Silvia Ronchey: l'Enigma di Piero
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Lo studioso che si appresti a leggere il recente libro della Ronchey dovrà indubbiamente fare i conti con il problema del contenuto rappresentazionale di un testo visivo. In una domanda, che era già chiara ai tempi di Aristotele: a che cosa si deve mirare e che cosa c'è da tenere in conto – in agenda, diremmo oggi – quando si compongono racconti figurativi? (nota 1). Interrogativo tanto urgente quanto più, avanzando nelle ricche pagine del libro di Silvia Ronchey, il lettore si troverà a confrontarsi con i processi metodologici che sono alla base della disciplina storico-artistica e su cui l'autrice insiste provocatoriamente facendo dialogare professionisti di diversa formazione – un antichista, uno storico dell'arte ed un archeologo – con l'intenzione di dirimere una questione ancora oggi aperta, offrendo spunti di riflessione su ciò che significa fornire un orientamento metodologico convincente di fronte ad un caso concreto di interpretazione artistica.
Oggetto dell'indagine del volume è una tra le opere di Piero della Francesca più discusse dalla letteratura artistica del secolo scorso, vale a dire la Flagellazione di Cristo conservata nella Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino. La domanda iniziale trova giustificazione, ed è tanto più pertinente, se a distanza di più di seicento anni dalla sua realizzazione il dipinto "dichiara" ancora di più la sua enigmaticità. La piccola tavola è al centro di un interessante caso di fallacia interpretativa dovuta alla singolare organizzazione della scena, alla prossemica dei personaggi e alla differenziazione tra il piano di fondo ed il proscenio. Se ciò che sembra essere il tema principale, ben riconoscibile, non è altro che una figurazione di secondo piano, ci si è domandati cosa effettivamente potrebbe costituire il vero soggetto, insistendo sull'idea che ciò che sembra non è che quello che non si vede va cercato poiché potrebbe essere il "vero", ma nascosto, significato dell'opera.
I soli dati certi a disposizione dell'osservatore (forme, linee e colori) e la loro organizzazione secondo schemi consolidati (tradizioni iconografiche) non solo non chiariscono le intenzioni del dipinto, e dunque il significato dell'opera, ma al contrario lo confondono, in quanto l'unica scena riconoscibile (nota 2), la Flagellazione, appunto, giace in un piano distante, variamente interpretato come evocazione dell'episodio evangelico, eco simbolica di eventi e fatti contingenti, piano narrativo metastorico.
Assecondando quella che Umberto Eco chiamerebbe la "sindrome del sospetto" – peraltro richiamata in questo caso dal titolo di tenore investigativo del libro – si è largamente diffusa l'ingenua disposizione a credere che dietro ogni circostanza si celi un enigma fondamentale da interpretare (nota 3). Tutto ciò va ben al di là, se non a scapito, del conoscere secondo la causa, ovvero in base al procedimento di ricostruzione del funzionamento di oggetti, di testi, e nel nostro caso specifico, di dipinti. Un tema, questo, inatteso per una studiosa come la Ronchey che si è sempre occupata di storia e civiltà bizantina; in un'interessante "invasione di campo" (nota 4) che si limita – usando le sue stesse parole – a "registrare e trascrivere" le voci di cronisti e testimoni degli anni cruciali, alla metà del XV secolo, che videro la cristianità occidentale animarsi nel tentativo di salvare la pars orientalis dalla minaccia turca. La sue esperienza filologica e la naturale frequentazione di fonti e documenti d'archivio viene dunque messa al servizio dell'iconografia, nel tentativo di risolvere quell'enigma che finora non ha trovato una soluzione in grado di accordare le molteplici interpretazioni degli studiosi che vi si sono cimentati. Alle molte voci se ne aggiunge un'altra che fin dalle prime righe del testo si dichiara a favore di una lettura tutta "orientale" (o meglio bizantina) delle ragioni profonde del dipinto. Proprio questo sbilanciamento a favore della "pista bizantina" – in cui tutti gli elementi, anche quelli meno evidenti, sono intesi come prova – induce il lettore a considerare il libro sulla Flagellazione di Piero un efficace pretesto per raccontare una storia, quella più cara e famigliare all'autrice. In tal senso conviene qui soffermarci in particolare su due aspetti: la forma e il contenuto.
