Otto personaggi in cerca di un nome
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La celeberrima Flagellazione di Urbino vanta la più alta concentrazione di enigmi per centimetro quadrato nella storia dell’arte. L’unica certezza è la paternità: Piero della Francesca ha posto infatti la sua firma sul primo gradino del trono di Pilato. Secondo la bizantinista Silvia Ronchey la Flagellazione andrebbe letta come “manifesto” politico per esortare i suoi spettatori alla crociata contro i Turchi che pochi anni prima avevano conquistato Costantinopoli Nella storia dell’arte nessun’altra opera ha generato tante ipotesi. La piccola tavola di pioppo sulla quale Piero della Francesca ha dipinto, in un anno imprecisato della seconda metà del Quattrocento, la Flagellazione è infatti il campo d’indagine preferito da iconologi, storici e appassionati d’arte. L’unica cosa certa è appunto la paternità del capolavoro, avendo l’autore posto la propria firma sul primo gradino del soglio di Pilato (Opus Petri de burgo Sancti Sepulcri). Al pari l’unico personaggio sull’identità del quale vige la quasi totale concordia è il Cristo alla colonna: tutti gli altri sono illustri anonimi, a cominciare dai tre uomini in primo piano così curiosamente disposti. A prima vista sembrano discorrere tra loro, ma nessuno guarda in faccia gli altri interlocutori; indossano vesti assai diverse e uno addirittura è scalzo. Perché? A questa e ad altre numerose domande propone una risposta la bizantinista Silvia Ronchey nel suo ultimo saggio L’enigma di Piero edito da Rizzoli.
1. Pilato Giovanni VIII Paleologo Il penultimo imperatore
Fu Jean Babelon, in un articolo pubblicato nel 1930, il primo a identificare il Pilato della tavola con Giovanni VIII Paleologo, il penultimo imperatore bizantino. I detrattori di questa tesi fanno invece notare che l’atteggiamento del basileus fu tutt’altro che passivo nei confronti degli attacchi turchi, nient’affatto “pilatesco”. Silvia Ronchey aggira l’ostacolo sottolineando l’accezione sacrale e giuridica di Pilato, in quanto rappresentante dell’impero romano. Il volto del personaggio in trono rivelerebbe una dolorosa impotenza più che una colpevole inerzia. Altri fanno notare che la postura rimanda alle statue funebri: Piero alluderebbe in questo modo al trapasso di Giovanni VIII. Quello sul trono di Costantinopoli sarebbe dunque l’ex imperatore, ma i calzari purpurei, simbolo del potere imperiale, sono ancora ai suoi piedi a indicare che l’eredità bizantina è ancora contesa tra i Turchi e la cristianità. I primi sarebbero rappresentati dall’uomo di spalle con il turbante, nel quale alcuni studiosi vedono il pascià; la seconda invece sarebbe rappresentata dal giovane biondo in primo piano. Entrambi i personaggi sono appunto scalzi. A chi di loro spetterà il trono di Costantinopoli, la Seconda Roma? Pare questa la drammatica domanda sottesa alla Flagellazione urbinate.
2. Cristo alla colonna La chiesa flagellata L’Oriente minacciato
È l’unico personaggio sul quale esiste la quasi unanimità di opinioni. Il “quasi” è di rigore in quanto il critico Pope- Hennessy ha scorto invece nella scena del Cristo alla colonna la rappresentazione del sogno di San Gerolamo, nel quale il santo sogna appunto di essere fustigato perché colpevole di leggere i testi classici, ossia di autori pagani. L’improbabile esegesi fu suggerita al celebre critico dal raffronto con un’opera di Matteo di Giovanni, ma non ha trovato seguaci a dispetto della reputazione goduta dal proponente: è infatti evidente che la scena in secondo piano rappresenta la flagellazione di Cristo. Sono in molti a compiere un passo in avanti ulteriore, identificando nel Cristo alla colonna la Chiesa d’Oriente e Costantinopoli martirizzate dai Turchi. Cristo però non è ancora crocifisso, ma solo flagellato: la tavola alluderebbe quindi a una situazione precedente la caduta di Bisanzio. Un altro particolare interessante: il pittore tedesco Johann David Passavant visitò Urbino attorno al 1836 e prese nota di una scritta posta accanto ai tre personaggi in primo piano. La scritta recitava “Convenerunt in unum”, una citazione dal Salmo 2: “[i principi] si sono adunati insieme [contro il Signore e il suo Cristo]”. La scritta è scomparsa da tempo, rendendo se possibile ancora più misteriosa l’intera storia del quadro.
