Urbino dei delitti e dei fantasmi
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A Urbino non c’è altro da fare che uccidere qualcuno. O almeno immaginare di farlo. Sembra un’astronave di mattoni posata sul verde del Montefeltro, un’astronave disegnata a quattro mani da Luciano Laurana e Stanley Kubrick. Del solo Kubrick (il Kubrick apicale di “Arancia meccanica” “2001 Odissea nello spazio” e “Shining”) si direbbero i collegi universitari architettati invece da Giancarlo De Carlo. Chi ha copiato chi? Facciamo un po’ di conti: il Tridente, grazie ai suoi oblò il collegio più kubrickiano che ci sia, è stato iniziato nel 1973, cinque anni dopo l’Odissea. Se non altro abbiamo capito che De Carlo padre (De Carlo figlio è lo scrittore Andrea che vive in un casolare qui intorno) in quel periodo andava molto al cinema. Al Tridente ci vado con Aurelio Picca che mi è venuto a prendere alla stazione di Pesaro in Jaguar XKR. Urbino che pure è capoluogo di provincia, sede di diocesi, di accademia di belle arti, di grossa università e di museo racchiudente alcune fra le più importanti opere d’arte di tutti i tempi, per la gioia di petrolieri interisti e maomettani da molti anni non è più raggiungibile su rotaia. I binari si sono arrugginiti e la ferrovia che in tempi logisticamente più civili portava nella capitalina Carlo Bo, l’ultima duca, è stata invasa dai rovi. Studenti e turisti, due gruppi inguardabili anche nei rari casi in cui si comportano bene, per raggiungere Urbino consumano, inquinano, disturbano coi motori a scoppio il verde metafisico delle alte colline fra la Romagna e le Marche. Ci sarà un responsabile di questo stato di cose, vorrei incontrarlo e metterlo alla colonna della Flagellazione di Piero della Francesca (una delle più importanti opere d’arte di tutti i tempi racchiuse nella Galleria Nazionale), e darci dentro col gatto a nove code. Ma forse è più morto dei binari della Fano-Fossombrone-Urbino. Io comunque ho deciso che me ne frego, non posso stare male per ogni stortura del mondo e a differenza di studenti e turisti scorreggioni me lo posso ampiamente permettere visto che a Urbino vado in Jaguar XKR con tanto di autista che poi è Aurelio Picca, autore di “Via Volta della Morte” (Rizzoli), libro giallo o forse nero ambientato all’ombra del Palazzo Ducale. Come tutti gli scrittori (è più forte di loro), Picca ama in modo smodato i recensori che parlano bene di lui, dice di aver fatto testamento così se muore anzitempo il Jaguar lo lascia a me, grazie, non devi ringraziarmi te lo meriti, me lo merito però ti vedo in forma farai in tempo a cambiarne dieci di supercar, non è vero sento un dolorino qui se muoio domani voglio che il Jaguar sia tuo, va bene ma quanto bevono 358 cavalli? Bevono moltissimo infatti rischiamo di rimanere a piedi, tocca fermarsi al distributore, dal sorriso del benzinaio si capisce che da queste parti non ne vedono spesso di macchine così. Comincio a sospettare che il libro di Picca dica la verità e non panzane sul declino dell’università di Urbino quindi di Urbino: “Se negli anni Settanta e Ottanta i fuori sede provenivano da ogni regione, ora per lo più gli studenti erano molisani, pugliesi, siciliani, campani. E erano sempre più poveri”. Lo conferma lo studente di Messina che andiamo a stanare dal suo loculo al Tridente, il più lunare e disperato dei collegi universitari. Frequenta un corso di laurea incomprensibile (più le cose sono inutili più hanno nomi lunghi) e lo fa ad Urbino perché gli affitti costano meno rispetto alle grandi città e inoltre (a questo punto la voce si fa un sussurro) perché qui è più facile. Il messinese vive in uno dei tre rebbi del Tridente che andrebbe ribattezzato, chiamato in questo modo fa venire in mente un edificio metallico, lucente, guerresco, e invece i tre tubi di cemento che scendono dal colle dei Cappuccini visti dalle scale interne hanno qualcosa di organico, di intestinale, sono tentacoli di una piovra venuta a morire nel cratere scosceso di un pianeta dimenticato. Le camere del collegio della Piovra Morta sono a gruppi di otto e sono piccolissime, con bagni e cucina in comune. Solo gli spazi collettivi, situati nella testa dell’animale, sono pensati con larghezza. De Carlo, pace all’anima sua, da buon architetto ideologico per non dire comunista pensava che gli universitari dovessero studiare tutti insieme, inutile quindi sprecare metri quadri per gli ambienti personali. Di quella utopia da falansterio, lontana dalle urgenze contemporanee come gli anni Settanta e gli attuali presidenti di un qualsivoglia ramo del Parlamento, restano solo grandi sale dove risuonano le voci dei pochi studenti sopravvissuti al calo delle iscrizioni. Fuori