1. La forma. La prima peculiarità del volume è la costruzione del testo, poiché non viene usato un unico registro linguistico ma si alternano i toni dell'indagine storica, le suggestioni romanzesche, le descrizioni di viaggio e la critica artistica vera e propria. Un percorso di lettura definito fin dall'inizio come "il sommarsi di piani basculanti" che chiamano in causa la storia e la filologia, la storia dell'arte, l'antichistica ed anche la "storia delle sensibilità"; per queste ragioni si è preferito il taglio narrativo, e a volte l'espressione colloquiale dello schema dialogico, alla più canonica prassi saggistica. I numerosi (144!) seppur brevi capitoli, caratterizzati da stuzzicanti titolature, non sono altro che frammenti di un mosaico (di cui ogni tassello rappresenta una testimonianza documentaria) con i quali si intende ricostruire la vicenda storica dalla fine dell'impero bizantino.
L'originale veste data al libro porta la Ronchey a distinguere due tipi di lettori, da un lato lo specialista (antichista, storico e storico dell'arte), al quale evidentemente l'autrice è solita rivolgersi, e dall'altro un più vasto e generico pubblico di lettori. Da ciò il curioso suggerimento di iniziare il libro partendo dalla fine, ovvero dal vasto apparato bibliografico raccolto minuziosamente a conclusione del volume, o di consultare, per chi volesse saperne di più, una versione ampliata del regesto è reperibile qui. I capitoli si succedono apparentemente slegati tra di loro, ogni voce racconta un frammento della propria vicenda, come se il lettore procedendo nel suo "cammino" aprisse più porte e tornasse più volte sui suoi passi. Tra questi spaccati di storia c'è spazio anche per le vicende critiche del quadro. La scelta di non utilizzare le note a corredo del testo, dettata dall'esigenza di rendere più agevole la lettura, si scontra allo stesso tempo con la difficoltà di rintracciare, tra le tante voci documentarie di cui l'autrice si serve, il rimando specifico; ciò è per altro reso più complicato dall'uso delle abbreviazioni anche per i testi di più recente pubblicazione.
2. Il contenuto. Il piccolo dipinto su supporto ligneo (58,4 x 81,5 cm), conservato anticamente nella sacrestia del Duomo di Urbino, colpisce per il curioso ribaltamento compositivo e gerarchico dell'immagine: il tema principale (sacro) della Flagellazione è collocato in secondo piano, all'interno di un edificio architettonico porticato dalle forme classiche/albertiniane, mentre tre imponenti figure sul proscenio dialogano all'aperto su uno sfondo cittadino. A dividere la scena in due parti contribuisce la lunga linea bianca della pavimentazione, posta prospetticamente in evidente prosecuzione del colonnato-diaframma, e la chiara giustapposizione tra categorie interno/esterno (pretorio/piazza), avanti/dietro (proscenio/sfondo).
Dovendo in questa sede riassumere brevemente il dibattito critico, per altro ampiamente ripercorso nel volume, è possibile individuare, di fronte alle molte incongruenze del dipinto, tre posizioni principali: la prima, che vorrebbe i personaggi in primo piano totalmente estranei alla scena sacra; la seconda, che li vuole parte integrante dell'episodio evangelico, e la terza, che vede le due azioni unite solamente da un rapporto evocativo e simbolico-allegorico (nota 5) in cui i personaggi in primo piano altro non sarebbero che i protagonisti delle vicende storiche contemporanee alla data d'esecuzione del dipinto (nota 6), per altro non meglio precisata.
All'interno di questi tre filoni c'è spazio per le più disparate identificazioni, sia del soggetto che dei personaggi (nota 7), tentativo peraltro compiuto in questo libro anche dalla Ronchey. La studiosa prende le mosse dall'ipotesi di Kenneth Clark (nota 8), che già collocava l'opera all'interno delle vicende filo-orientali di cui furono massime espressioni la politica unionista dei concili di Ferrara-Firenze (1438-1439) e, in un secondo tempo, la promozione di una nuova crociata discussa durante la Dieta di Mantova (1459). A ritornare su questo tipo di interpretazione furono Thalia Gouma-Peterson prima e Carlo Ginzburg poi. Contemporaneamente si richiamò pure l'attenzione sulla complessa struttura architettonica ed il principio prospettico che la regola, sul simbolismo matematico e l'applicazione esoterica di un'unità di misura geometrizzante costante e matematicamente "bella", su cui hanno insistito in particolare gli studi condotti da Canter, Wittkower e Marilyn Lavin.
