi sono più vicini: alcuni appartengono già all’Unione europea, altri ne diventeranno parte».
E lei perché si è dedicata proprio a questo pezzo di storia e di mondo?
«Ho frequentato il liceo negli anni Settanta. Non si faceva lezione quasi mai, i giorni passavano tra occupazioni e assemblee. Io dopo un po’ mi annoiavo, si dicevano sempre le stesse cose... Così andavo in biblioteca a tradurre greco e latino. E più studiavo e traducevo, più mi accorgevo di quanto ci fosse ancora da scoprire».
Una vera passione.
«La ricerca è meravigliosa. È anche un antidepressivo potente. E aiuterebbe tanti adolescenti sostanzialmente depressi e un po’ rimbambiti a scuotersi, a scoprire l’esistenza di cose gratuite molto più interessanti e gratificanti di quelle che si comprano».