dalla Piovra Morta riprendiamo il Jaguar fra gli sguardi dei fuorisede, più di fastidio che di invidia (tutti elettori di Rifondazione a giudicare dall’abbigliamento). Per vedere l’effetto che fa un coupé grigio perla metallizzato sui soggetti a basso reddito e alta scolarizzazione bisognerebbe provare a rimorchiare qualche ragazza, forse rifondarola ma certamente di gluteo tonico visto il numero di scale che De Carlo ha disseminato nei collegi. Ci sono tre ostacoli: 1) la scarsità di materia prima, sarà il giorno e l’ora ma stasera la base spaziale Urbino 2006 sembra abbandonata dai suoi abitanti specie di sesso femminile; 2) la scarsità di spazio nell’abitacolo, due posti più due secondo la Jaguar, due posti più zero secondo me, due posti più due nane secondo un inguaribile ottimista; 3) la scarsità di attenzione da parte di Picca, che sembra disinteressato a qualunque cosa che non sia il suo romanzo. Così tutti questi cavalli e questi metri di cofano non servono assolutamente a niente. L’ossessivo Picca ferma le donne (in albergo, al museo, ovunque) solo per regalare il libro (ne ha il bagagliaio pieno) oppure, se già erano state omaggiate, per sapere se l’hanno finito e se è piaciuto. Inutile poi lamentarsi se la ragazza del San Domenico sembra ricamare sulla nostra scelta di dormire in due camere doppie. Noi credevamo di essere due lussuosi dongiovanni abituati a prendere la camera doppia per disporre di un’alcova in caso di conquiste dell’ultimo minuto, eccoci catalogati come coppia di ricchi froci che si vergognano di far vedere che vanno a letto insieme. Se le ragazze dell’albergo avevano ancora dei dubbi, Picca glieli toglie quando nel bel mezzo dell’intemerata contro un recensore tiepido (dicesi recensore tiepido chiunque non gli dedichi una pagina di lodi sfrenate) si ferma per guardarmi come ipnotizzato: “Bello questo impermeabile, dove l’hai preso?” “Strano a dirsi ma l’ho preso a Parma”. Sempre più conquistato: “E la cintura? Formidabile questa cintura!” “L’ho comprata a Bellagio la settimana scorsa e ho anche speso pochissimo”. Una scena disgustosa, peggiorata dalla sua maglia a righe orizzontali. “Fa tanto Jean Genet”. “Appunto”. A Urbino non c’è altro da fare che uccidere qualcuno. O almeno immaginare di farlo. Fortezza Bastiani dell’università italiana, solo un bel caso di cronaca nera, meglio se con addentellati rosa, potrebbe ricordare al mondo che Urbino non è soltanto un’utopia didattica fallita, un museo per scolaresche vocianti, una città senza abitanti e un’università senza studenti. L’ultimo fattaccio risale a troppi anni fa e nessuno dei protagonisti guidava il Jaguar e nemmeno una Maserati come gli assassini di “Via Volta della Morte”, il giallo che ci voleva e che pure l’assessora alla cultura non ha gradito. Picca scrive di indagini e delitti, e fin qui tutto bene, ma poi affonda il colpo sul declino dell’ateneo e questo è parlare di corda in casa dell’impiccato. “Urbino senza gli studenti è morta, non ha né sa di che vivere”. Un vecchio professore malandato mi offre la versione ufficiale: il calo non riguarda le iscrizioni ma le frequenze, inoltre il problema non è locale bensì nazionale. Colpa della riforma Moratti? Miracolo, non è colpa di Donna Letizia ma di Luigi Berlinguer che ha frantumato l’insegnamento in moduli di un mese. Calo di iscrizioni o di frequenze se non è zuppa è pan bagnato, per le languenti attività commerciali non cambia nulla. Meno studenti circolano e più la città si addormenta e più forte è l’esigenza di far girare l’adrenalina. Ci vuole un crimine almeno letterario che poi magari ci scappa la fiction e Urbino diventa meta di tele pellegrinaggi come la Ragusa del commissario Montalbano. Gli indigeni lo hanno capito e comprano “Via Volta della Morte” con slancio. Il tormentoso Picca verifica l’andamento delle vendite mettendo il naso in ogni libreria, informandosi sugli scontrini, interrogando sui rifornimenti. Tutte ce l’hanno e lo smerciano bene, salvo la libreria della Galleria Nazionale dove non è mai arrivato. Per l’autore è un grosso cruccio, se ne lamenta con la cassiera che non c’entra niente, non è lei a fare gli ordini. Ovunque tranne al museo il libro è in vetrina, complice la furba copertina con Federico da Montefeltro di profilo, girato in negativo e perciò trasformato in fantasma. Il ritratto ovviamente è quello celeberrimo di Piero della Francesca, l’unica attrazione urbinate che tira. Perché Raffaello, l’altro grande inquilino della Galleria Nazionale, è ancora più fuori moda dell’università. Il libraio di via Vittorio Veneto dice che di libri su Raffaello non se ne vendono più, che adesso tutti vogliono Piero. Non c’entrano le mostre, l’importanza