L'autrice, pur tenendo conto di tutti questi studi, insiste in particolare sul carattere di "esortazione figurata" del dipinto all'impegno contro i turchi (p. 137) e di manifesto politico d'incitamento militare in difesa dell'impero bizantino. Tuttavia meno convincenti sono le ragioni di fondo da cui muove l'autrice, ovvero "quella griglia di intuizioni ormai difficilmente refutabili" che sembrano essere piuttosto autoreferenziali.
Nella Flagellazione si troverebbero celati, dunque, quegli elementi – non certo semplicemente intelligibili – che equiparerebbero le sofferenze di Cristo a quelle della chiesa ortodossa e dell'Impero orientale dopo la caduta della capitale nel 1453.
Lo spazio del cosiddetto pretorio di Pilato diventa allora spazio mistico e "città ideale" e sacra, è la Gerusalemme del racconto evangelico, ma allo stesso tempo la seconda Gerusalemme, ovvero Costantinopoli, il cui simbolo si vuole riconoscere nella colonna sormontata dalla statua dorata, forse proprio quella statua bronzea di Apollo-Helios voluta da Costantino in cima alla sua colonna di porfido e per molto tempo simbolo della città (nota 9). Il penultimo imperatore orientale, Giovanni VIII Paleologo, vestirebbe poi gli abiti di Pilato – secondo quanto era stato già indicato negli anni '30 del novecento da J. Babelon (nota 10) e successivamente sottoscritto da un gran numero di studiosi – ipotesi che si fonda sulla somiglianza del profilo del personaggio assiso in trono con il più certo ritratto del basileus greco realizzato da Pisanello sulla nota medaglia bronzea oggi conservata alla National Gallery di Londra. Medaglia che è oggetto anch'essa, nel volume della Ronchey, di un'animata "discussione" (nota 11) che la vuole possibile "modello" per le figure "orientaleggianti" presenti nelle molte rappresentazioni artistiche rinascimentali.
Tuttavia, se s'intende considerare il dipinto il manifesto della Caduta di Costantinopoli, si dovrà pure rilevare, con una certa forza, che Giovanni VIII a quella data era morto già da cinque anni (1448). A tale obiezione la Ronchey non risponde direttamente, preferendo costruire un'architettura argomentativa complessa, che vorrebbe il dipinto realizzato in occasione della Dieta di Mantova, e dunque destinato ad un "principe occidentale" al fine di rievocare la triste vicenda, avvenuta solo qualche anno prima, della presa di Costantinopoli ad opera del sultano turco. Ecco allora che il mandante delle sofferenze di Cristo (e della cristianità ortodossa) – che la Ronchey riconosce nella figura del "consigliere ebreo" di Pilato, posto di spalle con un turbante sul capo e a piedi scalzi – viene identificato con il turco Mehmet II, che "ordina la flagellazione" di Cristo e allo stesso tempo aspira metaforicamente ai calzari purpurei dell'imperatore Giovanni Paleologo.
Ancora più suggestiva è l'interpretazione dei tre personaggi nel proscenio. L'uomo a sinistra, caratterizzato dalla barba bipartita – l'unico a stagliarsi contro l'architettura del Pretorio collegando così le due scene – sarebbe il celebre Bessarione, non ancora ordinato cardinale. Secondo la Ronchey, il ruolo di mediatore assunto dal prelato (tra i più convinti sostenitori della causa orientale) sarebbe rintracciabile nella posizione mediana che occupa nel dipinto, mentre i riferimenti all'abito orientaleggiante e alla barba bipartita costituiscono la sola prova sufficiente a risolvere l'enigmaticità del personaggio, sebbene non esista un preciso riscontro iconografico con i ritratti noti del cardinale. Prima di Silvia Ronchey, anche Gouma-Peterson si era espressa con un'interpretazione a favore di un personaggio orientale – per altro in contrapposizione con la figura che gli sta di fronte, indicata più genericamente come occidentale – per il quale ha cautamente preferito preferito parlare di "criptoritratto".
