Una pista Bizantina per Piero
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C’è una pista bizantina nella Flagellazione di Piero della Francesca. Il suo inesorabile congegno prospettico ci sconcerta con vertiginosa mise en abyme: Gesù flagellato è in secondo piano, in primo piano tre figure estranee all’azione principale conversano fra loro. Che rapporto c’è fra le due metà del quadro? Quando e dove ha luogo la conversazione sulla destra? La flagellazione avviene entro un edificio all’antica, a destra invece è una strada o piazza all’italiana, con edifici in pietra e in cotto e un giardino pensile folto di allori. Due luoghi e due tempi, dunque? Riconosciamo Pilato in trono, un carnefice in turbante (di spalle), i due flagellatori e il Cristo, ma chi sono mai i tre statuari dialoganti?
Nel quadro, lo sappiamo da J. D. Passavant che la vide prima di un improvvido «restauro» (ante 1839) c’era anche una scritta, Convenerunt in unum. Parole della liturgia del Venerdì Santo, riprese dal Salmo 2.2 («Insieme si son radunati i principi, contro il Signore e l’Unto del Signore»), e dagli Atti degli Apostoli 4.26 («Si sono adunati infatti Erode e Pilato, i gentili e gli Israeliti»). I tre dialoganti sono dunque complici di Pilato? Ma allora perché gli voltano le spalle? L’interpretazione tradizionale del quadro (basata su un inventario settecentesco) lo spiega con un aneddoto: il giovinetto biondo sarebbe lo scapestrato duca Oddantonio di Montefeltro, ucciso da una congiura a 17 anni (1444), ai lati due membri della sua famiglia.
Interpretazione dinastica, come la romanzesca ipotesi di Burckhardt (1860) che nella Deposizione di Raffaello vide il ricordo dell’uccisione di Grifonetto Baglioni, un altro giovanotto di dubbi costumi, della famiglia dei signori di Perugia. Il quadro celebrerebbe dunque Oddantonio, paragonandolo al Cristo flagellato: ma questa lettura è in realtà il frutto di una sua riabilitazione, orchestrata a fine Cinquecento dal duca di Urbino Francesco Maria II. A lui risale la commissione di un’opera storica ad hoc, di quegli anni è un ritratto di Oddantonio ricalcato sul giovinetto di Piero. La pista bizantina, a lungo offuscata da questa storietta di corte, fu aperta da Kenneth Clark (1950). La flagellazione del Cristo, argomento della conversazione che si svolge sulla destra, è per lui metafora della presa turca di Costantinopoli (1453); occasione del dipinto fu forse la Dieta di Mantova, convocata da Pio II nel 1459 per esortare i principi cristiani alla crociata; il dialogante barbuto sarà Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore di Bisanzio. Più tardi (1976) Thalia Gouma-Peterson sottolineò che Pilato ha il volto di Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore, che fu in Italia per il concilio di Ferrara- Firenze (1438-39), estremo tentativo di riunificazione delle chiese d’Oriente e d’Occidente per salvare il suo morente impero. Identificazione indubitabile, per la celebre medaglia del Pisanello, a cui si accompagnano molti suoi disegni e una vastissima eco nell’arte italiana. Dei tre dialoganti, quello di destra è un principe occidentale, quello di sinistra un Greco che fa da «ponte» fra Bisanzio e l’Europa, il giovinetto una figura allegorica.
Il Greco cerca di convincere un principe cristiano a intervenire in aiuto di Costantinopoli, la cui sofferenza è rappresentata dalla flagellazione del Cristo, sotto lo sguardo dolorosamente impotente di Giovanni VIII.
Ma chi è l’ambasciatore greco? Nelle famose Indagini su Piero (1981, 1994), Carlo Ginzburg lo identificò in Bessarione, il grande erudito (secondo nuovi documenti, imparentato coi Paleologhi), centro generatore dei progetti di unione delle Chiese e di salvataggio di Bisanzio. Ma fa problema la data presunta del quadro, intorno al 1459: Bessarione aveva allora cinquantasei anni, l’»ambasciatore » del quadro ne mostra venti di meno e non ha insegne cardinalizie. Il gentiluomo in broccato che lo sta ascoltando sarebbe allora il messo papale che gli recò nel 1440 l’annuncio della nomina a cardinale (Ginzburg lo identifica con Giovanni Bacci, che ricorre in altre opere di Piero); il giovinetto potrebbe essere Buonconte da Montefeltro, il figlio di Federico morto di peste nel 1458, di cui Bessarione aveva apprezzato le virtù. Insomma, il dipinto è del 1459, ma la scena rappresentata assomma in visione sinottica allusioni che vanno dal 1439-40 al 1458.
Ci voleva una bizantinista di consumata esperienza per portare questa pista fino in fondo. Con sapiente scrittura che intreccia quattro piani narrativi (il quadro di Piero, i rapporti Europa-Bisanzio, la storia delle ricerche e i contrasti di metodo fra storia dell’arte e antichistica), L’enigma di Piero di Silvia Ronchey (Rizzoli, pp. XIV-540, — 21) rilegge in chiave bizantina l’impianto e l’occasione del quadro.
L’identificazione di Pilato con Giovanni VIII è confermata, valorizzando specialmente i calzari di porpora, attributostandard dell’imperatore d’Oriente.
