La Flagellazione di Piero della Francesca, ai confini tra storia, letteratura e iconologia
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Si potrebbe dire, provocatoriamente, che il primo merito di questo libro sta nel suo successo editoriale. Il tema della ricerca di Silvia Ronchey è la decrittazione dell''enigma' della tavola di Urbino, alla luce del contesto storico della metà del Quattrocento. Non si tratta, certo, di un tema facile, ma l'autrice riesce nell'operazione di conferire appeal a una materia come la bizantistica che si porta addosso, più o meno a ragione, un alone di erudizione, muffa e polverosità, e che comunque non è un ambito di studi che goda di visibilità e di ampia divulgazione. Il libro di Ronchey, uscito nell'aprile 2006 in una collana non specialistica della Rizzoli, ha goduto invece di un pronto riscontro di critica, ben al di fuori del ristretto ambito delle riviste di settore e, relativamente alle cifre di vendita della saggistica in Italia, ha riscosso un riconoscimento di pubblico ampio e caloroso. Che un saggio di un filologo e storico bizantino, su un tema che si colloca all'incrocio tra le competenze dell'iconologo, dello storico dell'arte e dello storico tout court, sia apprezzato da un pubblico di lettori non specialisti, è quindi un vero conforto per chi crede che la divulgazione degli esiti della ricerca non debba essere relegata in accademia, non debba circolare solo tra gli addetti ai lavori, riservata ai colleghi afferenti allo stesso gruppo disciplinare, ma che la comunicazione culturale debba, anzitutto, rivolgersi a un pubblico di persone colte, mirando a un target di lettori intellettualmente vivaci e interessati all'aggiornamento degli studi di scienze umane. Il pregio del saggio di Ronchey sta però, soprattutto, nella strutturazione formale che la studiosa impone al suo lavoro: il sommario del volume articola in ricercata giustapposizione capitoli di ricostruzione storica e letteraria, capitoli di storia culturale e delle idee, ma anche di metodologia di storia dell'arte, di iconologia. Nella gamma variegata dei registri retorici che il saggio offre, trovano spazio anche pagine del diario dello studioso che si concede al racconto condividendo la sua esperienza di ricercatore, e così restituisce al suo lettore, in toni simpateticamente 'ingenui', il pathos dell'esplorazione tra le carte d'archivio, l'emozione del rovistare in scatole e faldoni, mettendo le mani sui documenti e materiali preziosi, spesso (come nel caso dei disegni di Pisanello) anche di grande valore artistico. Nella architettura del volume trova spazio anche la 'confessione' dei dubbi, della parzialità del sapere dello studioso che si cimenta non tanto a trovare in altri approcci disciplinari riscontri al supporto delle ricerche nel suo campo, ma mette alla prova il suo sapere a fini coraggiosamente impropri: inframmezzati nella struttura del volume si trovano sezioni narrative, in forma di dialogo, che riproducono lo scontro/incontro disciplinare tra la parola (e le tecniche) dell' 'Antichista' e l'occhio (e le tecniche) dello 'Storico dell'arte'. L'abile e studiata struttura espositiva è sostenuta dalla cifra vincente della qualità di una scrittura gradevole e accattivante, e che pur tuttavia mai cede alle semplificazioni divulgative. La diversità di registri retorici dei vari capitoli del saggio corrisponde dunque, felicemente, alla diversità delle prospettive e delle metodologie di indagine: al centro sta la carica 'enigmatica' dell'opera – il quadro di Piero, oggetto primo e insieme pretesto della ricerca – e l'immagine dà prova ancora una volta della sua potenza: proietta e riflette luci di intelligenza, attrae suggestioni e significati. Zum Bild das Wort: tutto ruota intorno all'immagine che cattura l'attenzione del ricercatore e del lettore (necessario spettatore 'a distanza' della performance interpretativa dello studioso) e nell'agone disciplinare la potenza dell'immagine pare avere, ancora una volta, la meglio sulla potenza della parola sia nella scelta del tema di indagine, sia per l'armamentario metodologico che sostiene lo snodarsi della ricerca. Dal punto di vista dei contenuti, delle ragioni argomentative, e in generale della tesi interpretativa Ronchey guadagna dunque al suo lavoro l'attenzione critica puntuale sia dello 'Storico dell'arte' sia dell' 'Antichista' (per richiamare in scena le stesse maschere e stare al gioco che la studiosa evoca drammaturgicamente nei suoi dialoghetti): sulla metodologia generale, sulla tesi interpretativa perseguita, ma anche sul dettaglio delle singole argomentazioni, entrambi, 'Storico dell'arte' e 'Antichista', sono provocati, quasi ad ogni passo, a interloquire con l'autrice. Alcuni appunti in ordine sparso a conferma dell'interesse che questa lettura suscita.