La Flagellazione diviene così, secondo l'autrice, l'immagine di un'idea: quell'idea di crociata voluta da Pio II e animatamente caldeggiata da Bessarione. Tuttavia, la domanda cruciale relativa al probabile destinatario del dipinto resta senza nessuna plausibile risposta, a parte l'ipotesi, invero tortuosa, che l'opera di Piero possa essere stata indirizzata ad uno dei personaggi presenti nell'incontro di Mantova, il quale si sarebbe persuaso, decifrando in filigrana nella scena della flagellazione la "memoria" del Concilio di Ferrara, ad aderire alla crociata che si stava organizzando. Una possibile chiave per sciogliere l'enigma potrebbe essere l'antico titolo che accompagnava la tavola, Convenerunt in unum, parole riferibili alla liturgia del Venerdì Santo, riportate anche negli Atti degli Apostoli per indicare "l'incombente minaccia di forze maligne". Secondo a studiosa, l'iscrizione, la cui precisa collocazione sul dipinto ci è peraltro ignota, offriva allo spettatore l'indizio sicuro dell'argomento discusso dall'uomo barbuto con gli altri due astanti.
Quanto all'uomo in abito di broccato, la Ronchey esclude le precedenti identificazioni per abbracciare l'idea che si tratti di un principe occidentale, impegnato in una politica filo-orientale. Il nome ritenuto più probabile è quello di Nicolò III d'Este, signore della città di Ferrara – che sarebbe evocata dallo sfondo cittadino – e ospite del Concilio.
Il giovane biondo – il "bel guardiano dell'Eden", nell'espressione del Longhi – rappresenta ancor oggi un problema per chi si è cimentato nel dare nomi "veri" ai personaggi "dipinti". La testa del vigoroso personaggio, l'unico con lo sguardo rivolto all'osservatore, sembra essere "contrassegnata", come già indicava Salmi, dal grande lauro che la incorona come una sorta di aureola. A fornire alla Ronchey la pista giusta per la sua interpretazione sembra essere l'ipotesi di Chiara Pertusi (nota 12), la quale interpreta la tavola in chiave profetica, collegando il dipinto alle premonizioni della Visio Danielis, secondo cui molti sconvolgimenti avrebbero messo alla prova la città di Costantinopoli, salvata infine "da un uomo d'aspetto mite e povero che sarebbe stato eletto imperatore e al quale quattro angeli avrebbero dato una spada per sconfiggere i nemici". Questa sovrapposizione del testo visivo con le "visioni" di Daniele convince la Ronchey che la figura del giovane biondo altri non possa essere se non Tommaso Paleologo, nato nella porpora e "vestito" di porpora, simbolo della regalità predestinata ma non ancora realizzata, come indicato dai piedi scalzi, ancora privi dei calzati purpurei. Erede al trono bizantino al tempo del concilio di Firenze, figurerebbe accanto al giovane Bessarione, convinto assertore della crociata, e al signore di Ferrara, potenziale alleato, mentre sullo sfondo, del dipinto e della storia, Giovanni VIII, assiso in trono, assiste impotente alle sofferenze della cristianità orientale.
Dobbiamo credere, come nella celebre favola di Charles Perrault, che le scarpe siano la chiave di tutta la storia? Se dovessimo pensare ad un manifesto politico di propaganda saremmo così disposti ad adottare un mezzo anti-economico e criptico quale l'immagine creata da Piero della Francesca?
Le aspettative proposte dalla Ronchey potrebbero realmente essere state affidate ad un piccolo dipinto di questo genere? Anche volendo concedere ottimisticamente all'opera d'arte un potere così ampio di convincimento, si deve pur rilevare che, non troppo differentemente da tutte le epoche artistiche, quando si cercano intese tattiche, lo si fa dichiaratamente, semmai sommando all'intenzione dichiarata ulteriori risvolti di significato, come gli intenti religiosi, economici, celebrativi. Piuttosto complesso da discernere e da giudicare sarebbe, invece, il procedimento inverso.
Merito di questo volume è senz'altro aver ricostruito un momento storico particolarmente affascinante in cui le sorti orientali e occidentali furono strette nell'intento di contrastare l'avanzata del Gran Turco e dove le intese matrimoniali assicurarono un futuro dinastico agli eredi dell'impero orientale. Ecco allora che nel volume della Ronchey assumono un ruolo significativo le articolate vicende delle spose occidentali, Cleopa e Sofia di Monferrato prima, e quella della principessa bizantina Zoe, figlia di Tommaso Paleologo, dopo. Nel volume viene così posto l'accento sul significato dell'accordo sponsale tra Zoe e lo Czar di Mosca Ivan III, in quanto assicurò all'impero bizantino un "nuovo" futuro.