Come aveva proposto Chiara Pertusi (1994), il porticato che ospita Cristo e i suoi flagellatori allude a Bisanzio (il bronzo classico in cima alla colonna sigilla il livello metaforico della rappresentazione: questa flagellazione del Cristo non avviene in Gerusalemme, bensì in una città ricca di statue antiche, Costantinopoli); Gesù rappresenta la cristianità orientale sotto il flagello dei Turchi. Quanto all’ordinatore del supplizio, di spalle e con un gran turbante, è il sultano turco, scalzo perché aspira ai calzari del basileus. Sul limitare fra le due metà del quadro, Bessarione non ancora cardinale, con stivali da viaggio (da ambasciatore), alza la sinistra con la palma in basso, in un gesto di eloquio che in antico (per esempio nel Marco Aurelio del Campidoglio) fu quello del pacator orbis, il pacificatore del mondo. Parla a un principe occidentale, il gentiluomo in broccato, calzature di corte e sciarpa rossa (becchetto) sulla spalla: Nicolò III d’Este, che ospitò a Ferrara il Concilio del 1439. Fra loro, un giovinetto «porfirogenito» (nato nella porpora), e perciò vestito di rosso, ma coi piedi nudi perché anch’egli aspira ai calzari purpurei dell’Impero: Tommaso Paleologo, che fu a Ferrara da giovane e tornò in Italia per perorare, ultimo erede legittimo dell’impero, la riconquista se non di Costantinopoli almeno della Morea, di cui era stato despota. E’ questa dunque un’evocazione, datata c. 1459, di una scena di vent’anni prima: Bessarione argomenta davanti all’ospite del Concilio (dunque ai principi cristiani) la pace fra le Chiese e il riscatto di Bisanzio dal flagello turco. Evocazione eloquente non solo per la magia prospettica, ma anche per il gioco delle simmetrie: al Cristo fra i flagellatori corrisponde il giovane Paleologo assorto in regale distacco. Ai calzari purpurei dell’imperatore corrispondono i piedi nudi dei due aspiranti al la successione, il fratello Tommaso e il Gran Turco; il quale ultimo fa con la sinistra esattamente lo stesso gesto di Bessarione. Anche la sua è una «pacificazione del mondo», ma di segno opposto, la vittoria dell’Islam sulla cristianità orientale. Dipinta «secondo le intenzioni di Bessarione», la tavola di Urbino potrebbe essere stata un dono per lui: aveva senso rievocare, all’altezza della Dieta di Mantova, il pathos di quel mancato soccorso a Bisanzio che ne aveva permesso l’annientamento.
Per Silvia Ronchey, questo quadro privato presuppone una prospettiva che ricongiunge a quello europeo il punto di vista di Bisanzio. Perciò hanno un ruolo essenziale nel libro non solo il fascino duraturo che le delegazioni greche esercitarono sugli artisti italiani, ma le parentele fra principi italiani e la casa imperiale bizantina e le «spose occidentali» inviate in Grecia. Le dispute teologiche fra le due Chiese cedono il passo, davanti ai Turchi, a una Realpolitik giocata da una parte (i Greci) con le armi della disperazione, e dall’altra (i Latini) con mille astuzie, tese più a garantire a sé stessi l’eredità ideale di Bisanzio che a restituire agli ultimi Paleologhi i loro domini. Se fosse riuscita la crociata di Pio II, il despotato della Morea (il Peloponneso) poteva essere una testa di ponte della cristianità occidentale, anzi quasi un infeudamento al papa dell’impero romano d’oriente, una translatio imperii in senso inverso a quella di Costantino. Per Bessarione era più importante assicurare ai suoi signori un futuro dinastico; perciò Zoe, figlia di Tommaso Paleologo, sposò il Gran Principe di Mosca Ivan III, che assunse il titolo di Czar (cioè Cesare), e diventò l’erede legittimo di Bisanzio. Quelle nozze, in un’ultima illusione di onnipotenza, furono celebrate per procura a Roma, da Sisto IV, quasi che il sovrano russo gli si fosse sottomesso; ma nonostante la ricca dote pagata sulla cassa pontificia, a Mosca furono ricelebrate secondo il rito orientale (1472). La vera translatio imperii avvenne così verso Mosca, «terza Roma» secondo un leitmotiv della storia russa che s’incarna nelle parole del monaco Filofej di Pskov (1523), declamate anche dall’Ivan il Terribile di Eizensteijn: «Due Rome caddero, ma la terza Roma, Mosca, non cadrà».
L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro è il sottotitolo di questo libro ricco e avvincente. L’ultimo bizantino è Tommaso Paleologo, giovane nel quadro di Piero ma poi maturo «signore addolorato, di grande aspetto» quando torna in Italia con la reliquia della testa di Sant’Andrea; la crociata fantasma è quella tenacemente, vanamente voluta da Pio II. Ma quale è la rivelazione del quadro? Attratti dal suo enigma, in queste pagine vediamo riemergere l’Oriente cristiano che la memoria storica dell’Occidente ha marginalizzato, lo vediamo reintegrarsi con l’Europa, come nel 1459 era ancora possibile. Vediamo come il fallimento di quel progetto abbia sancito la divisione in due della cristianità, che ancora condiziona la scena geopolitica del mondo (secondo Victoria Clark, «i confini della NATO e dell’Unione Europea ricalcano quasi esattamente la più antica linea di frattura della storia europea, quella fra impero d’Oriente e d’Occidente, confermata dallo scisma del 1054»).
Indagando un grande dipinto, si dispiega ai nostri occhi un quadro ancor più vasto. Il grandioso scenario di pensieri e di passioni del Quattrocento diventa (è) il nostro.