Si chiede lo 'Storico dell'arte': le opere d'arte, specie le opere d'arte del Rinascimento italiano, stimolano positivamente l'esercitazione interpretativa di competenze e saperi diversi: ma siamo sicuri che nella temperie della nouvelle vague iconologica alcuni dati visivi non siano sottoposti a una sorta di iperinterpretazione? Sarà congruo considerare come segnali di specifiche intenzioni dell'artista alcuni elementi iconografici (l'idolo sulla colonna; il cappello da Paleologo; la scala) o stilistici (la doppia fonte di luce; la regolarità albertiana del muro di fondo)? non sarà che il non-storico dell'arte che si cimenta nell'indagine iconologica prende per eccezionali elementi compositivi che in realtà sono più che frequenti e 'normali' nelle convenzioni pittoriche del tempo? (Sul punto, vedi anche, in questo stesso numero di "Engramma", Note su Indagini su Piero di Carlo Ginzburg). Si chiede a sua volta l'' Antichista': una volta riconosciuta l'importanza del Concilio del 1438-39 di (Venezia)-Ferrara-Firenze-(Roma) e una volta accertata l'indubbia influenza che quell'evento ebbe su alcuni episodi artistici (ad esempio sulla rinascita del genere della medaglia all'antica), siamo sicuri che la suggestione di quell'evento storico sia apprezzabile, a distanza di anni e decenni, in tante e tanto disparate opere d'arte? (Sulla questione, vedi già il monito alla cautela di Anna Pontani, Firenze nelle fonti greche del Concilio, in Firenze e il Concilio del 1439, Atti del convegno di studi, a cura di Paolo Viti, Firenze 29 novembre-2 dicembre 1989, Firenze 1994). E si chiede ancora lo 'Storico dell'arte': secondo Ronchey la Flagellazione raffigura sinteticamente il Concilio di Ferrara-Firenze del 1438-39 e i tre personaggi in primo piano rappresentano, nell'ordine, Bessarione, Tommaso Paleologo, Niccolò III d'Este. Ma l'opera è datata agli anni cinquanta del Quattrocento, quindi Piero nell'opera si collocherebbe anche nell'"orizzonte di speranze" dell'imminente Concilio di Mantova del 1459. Ma si dà il caso di un dipinto in cui sia proposta una sfasatura spazio-temporale come quella, di vent'anni, proposta da Ronchey (ma già da Carlo Ginzburg)? In altre parole: è ipotizzabile, in base ai parametri cronologici e percettivi propri del Quattrocento, che un'opera datata agli anni cinquanta fotografi un episodio del 1439, oltre tutto con l'acribia filologica di restituire ai protagonisti l'età e l'aspetto che avevano all'epoca? E ancora: al termine del percorso che dovrebbe portare alla soluzione dell''enigma', restano sospese alcune domande che lo 'Storico dell'arte' giudica fondamentali e pregiudiziali rispetto a qualsivoglia lettura interpretativa del soggetto: chi avrebbe commissionato l'opera? chi l’ha concretamente pagata? per quale sede o per quale destinatario? Non più a quanto pare Giovanni Bacci, già chiamato in causa come committente da Carlo Ginzburg. Secondo Ronchey l'ideatore e committente dell'opera è con tutta probabilità (anche se una probabilità tutta indiziaria) il Bessarione: ma Bessarione aveva avuto modo di essere committente di Piero per molti decenni e in varie città (ad esempio a Bologna, mentre Piero era in città, o a Ferrara; o a Roma) e, nel corso di trent'anni, non è attestata alcuna documentazione che provi un rapporto diretto di committenza tra Bessarione e Piero: in base a quale fondamento è lecito supporre che il committente possa essere stato il prelato greco? Secondo Ronchey l'abito da dignitario bizantino della figura in primo piano raffigurerebbe Bessarione giovane, all'epoca del Concilio di Ferrara. Ma Bessarione aveva un look ben identificabile e più che noto ai suoi contemporanei, caratterizzato dalla veste nera da monaco basiliano, dalla barba (non a doppia punta come quella del 'dignitario bizantino') e in seguito dalle insegne cardinalizie: era insomma ben diverso dalla figura inserita nel gruppo delle figure in primo piano della Flagellazione. Che senso può esserci nel farsi raffigurare in modo da non essere riconosciuti? I tre personaggi raffigurati in primo piano sarebbero, dunque, da sinistra a destra: Bessarione stesso, Tommaso