3. I carnefici I pirati turchi Il Sultano in attesa
Secondo lo studioso Creighton E. Gilbert l’uomo con il turbante di fronte a Cristo, che dà le spalle allo spettatore, sarebbe Erode. Silvia Ronchey nota invece che il personaggio in questione indossa un inconfondibile turbante turco e ha per veste un lungo caftano. Non sarebbe però un turco qualsiasi, bensì il sultano in persona, quel Maometto II che fece cercare per le strade di Costantinopoli il cadavere di Costantino XI, l’ultimo imperatore, per levargli i calzari purpurei con il simbolo dell’aquila bicipite. Sarebbe il gesto compiuto dalla sua mano sinistra a ordinare la flagellazione di Cristo, sollevando Pilato dalla responsabilità del crudele atto. Secondo la bizantinista i due fustigatori rappresenterebbero la minaccia turca, incarnata soprattutto dai pirati: all’epoca in cui Piero della Francesca dipinse la tavola urbinate i pirati turchi flagellavano (è il caso di dire) le coste del Peloponneso, ovvero della Morea cristiana. La Ronchey si spinge fino a congetturare che il flagellatore di sinistra, quello che indossa una tunica azzurra, abbia i tratti di un turco anatolico, mentre quello di spalle con la veste verde nasconda i tratti di un turco mongolico. I due carnefici sarebbero quindi la rappresentazione dei due “tipi” di turco conosciuti dagli occidentali del tempo.
4. L’idolo d’oro Simbolo imperiale Reliquia di Bisanzio
Secondo il racconto dei Vangeli la flagellazione di Cristo si svolse nel pretorio di Gerusalemme, la residenza del governatore romano Ponzio Pilato. La ricostruzione che ne fa Piero è frutto di elaboratissimi calcoli geometrici, a cominciare dal pavimento marmoreo Per la statua d’oro collocata alla sommità della colonna alla quale è legato Cristo pare che Piero si sia ispirato ai resti di un colosso situato di fronte al Laterano, a cui apparterrebbero i frammenti oggi conservati nel cortile dei Musei Capitolini. La statua raffigurava l’imperatore Costantino. Sol Invictus: simboleggia la vittoria di Cristo sulla morte. La studiosa americana Gouma-Peterson intravede nella colonna un chiaro riferimento alla città fondata da Costantino, interpretata come Seconda Roma, ma anche come Seconda Gerusalemme. Era considerata una “città-reliquario” e la presa da parte dei Turchi musulmani equivaleva per i contemporanei a una profanazione. La Scala visibile alla sinistra di Pilato, secondo Ginzburg, alluderebbe alla Scala Santa che al tempo di Piero era situata in Laterano. Per lo storico sarebbe un prezioso indizio per la datazione della tavola, successiva al viaggio a Roma del pittore: la Flagellazione sarebbe stata realizzata a Roma tra il 1458 e l’anno seguente.
5. L’uomo con la barba Bessarione L’ispiratore del piano
Per Ernst Gombrich l’uomo barbuto in primo piano sarebbe Giuda, intento a restituire i denari del tradimento. Lo stesso studioso ha però ammesso che la sua tesi ha l’insuperabile punto debole della mancanza di qualsiasi riferimento alle monete accettate dall’apostolo traditore. Silvia Ronchey invece non ha dubbi sul fatto che si tratti del cardinale Bessarione. “Brucia d’intelligenza”: così definirono il prelato orientale i primi a vederlo quando sbarcò in Italia. L’imperatore Giovanni VIII aveva puntato molto (se non tutto) su questo giovane che salì tutti i gradini della carriera diplomatica e di quella ecclesiastica, tanto da sfiorare il soglio di Pietro in un paio di occasioni. Bessarione, in qualità di “mediatore orientale”, conosceva talmente bene la questione bizantina da poter dare le spalle alla flagellazione preso com’era nella sua opera di illustrazione della situazione agli altri astanti. All’identificazione osterebbero l’età dell’uomo raffigurato (più giovane rispetto al Bessarione del tempo) e l’assenza delle insegne cardinalizie, oltre alla mancanza del nero saio basiliano con il quale Bessarione manifestava il lutto per la caduta di Costantinopoli. Consapevole del valore culturale del tesoro librario accumulato in vita, donò la propria collezione alla Repubblica veneziana. Il lascito costituì il primo nucleo della futura Biblioteca Marciana.
