Piero della Francesca e le corti italiane
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Ci sono dieci anni di ricerca dietro al libro “L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey, recentemente presentato dall’autrice al Teatro Bicchieraia. Dove l’enigma si annida, a questo punto si annidava, nel doppio piano prospettico della Flagellazione di Piero della Francesca custodita alla Galleria Nazionale delle Marche di Palazzo Ducale a Urbino. Rimandare alla lettura di questo saggio è d’obbligo per entrare nei segreti della tavola, dal significato della misteriosa scritta scomparsa convenerunt in unum, alla storia della testa di Sant’Andrea, apostolo di Gesù e fratello di Pietro, dall’eterno amore-odio tra Occidente e Oriente, allo spazio-tempo concepito dall’artista di Sansepolcro grazie agli artifici dell’arte e non alle formule della fisica, 450 anni prima di Einstein. Soprattutto, il lettore è catturato nell’atmosfera culturale ispirata dai più importanti umanisti del Quattrocento. Alcuni dei quali, seguendo i destini imponderabili della Storia, salirono al soglio pontificio, Enea Silvio Piccolomini, Pio II, morirono delusi o divennero cardinali dopo essere stati membri dell’accademia orfico-platonica raccoltasi a Mistrà, nel Peloponneso, Gemisto Pletone e Bessarione. I loro frutti vennero successivamente raccolti a Firenze. La Firenze di Marsilio Ficino prima ancora che di Cosimo il Grande.
C’è un quadro, si legge nel libro della Ronchey, che raffigura queste personalità: è l’Adorazione dei Magi di Benozzo Gozzoli, a Palazzo Medici-Riccardi. Il primo manifesto di questa tendenza culturale che legge finalmente Bisanzio non come un mondo piatto attraversato da secoli di progressiva decadenza, stilizzato nelle icone e nei mosaici, ma come sede privilegiata di tanti “umanesimi” anticipatori del nostro, sbocciato, guarda caso, quando i bizantini giungono in Italia.
Insieme alla loro arte diplomatica, alla loro ortodossia scismatica e al timore di una imminente conquista turca di Costantinopoli, un 11 settembre del XV secolo che arriverà puntualmente nel 1453, essi portano la riscoperta e rilettura dei classici greci che consegneranno, come un prezioso testimone, proprio all’Occidente affinché ne faccia l’uso migliore.
È un’Europa, quella orientale che ha resistito 1000 anni alla caduta di Roma: l’Europa Occidentale dovrà camuffarsi in Sacro Romano Impero, sotto l’egida prima dei Franchi poi degli Ottoni, per darsi una parvenza di ancoraggio a quel passato imperiale e glorioso. Bisanzio non ha bisogno di maquillage, Bisanzio è l’Impero perpetuatosi. Il basileus, titolo dell’imperatore costantinopolitano, è Cesare senza aggettivi, è il vero erede di Ottaviano, Traiano, Adriano, Marco Aurelio, Diocleziano, Costantino.
Quando questa città-simbolo viene conquistata da Maometto II, per la prima volta si pone nella Storia il problema del rapporto tra Europa e Islam. Studiare Bisanzio oggi non è casuale, è qualcosa che ci coinvolge in tutta la sua attualità.
Piero della Francesca e il Quattrocento erano consapevoli dell’importanza di questo passaggio traumatico, capaci di accogliere nelle loro opere quanto di più mistico e “classico” veniva loro suggerito dallo studio, dalla conoscenza e dalle suggestioni. Rileggono la vicenda umana dalla parte degli sconfitti: l’Europa greco-orientale. E ne auspicano la salvezza, o ancora il recupero nel grembo della cristianità e della romanità.
La mostra di Arezzo dà un’idea chiara di come Piero sia diventato la rosa dei venti di un’arte pittorica che si diramò ai quattro punti cardinali, le corti dell’epoca. Oltre ai quadri, ha dei tesori meno appariscenti ma importanti per Silvia Ronchey. In particolare alcune medaglie di Pisanello che raffigurano Giovanni VIII Paleologo, il penultimo basileus. Colui che partecipò al concilio di Ferrara-Firenze, che Piero vide sfilare nella città del Giglio con un codazzo incredibile di servi, consiglieri, intellettuali, monaci, cortigiani. Giovanni VIII è rappresentato di profilo nelle medaglie ora esposte ad Arezzo. Non si sbaglia allora nell’identificarlo con il Pilato seduto che nella Flagellazione guarda il supplizio di Cristo-Costantinopoli sullo sfondo della tavola. Giovanni VIII giunge a Firenze propenso a ricomporre lo scisma della cristianità, suggerito in questo da Bessarione, pur di ottenere l’impegno dell’Occidente a difendere la sua capitale ancora invitta.
Ma la tavola di Piero è successiva alla presa di Costantinopoli, lo stesso Bessarione capisce che questa è un fatto acquisito: individua allora un’altra testa di ponte nella marea turca dilagante, la Morea, dove restava a memoria imperitura la sua Mistrà esoterica da riportare nel seno della cristianità. Lì, doveva regnare Tommaso Paleologo, imparentato con i Malatesta di Rimini. Quello era il luogo adatto non tanto a una nuova unità del cristianesimo ma a una sorta di religione universale, un cristianesimo platonico, o se credete un platonismo cristianizzato. Il sogno di Nicola Cusano. Ce n’era già un’esemplificazione architettonica: l’edificio di Leon Battista Alberti, proprio a Rimini, una chiesa sublimata in tempio pagano.
A queste prospettive era favorevole anche il Papa Pio II, pontefice platonico consapevole che il titolo di imperatore romano era rimasto in capo a colui che sedeva sul trono bizantino. E riconciliare le sua Roma con quella adagiata sul Bosforo, o al limite con la sua mimesi peloponnesiaca di Mistrà, gli consentiva di tornare a essere il vescovo-guida di un’Europa a religioni unificate. Sollecitare e benedire una “crociata” equivaleva a legittimarsi quale depositario di una spiritualità e temporalità naturali, messe in discussione dalla crisi della Chiesa e dall’opera di Lorenzo Valla, in quegli anni rivelatore della falsità della fonte primigenia del suo potere, la donazione di Costantino.
Ma con il recupero di Bisanzio, ne erano consapevoli i protagonisti di quelle vicende, si restituiva a questa città un ruolo di filtro e mediazione. L’Europa, perdendola, vedrà sparire il garante di un dialogo tra essa e le culture fiorite nelle pianure asiatiche della Bactriana o nei deserti dell’Arabia.
Guardare a quei secoli, al 1453, alla caduta di Costantinopoli, senza la quale forse non avremmo avuto né le caravelle di Cristoforo Colombo né le tesi di Martin Lutero a Wittemberg, né, e qui la conclusione della Ronchey è acuta, il matrimonio tra principe di Mosca e l’ultima paleologa con il quale l’Occidente ha abbandonato alle steppe la sua sorella levantina, vuol dire affrontare i traumi dell’infanzia del nostro continente. E ora che l’Europa è diventata adulta sembra avere scordato proprio quei passaggi salienti. Lasciando Bisanzio alla deriva, oggi che si chiama Istanbul i governanti sono avviati a ripetere le medesime scelte chiudendole in faccia le porte, ha rinunciato alla sua capacità di dialogare con le civiltà a Oriente del Bosforo, che ne è sempre stato l’ingresso e l’interlocutore, senza per questo scordare l’origine romana che l’ancorava alle nostre radici.