Paleologo, Niccolò III d'Este: ma quale sarebbe il rapporto tra il committente e gli altri personaggi identificati nel dipinto? Bessarione aveva avuto occasione di incontrare Niccolò III d'Este a Ferrara durante il Concilio, ma Niccolò era morto già dal 1441: quale interesse potevano avere committente e artista a inserire nell'opera il ritratto dell'antico signore di Ferrara (a cui nel frattempo erano succeduti prima Lionello, e poi Borso)? Una delle sezioni più suggestive del volume è quella in cui viene ricostruito il peregrinare di corte in corte dell'"ultimo bizantino" Tommaso Paleologo, dopo la caduta di Costantinopoli e la conquista della Morea, nel disperato tentativo di convincere i signori e i papi del tempo a indire un Concilio (che viene organizzato a Mantova nel 1459) e quindi una Crociata (la "crociata fantasma" evocata nel titolo del volume) per riscattare l'onore dell'impero bizantino e liberare i territori occupati dal Turco: sia il Concilio che la Crociata falliranno, ma la missione di Tommaso si compirà con la translatio imperii di Bisanzio nella terza Roma dell'impero russo, mediante il sangue di Zoe Paleologina (futura Sofija "raina de Rossia"), sposa del 'nuovo Costantino' lo zar Ivan III; secondo Ronchey l'ideazione del dipinto, raffigurante il Concilio del 1439, si colloca nella temperie di attese e di speranze che agitavano le corti italiane alla fine degli anni cinquanta sulla questione della riconquista del trono imperiale di Bisanzio. Anche in questo caso, comunque ammesso di accettare per plausibile la rappresentazione nel quadro di Piero di un Tommaso Paleologo giovane, sarà pur da notare che i tratti della fisionomia, i colori e le vesti dell'angelicata figura al centro del trittico di personaggi della Flagellazione non corrispondono affatto a quelli di Tommaso Paleologo. Si può dunque credere che anche in questo caso (come per il 'giovane Bessarione') sia stato inserito nell'opera il cripto-ritratto giovanile di un personaggio vivente, ma rappresentato in modo irriconoscibile per i contemporanei? E ancora: la retrodatazione della scena rappresentata al Concilio di Ferrara del 1438-39 sarebbe comprovata dalla presenza di Giovanni VIII Paleologo assiso sul trono, in secondo piano nel dipinto, come spettatore eccellente della flagellazione di Cristo. Com'è noto, il personaggio viene identificato con l'imperatore bizantino che era al potere ai tempi del Concilio grazie al confronto con la medaglia pisanelliana: questa presenza viene molto valorizzata da Ronchey, ma già Carlo Ginzburg e altri prima di lui citavano la presenza della figura come prova significativa dell'ambientazione cronologica della scena in un passato più o meno lontano rispetto all'effettiva esecuzione dell'opera. Ma siamo sicuri che la figura in trono, a uno spettatore degli anni cinquanta del Quattrocento, evochi proprio ed esclusivamente Giovanni VIII Paleologo? Come è stato provato, a partire dai primi anni quaranta si moltiplicano le occorrenze di ritratti esemplati, per via di derivazione diretta o poligenetica, sul modello della medaglia pisanelliana e/o sui disegni preparatori della stessa. Di fatto però i tratti della fisionomia (quella barba a punta, quel profilo) e gli accessori che caratterizzano l'abito dell'imperatore bizantino (il colletto rialzato della veste, il copricapo-skiadion) nel repertorio iconografico del tempo non identificano esclusivamente Giovanni VIII, ma molto precocemente si prestano alla raffigurazione di altre figure di potenti, storiche o contemporanee: Erode, Pilato, Costantino il Grande (ma si veda in questo stesso numero di "Engramma", Centanni e Pedersoli, Nota sulla cronologia della Battaglia di Costantino e Massenzio), Carlo Magno, fino a Maometto II; o alla rappresentazione del 'greco' (si veda, in "Engramma", L'effigie di Giovanni VIII Paleologo (galleria iconografica), a cura di Alessandra Pedersoli). Il ritratto dell'unico basileus bizantino che fosse stato in Occidente (nel soggiorno in Italia durante il Concilio del 1438-39) era dunque ben noto grazie alla (relativamente) ampia circolazione della medaglia, ma quel ritratto aveva assunto molto presto la funzione di convenzione iconografica di rappresentazione del potente orientale: il basileus bizantino, ma anche il re ellenistico, il legato di Cesare, infine il Sultano. Non sarà incauto fondare sul Pilato in trono della Flagellazione l'identificazione specifica del penultimo imperatore di Bisanzio? Non sarà improprio