dei quadri esposti, dev’essere un mutare di sensibilità. Raffaello appare naturale (che poi lo sia davvero è un altro discorso) quanto Piero sembra artificiale e quindi ideale fornitore di icone per il post-umano prossimo venturo. Esoterico, matematico, su di lui è appena uscito “L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey (sempre Rizzoli), avvicente librone anch’esso presente in ogni vetrina urbinate che si rispetti. L’autrice, dotta e scaltra come una vecchia basilissa, ha avuto l’accortezza di suddividere in tanti minicapitoli di pochissime pagine ciascuno il suo lungo lavorio attorno alla Flagellazione di Cristo, quadro cervellotico su cui si sono spaccati la testa decine di storici dell’arte e di storici tout court. Come spesso accade, meglio il catalogo che la visione live. A pagina 129 del Classico dell’Arte Rizzoli-Skira dedicato a Piero (soli 9,90 euri) la Flagellazione sembra chissà che quadro, nel salone della Galleria Nazionale ecco una tavoletta di legno imbarcata e tarlata, con figure microscopiche destinate a rimanere tali siccome per vederle bene bisogna avvicinare il naso alla protezione trasparente, con inevitabile scatto dell’allarme e occhiatacce del personale. Nel giallo di Picca non ho capito chi sia il colpevole, sviato dalla descrizione di alcune inevitabili orgette universitarie (c’è altro da fare a Urbino fra studenti e professori o meglio, fra professori e studentesse?). Nel saggio di Silvia è tutto chiaro, il colpevole è il Maomettano, allora come oggi. Cristo alla colonna rappresenta la cristianità orientale flagellata dai turchi e i signori in primo piano sono cristiani occidentali che stanno discutendo di una crociata per salvare Bisanzio. Non lo sa quasi nessuno (non certo le scolaresche qui intorno) ma in quei pochi centimetri quadri è racchiuso l’estremo tentativo papale di respingere l’alieno di là dal Bosforo. Col senno di poi la Flagellazione è un fallimento politico e nonostante questo o forse proprio grazie a questo un grande successo artistico. Ancora siamo qui a parlarne e a Dio piacendo le scolaresche vi transiteranno davanti ancora per molti secoli. Picca invece è già stufo, scalpita, sbuffa, teme che Silvia Ronchey gli rubi la scena, Urbino è sua e che nessuno osi disturbare il duca nel suo ducato. Sulla Flagellazione ha un’idea personale: Piero si è ispirato a un edificio a pochi passi da qui. Mi ci porta, è un vecchio portico di via Valerio col soffitto a cassettoni, forse quattrocentesco. Sì, un po’ somiglia, poi certo il pittore ci avrà aggiunto del suo, chissà. Ma che gliene frega al monomaniaco Picca di Piero della Francesca, per lui è solo il grafico che gli ha disegnato la copertina. Mi porta sulla scena del delitto, in Via Volta della Morte, che esiste davvero ed è una lateralina semicieca di via Vittorio Veneto, sulla destra salendo da piazza della Repubblica. Il nome attirò anche Piovene che ne parla nel suo Viaggio in Italia, Picca non lo sapeva e quando glielo dico si esalta, secondo lui non è casuale che lui e il conte vicentino calpestino nelle proprie pagine lo stesso metro quadro d’Italia. Pare che gli antichi volsci fossero legati per sotterranee linee linguistiche e di sangue ai veneti, e questo spiegherebbe lo speciale afflato tra Picca, che è di Velletri, e Parise e Comisso. Fa niente che tutti, ma proprio tutti, quando vedono Picca non pensano agli scrittori veneti bensì al più toscano degli scrittori novecenteschi, Malaparte, tanto i due si somigliano nel fisico, nei vestiti, nell’esibizionismo vitalistico. Se c’è un rapporto con Comisso è solo fiumano: gli aggettivi più pronunciati dal patriottico Picca sono “ardito” e “spavaldo”. Alle sette di sera l’astronave Urbino non sembra nemmeno più un set di Kubrick, sembra “Solaris” di Tarkovskij. Girando in Jaguar intorno alle mura Picca vede materializzarsi angosce e desideri. I torricini sono di volta in volta “due sottilissime gambe di cubiste” e “corna tra occhi di bestia”. A sentir lui Federico da Montefeltro era un satanista sanguinario, lo proverebbe il disegno di un tizio con la coda che mi ha mostrato nei sotterranei del Palazzo. Silvia Ronchey nel suo librone non accenna a queste pratiche ma che c’entra, lei è una storica, si basa sui documenti laddove Picca è un medium, cade in trance, ha le visioni. Davvero non c’è niente da fare in questa città, parcheggiata la belva ci infiliamo al Piquero di via San Domenico e beviamo una birra dopo l’altra e sfidiamo a calciobalilla due studenti vestiti con camicie a quadri che al momento sono gli unici clienti del locale. Due che di orge ne hanno viste poche, di omicidi ancora meno e che, sia detto senza stupido orgoglio, perdono tutte le partite.