Silvia Pedone
Roma
NOTE
1. La domanda si riferisce al discorso formulato da Aristotele a proposito della tragedia. ARISTOTELE: Poetica, vv. 1452b 28-30, a cura di A. Barbino; Milano 1999, p. 29. Il dipinto della Flagellazione di Piero è stato più volte indicato dalla critica come privo di azione drammatica (BERNARD BERENSON: Piero della Francesca, or the Inolequent in Art; New York, 1954). Stupisce infatti, la particolare immobilità, o più esattamente la partecipazione passiva dei protagonisti all'evento evangelico narrato. Per un chiaro e riassuntivo schema delle interpretazioni della critica si veda: F. LOLLINI: Una possibile connotazione antiebraica della "Flagellazione" di Piero della Francesca, in: Bollettino d'Arte 65, 1991, pp. 1-28.
2. Le sole interpretazioni che differiscono dalla più diffusa convinzione che la scena si riferisca alla Flagellazione di Cristo sono di Gombrich (ERNST GOMBRICH: The repentance of Judas in Piero della Francesca's Flagellation of Christ, in: Journal of the Warburg and Courtald Institutes 22, 1959, pp. 105-107), il quale suggerisce quale tema alternativo al Pentimento di Giuda; e quella di Pope-Hennessy che vede quale possibile soggetto la meno nota Flagellazione di Girolamo. JOHN POPE-HENNESSY: Whose Flagellation?, in: Apollo 124, 1986, pp. 162-165. Ricordo, inoltre, la proposta, quanto meno originale, di Cherles Hope e Paul Taylor che identificano la scena con la Liberazione di Barabba, C. HOPE, P. TAYLOR: Piero's Flagellation and the Conventions of Painted Narrative, in: Cultura e Scuola 34, 1995, pp. 48-101.
4. Ricordo che si parlò di invasione di campo anche per l'interessante saggio pubblicato nel 1981 da Carlo Ginzburg. Per una edizione che comprenda la prima versione delle sue ipotesi e la sua successiva revisione. resasi necessaria dopo le aspre critiche, si veda: C. GINZBURG: Indagini su Piero; Torino 1994. Le polemiche suscitate offrirono lo spunto per tornare su alcune questioni fondamentali relative all'opera di Piero della Francesca, all'originalità iconografica del pittore, alla cronologia relativa e assoluta, oltre ad alimentare un fitto dibattito protrattosi a lungo e per il quale si rimanda alla ricca bibliografia nel testo della Ronchey.
5. Si fa riferimento per questa interpretazione all'iscrizione delle parole bibliche, ora perdute, Convenerunt in unum. Per la descrizione della tavola: JOHANN DAVID PASSAVANT: Raffaello d'Urbino e il padre suo Giovanni Santi, a cura di G. Guasti, I-III; Firenze 1891.
6. Si veda: GINZBURG, Indagini (cit. n. 4), pp. 54-57
7. Ricordo schematicamente le identificazioni allegoriche del giovane biondo come personificazione del "giusto universale", come figura angelica, oppure immagine dello spirito santo; le tre figure stanti furono invece indicate come allegorie dell'ebraismo, del paganesimo greco e l'eresia platonica, o più semplicemente come le personificazioni degli ebrei e dei gentili, o ancora dei re e dei principi. C'è poi chi ha visto nel tema una generica protesta anti-ebraica. I personaggi in primo piano sono invece stati indicati come: Federico, Guidobaldo e Oddantonio (morto nella congiura dei Serafini nel 1444) da Montefeltro; oppure i due uomini di profilo come Manfredo del Pio di Cesena e Tommaso Guido dell'Agnello; con Giovanni VIII Paleologo e Guidantonio da Montefeltro; o ancora con Buonconte da Montefeltro accanto a Giovanni Bacci; ed infine Ottavio Ubaldini, forse committente .