6. Il biondo scalzo Tommaso Paleologo Il candidato tradito
Carlo Ginzburg, nel suo ormai classico saggio Indagini su Piero (Einaudi), vede nell’enigmatica fi gura del biondo al centro della scena principale un ritratto di Buonconte da Montefeltro. Figlio di Federico II, il giovane morì prematuramente di peste quando aveva soltanto 17 anni: la fissità dello sguardo e l’assenza di emozioni fanno pensare che si tratti effettivamente del ritratto di un morto. Per altri invece si tratterebbe del primo figlio legittimo del duca, ovvero Guidobaldo, anch’egli morto in giovane età. Per la Ronchey sarebbe invece Tommaso Paleologo, fratello minore di Giovanni VIII. La bizantinista vede nel fatto che sia scalzo la denuncia della sottrazione dei calzari purpurei, simbolo del potere imperiale che gli spettava per diritto di nascita, come testimonierebbe la sua veste di porpora. Ultimo porfirogenito (appunto nato nella porpora, secondo il rituale imperiale), Tommaso aderiva a una politica filo-latina che voleva ancorare Bisanzio al mondo occidentale contro l’avanzata dei Turchi e le pressioni dell’ala turcofila, capeggiata da un altro suo fratello, Demetrio. Ultimo signore della Morea cristiana, Tommaso aveva un ruolo centrale nel progetto di salvataggio di Bisanzio. Un suo ritratto nei panni di San Paolo è rappresentato in una delle statue del Ponte Elio a Roma.
7. L’uomo in broccato Niccolò III d’Este L’alleato filo-bizantino
Quando lo spettatore si sofferma sulla scena in primo piano, la sua attenzione è immediatamente catturata dal sontuoso vestito in broccato indossato dall’uomo all’estrema destra. Carlo Ginzburg vi scorge il ritratto dell’aretino Giovanni Bacci, al quale lo studioso attribuisce la committenza dell’opera. Ginzburg arriva a questa conclusione confrontando i tratti somatici dell’uomo con quelli di altri personaggi raffigurati in alcune opere di Piero, come la celebre Madonna della Misericordia di San Sepolcro. La Ronchey identifica invece il personaggio all’estrema destra con Niccolo III d’Este, sottolineando il fatto che Giovanni Bacci era una figura di secondo se non di terzo piano nel panorama italiano contemporaneo e sicuramente era fuori luogo in una rappresentazione che – a suo dire – ha tutte le caratteristiche per essere un “manifesto” politico pro-Bisanzio. La bizantinista nota che l’elaborata veste ha il suo parallelo più vicino nel costume indossato da un personaggio raffigurato nella Madonna col Bambino e Lionello d’Este di Jacopo Bellini (conservata al Louvre). Il parallelo non viene notato casualmente, in quanto Lionello era figlio di quel Niccolò III, principe filobizantino e amico di Bessarione, che secondo la Ronchey sarebbe raffigurato nell’uomo in broccato della Flagellazione.
Saul Stucchi
INTERVISTA A SILVIA RONCHEY
Silvia Ronchey, romana, è docente di Civiltà bizantina e di Filologia Classica all’Università di Siena. Nel 2001 ha pubblicato per Rizzoli L’anima del mondo, una conversazione con lo psicologo e filosofo James Hillman, seguito nel 2004 da Il piacere di pensare che ripete la stessa formula con il medesimo interlocutore. Al 2002 risale invece la pubblicazione de Lo stato bizantino per i tipi di Einaudi.
Professoressa Ronchey, perché ha preso in esame la Flagellazione?
Perché sono molti i quadri misteriosi, che hanno un doppio livello di lettura. Ma in questo caso l’enigma è evidente: il quadro, così com’è, non si legge. Non si capisce perché la flagellazione di Cristo debba essere raffigurata come un’azione che si svolge in un retroscena, praticamente ignorato dai tre personaggi nel proscenio che parlano tra loro. Fin dalla riscoperta di Piero in età vittoriana gli studiosi si sono sempre scervellati sull’ermeneutica del quadro.
Da dove ha preso avvio la sua analisi?
Il mio percorso è partito da Bessarione, dallo studio delle sue opere giovanili in greco (composte prima del concilio di Ferrara-Firenze del 1438-9), quando era dignitario alla corte di Mistrà. In queste opere ho trovato un testo sconcertante: l’elogio funebre di Cleòpa Malatesta Paleologhina, la bellissima e intelligentissima figlia adottiva di Carlo Malatesta, nonché sorella adottiva di Sigismondo Malatesta, spesso raffigurato da Piero. Viene data in sposa a uno degli eredi al trono di Bisanzio, Emanuele II, in vista di diventare imperatrice di Bisanzio mentre invece muore in circostanze misteriose nel 1433. Il tutto è iniziato da un viaggio a Mistrà, in cerca della sua tomba che però non ho trovato. Ho scoperto invece una mummia di un’aristocratica occidentale di altissimo rango che tutto fa desumere sia Cleòpa o una sua dama di compagnia. Il vestito e l’acconciatura testimoniano che non si trattasse di una donna bizantina. Studiando le alleanze dinastiche tra Paleologhi e Malatesta sono arrivata a ricostruire il piano di salvataggio occidentale di Bisanzio che si snoda tra gli anni 20 e 40 del Quattrocento. Bessarione, in qualità di cardinale “orientale” della curia romana, cercherà in ogni modo di sostenere questo piano.