trattare quella presenza come elemento decisivo per la cronologia della scena evocata nel dipinto? E del resto: nella scena della flagellazione di Cristo è sostenibile che una figura nettamente 'positiva' come quella del basileus di Bisanzio sia sovrapponibile alla figura, quanto meno ambigua, di Pilato? Un ruolo di spicco tra i molti personaggi storici che Silvia Ronchey convoca come coprotagonisti della sua ricostruzione, è affidato alla principessa di Mistrà, Cleopa Malatesta, morta nel 1433. Intorno alla "sposa occidentale" di Teodoro II Paleologo, signore di Morea, sulle vicende della sua vita e della sua morte precoce, la studiosa imbastisce una sorta di romanzo di intrighi: tra gli ingredienti non manca neppure una misteriosa e affascinante mummia femminile, rinvenuta a Mistrà in abiti principeschi, intorno alla quale si svolge una vera e propria indagine, in omaggio al genere giallo storico-archeologico. Secondo Ronchey, Cleopa sarebbe stata un personaggio di riferimento nella setta politico-religiosa di Mistrà ispirata ai 'misteri pagani' del filosofo Gemisto Pletone, ma anche la vittima di una congiura dinastica sorta in seno all'aristocrazia bizantina. Interviene qui l' 'Antichista' a domandarsi: siamo sicuri che dai documenti epistolari e letterari noti, e in particolare dalle lettere della stessa Cleopa e dall'orazione scritta da Gemisto Pletone per la morte della giovane sposa di Teodoro, si possano evincere le prove di una 'conversione' al paganesimo della nobile Malatesta? Non si tratta invece, come par di leggere chiaramente nei testi, di una 'conversione' della principessa italiana all'ortodossia della Chiesa orientale? E quanto agli esami scientifici che la studiosa invoca per provare l'ipotesi del delitto, siamo sicuri che un test del DNA sulla mummia potrebbe essere utile a dimostrare "se la giovane aristocratica occidentale fosse effettivamente incinta al momento della morte e se fosse stata effettivamente assassinata?" (p. 202). E ancora: sarà possibile definire Gemisto Pletone come l'"unico vero pagano del Rinascimento" (p. 26) o dire che la dottrina da lui predicata, e condivisa anche dal Cardinal Bessarione, sia anacronisticamente definibile come "dottrina dell'Eterno Ritorno"? (p. 165). Infine, sulla tavola di Urbino (o sulla cornice) risultava fosse un tempo apposta la scritta CONVENERUNT IN UNUM, con ogni probabilità originale. Si tratta di una citazione biblica tratto dal Salmo II, poi ripresa negli Atti – “Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius” – che riferita propriamente alla Passione di Cristo fa parte del servizio del Venerdì Santo. Il passo biblico (ripreso anche in Dante, Monarchia II, 1) è inequivocabilmente riferito ai re e principi della terra uniti "contro il Signore e contro Cristo suo figlio". L' 'Antichista' potrebbe obiettare: com'è possibile legare il senso della citazione ai "convegni" conciliari (del 1439 e del 1459) e alle tre figure che "si ritrovano" in primo piano? La scena rappresentata è indubbiamente un episodio della Passione di Cristo, a cui il brano del salmo è direttamente collegato nella liturgia: sarà mai possibile ipotizzare un significato diverso della citazione, e anzi opposto rispetto alla lettera precisa e puntuale del passaggio biblico? È possibile che il committente, chiunque fosse, avesse dato l'incarico dell'opera a uno dei pittori più cari sul mercato per essere poi parificato visivamente, grazie alla citazione biblica ben nota anche per il suo uso liturgico, ai convenuti a torturare Cristo? E, anche dal punto di vista grammaticale: è possibile nel contesto intendere "in unum" come moto a un luogo fisico e non come intende l'esegesi già antica "id est: unam pravam voluntatem"? Tutti appunti e osservazioni che dimostrano come grazie alla ricchezza documentaria ed ermeneutica offerta nel saggio venga stimolato anche il dibattito tra studiosi sui singole argomentazioni interpretative. Il libro di Ronchey è dunque non solo un test importante e riuscito per il lancio di un formato di alta divulgazione 'all'anglosassone' dei prodotti scientifici: è anche un lavoro che non accende soltanto l'interesse del pubblico, ma in via più generale solleva questioni importanti sotto il profilo metodologico, teorico ed epistemologico (sul punto, in questo stesso numero di "Engramma": Note a Il filo e le tracce di Carlo Ginzburg), ovvero sullo statuto tutto da ridefinire del metodo delle scienze storiche e sul genere della loro scrittura.