8. KENNETH CLARK: Piero della Francesca; London 1951.
9. L'ipotesi di identificazione della statua dorata con la figura di Vittoria fu formulata da Gouma-Peterson (T. GOUMA-PETERSON: Piero della Francesca's Flagellation: an Historical Interpretation, in: Storia dell'arte 27, 1976, pp. 217-233) e successivamente ripresa da Maurizio Calvesi (M. CALVESI: Identikit di un Enigma, in: Art e Dossier 70, 1992, pp. 22-27). In questi saggi si sottolinea il ruolo di Costantinopoli come "città reliquia" in quanto luogo dove venivano venerate e conservate tutte le più importanti reliquie della cristianità, inclusa la colonna della Flagellazione. Diversamente Ginzburg ha preferito leggere i riferimenti architettonici del dipinto come evocazione della città di Roma e più precisamente del complesso Lateranense, dove sappiamo si conserva la grande statua di bronzo dorato di Costantino. Lo studioso insiste su questa pista ricercando ulteriori riferimenti alla città papale ed indicando nella scala che s'intravede sul fondo del dipinto un riferimento alla Scala Santa, conosciuta per altro all'età di Piero come Scala di Pilato. M. ARONBERG LAVIN: Piero della Francesca's "Flagellation": The Triumph of Christian Glory, in The Art Bulletin 50, 1968, pp. 321-342; GINZBURG: Indagini (cit n. 4), pp. 72-74. Sembra, a mio avviso, che la suggestiva ipotesi di Ginzburg non possa trovare conferma in un elemento architettonico reso in termini così banali da non essere facilmente discernibile da una qualsiasi altra scala. Ben più interessante è la riflessione che andrebbe condotto sull'iconografia di Costantinopoli nei dipinti occidentali, e sulla caratterizzazione dei monumenti più significativi della città, che la rendano, così, inequivocabilmente riconoscibile. A tale proposito ricordo l'attenta analisi condotta da Andrea Paribeni a proposito dell'immagine dipinta su un Cassone afferente alla bottega fiorentina di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono e realizzato probabilmente nello stesso torno d'anni della tavola di Piero. In questo caso la presenza della città di Costantinopoli, insieme a quella di Ankara, (precedentemente indicata come Trebisonda), divenne elemento chiave sia per l'individuazione dell'evento rappresentato, sia per chiarire l'intricata storia di relazioni di natura politico-economica intraprese, dal probabile committente, con l'oriente. A. PARIBENI: Iconografia, committenza, topografia di Costantinopoli: sul cassone di Apollonio di Giovanni con la "Conquista di Trebisonda", in: Rivista dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte, 56, III Serie, XXIV, 2001, pp. 255-304; A. PARIBENI: Una testimonianza iconografica della battaglia di Ankara (1402) in Apollonio di Giovanni, in: Europa e Islam tra i secoli XIV e XVI, a cura di M. Bernardini, C. Borell, A. Cerbo, E. Sánchez García, Napoli 2002, pp. 427-441. Più di recente, Patricia Lurati, pur non considerando tutta la bibliografia precedente, torna sulle vicende del Cassone di Apollonio di Giovanni arrivando ad identificare nella scena con il Trionfo di Tamerlano. P. LURATI: Il trionfo di Tamerlano. Una nuova lettura iconografica di un cassone del Metropolitan Museum of Art, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 49, 2005, pp. 101-118.
10. J. BABELON: Jean Paléologue et Ponce Pilate, in: Gazette des Beaux Arts, 4, 1930, pp. 365-375. Questa proposta fu confermata da C. Brandi, da C. Marinescu, da K. Clark, T. Gouma-Peterson, da C. Ginzburg, da R. Weiss e più recentemente da G. Orofino, A. Pertusi ed in ultimo da Th. Konstantoudaki-Kitromilidou. Per i testi di riferimento si vedano le rispettive voci bibliografiche riportate dalla Ronchey. Ad identificare il personaggio di Pilato con il sultano turco Mehmet II fu invece E. BATTISTI: Piero della Francesca, I-II; Milano 1971.
11. La Ronchey, descrivendo i tratti caratteristici del basileus orientale, si sofferma sul singolare copricapo (skiadon) e sulla corta barba terminante a punta. Visto l'ampio successo che questo tipo fisiognomico ha nella produzione artistica rinascimentale, non riterrei – diversamente da quanto la studiosa fa negli esempi citati (quasi mai espliciti ritratti) – che possa trattarsi di "immagini figlie" derivanti dalla medaglia di Pisanello ritraente Giovanni VIII. Per maggiori spiegazioni di veda il capitolo del presente volume intitolato "Il viaggio di Pilato", pp. 203-205; ed anche L. BESCHI: Giovanni VIII Paleologo del Pisanello: note tecniche ed esegetiche, in Mouseio Benaki 4, 2004, pp. 117-132.
12. C. PERTUSI: L'apocalittica domenicana e la Flagellazione di Piero della Francesca, in: Italia Medioevale e Umanistica 44, 2003, pp. 115-160. Per una più ampia panoramica delle profezie legate alla caduta di Costantinopoli si veda: A. PERTUSI: Fine di Bisanzio e fine del mondo. Significato e ruolo delle profezie sulla caduta di Costantinopoli in Oriente e in Occidente, ed. postuma a. c. di E. Morini; Roma 1988.