Qual è, secondo lei, la chiave per sciogliere l’enigma della Flagellazione?
Ritengo che la chiave stia in noi, nella nostra mancanza di strumenti intellettuali e psicologici per conoscere la storia bizantina, soprattutto quella della Bisanzio tarda. In generale l’Occidente ha eclissato, rimosso (anche se non sono propensa a pensare a una vera e propria censura) il millennio bizantino, l’altra metà del Mediterraneo che per undici secoli aveva dominato il mondo medievale, in realtà continuando l’Impero Romano, quindi non è neppure corretto parlare di medioevo. Il trono che si rende vacante nel 1453 con la caduta di Costantinopoli non è quello di un piccolo regno balcanico insidiato dalla pressione ottomana, ma è quello dell’impero romano. Secondo la mia esegesi il quadro allude alla necessità di ricongiungere o quanto meno di recuperare all’occidente l’eredità di Bisanzio, non solo quella culturale. Quest’ultima sarà salvata col Rinascimento, mentre l’eredità statale, amministrativa e dinastica andrà perduta. Il piano di salvataggio di Bisanzio, manovrato da Bessarione, fallirà casualmente: come diceva Robespierre, il caso è il re della storia. Nessuno poteva sapere come sarebbe finita, non certo Piero che nel 1458-9, quando esegue il dipinto, assiste ai preparativi grandiosi della conferenza di Mantova indetta da papa Pio II; un summit internazionale per preparare un’imponente spedizione militare per il recupero della Morea bizantina.
Che reazioni ha registrato?
Per il momento devo dire che sono state positive. Salvatore Settis è stato per me un punto di riferimento fin dall’inizio. A partire da un mio articolo nella Byzantinische Zeitschrift mi ha incoraggiato a proseguire questa ricerca. La sua approvazione me l’aspettavo, mentre non mi aspettavo quella di altri storici dell’arte come Claudio Strinati [della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Romano]. Il mondo degli studi è però lento e dobbiamo aspettare quali saranno le reazioni più capillari. Posso comunque anticipare che la Soprintendenza di Urbino ha indetto per la primavera una tavola rotonda che si terrà proprio di fronte alla Flagellazione e che riunirà i massimi esperti internazionali di Piero della Francesca.
L’UNITÀ DI MISURA
Nel 1953 gli inglesi Bernard Arthur Ruston Carter e Rudolf Wittkower pubblicarono sulla rivista Journal of the Warburg and Courtauld Institutes un articolo fondamentale per l’esegesi della Flagellazione. I due studiosi avevano scoperto infatti gli arcani matematici sottesi alla composizione del dipinto, ripresi da Nicola Cusano e Leon Battista Alberti. L’architettura della scena è basata su un modulo pari a 4,699 centimetri, rappresentato dalla sottile striscia di marmo nero raffigurata sopra il copricapo dell’uomo barbuto in primo piano. Moltiplicato per dieci, il modulo dà la larghezza dell’opera, mentre l’altezza è pari a sette volte il modulo così ostentatamente collocato in posizione centrale da risultare pressoché “invisibile” per cinquecento anni.
LA GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE
Il Palazzo Ducale, sede della Galleria Nazionale delle Marche, fu voluto da Federico Montefeltro nella seconda metà del Quattrocento. Nel torno di pochi anni Urbino si trasformò da piccolo borgo medioevale in una città progettata e realizzata secondo i canoni dell’architettura rinascimentale. All’inizio i lavori furono affidati a Maso di Bartolomeo, mentre il disegno del mirabile cortile d’onore si deve all’architetto Luciano Laurana, autore anche della spettacolare facciata dei Torricini. La direzione del cantiere passò poi a Francesco di Giorgio Martini, al quale si devono anche i Palazzi di Jesi e di Urbania. La Galleria fu creata nel 1912, mentre l’ultimo allestimento risale al 1982. Tra i capolavori esposti meritano una menzione, oltre alla Flagellazione, la Madonna di Senigallia, anch’essa dipinta da Piero della Francesca; la Comunione degli Apostoli di Giusto di Gand; il Miracolo dell’Ostia Profanata, realizzato da Paolo Uccello e la famosa Muta di Raffaello, il cittadino più famoso di Urbino.