Il capolavoro dei due mondi
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Silvia Ronchey ha condotto una indagine vastissima nel suo libro L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro (Rizzoli, pagg. xxx, 21 euro). Insigne bizantinista, la studiosa ha versato in questo libro la sua incomparabile competenza nel settore specifico di studi all’interno di una ricognizione che si avvale di innumerevoli e capillari informazioni inerenti alla storia dell’arte, dell’archeologia, della letteratura, della filosofia. Ne scaturisce un testo di esemplare leggibilità, tutto intessuto di una vivace vena narrativa e di una finezza di scrittura che hanno pochi termini di confronto nella produzione attuale.
Convincente e profonda l’analisi della Ronchey è condotta con un senso di modestia e moderazione che val la pena di additare a ogni studioso e che è simpaticamente percepibile nello splendido ritratto fattole da Elisabetta Catalano che la raffigura pensierosa ma sorridente al suo quotidiano tavolo di lavoro. L’autrice ha fatto, così, ricorso persino a un classico e raffinato accorgimento, quello di inserire, di volta in volta, capitoli in cui immagina il dialogo tra un antichista e uno storico dell’arte che verificano le rispettive tesi alla ricerca di una verità di fondo.
Profondo è il rispetto della Ronchey per coloro che l’hanno preceduta in questa ardua ricerca sulla Flagellazione di Piero della Francesca, uno dei più bei dipinti di tutti i tempi. Lungi dall’assumere l’atteggiamento di chi ritiene di aver capito ogni cosa e di poter contestare e ridicolizzare i colleghi, l’autrice dichiara onestamente tutti i suoi debiti, e quando rivede tesi altrui non è per dare del cretino a nessuno ma per giustificare metodi diversi sia pur nel legittimo orgoglio di essere sempre più vicina alla verità.
Piero della Francesca è un enigma in sé. Le sue opere hanno la magia e l’incanto di qualcosa che tutti sembrerebbero poter comprendere ma che sembra poi impossibile capire sul serio. A cominciare dallo stile, straordinario e unico nella storia dell’arte italiana. Si avverte in lui, e la Ronchey non perde mai di vista una riflessione del genere, un misto sconcertante di equilibrio e ferinità. Sembra l’uomo più colto e equilibrato del mondo e nel contempo un selvaggio sprezzatore della stessa civiltà che l’ha prodotto. I suoi uomini e le sue donne si presentano come regnanti e governatori ma sono pervasi da un furore latente e da una malinconia insuperabile.
Ma la Ronchey rifiuta, giustamente, ogni possibile lettura “suggestiva” per restituire una immagine vera e documentata del grande artista. Nella Flagellazione , spiega l’autrice, Piero porta a un punto culminante quella che deve essere indicata come sua caratteristica precipua e cioè l’essere stato l’erede, vero e consapevole, della cultura e della mentalità del mondo bizantino che, nei secoli precedenti, aveva espresso una serie continua di “rinascite” intellettuali e morali, culminate, poi, in quello che oggi chiamiamo il “Rinascimento” per antonomasia e che Piero porta a un livello altissimo di dimostrazione visiva.
Attraverso una serrata ricostruzione storico-documentaria, apprendiamo come la Flagellazione sia, in sostanza, il simbolo figurativo della politica culturale perseguita soprattutto dal cardinale Bessarione, uno degli uomini chiave del rapporto Oriente bizantino-Occidente romano.
Bessarione viene da Bisanzio, dal 1453 in mano ai turchi, e partecipa a quel movimento di riscatto della Chiesa di Roma che, negli anni immediatamente precedenti e seguenti l’evento della caduta dell’Impero di Oriente, cercò di creare una politica di contrasto e lotta contro il Turco.
Nel quadro memorabile di Piero, Cristo è flagellato a Costantinopoli e l’ultimo imperatore di Bisanzio, Giuseppe VIII (la cui fisionomia è nota attraverso i ritratti del Pisanello) vi assiste nelle vesti di Pilato, colui che non può contrastare l’attacco degli infedeli, adombrati nei due flagellatori che ricordano le fisionomie e gli atteggiamenti dei pirati turchi e mongoli. Di spalle si vede il sultano Maometto II che ordina la Flagellazione ma non si è ancora insediato sul trono di Bisanzio come si capisce dai suoi piedi scalzi, mentre i purpurei calzari imperiali sono ai piedi di Giuseppe VIII.
In primo piano tre uomini sono schierati davanti all’osservatore e una antica didascalia, vista dai primi visitatori del dipinto nell’Ottocento, riportava le parole del Salmo 2.2: Convenerunt in unum . Sono Bessarione, Niccolò III d’Este che ospitò il Concilio di Ferrara indetto nel 1438 per tentare la conciliazione tra Chiesa greca e latina, e Tommaso Paleologo, l’aspirante a quel trono di Bisanzio che non potè mai più conseguire dopo la caduta, despota della Morea nel Peloponneso dove il papa Pio II Piccolomini sperava di recuperare un avamposto del dominio della Chiesa di Roma.
Tutto fallì, e Piero avrebbe eseguito il mirabile quadro, come omaggio al Bessarione e al suo pensiero politico, quando a Mantova, nel 1459, si radunò la fatale conferenza mirata alla preparazione di un crociata contro il Turco. Pio II, vecchio e stanco, morì prima di poter partire per questa impossibile spedizione e la Flagellazione rimase nell’eredità dei beni del cardinale Bessarione quale solenne e dolente monito su una utopia destinata a segnare, di fatto, la irreversibile scomparsa di un mondo che pure aveva generato la fama e la gloria dei massimi pensatori e filosofi del tempo. Ma non è la prima volta che il senso della delusione genera la certezza solenne e incontrovertibile dell’opera d’arte volta a celebrare nello spazio estetico un inattuabile ma pur desiderato destino.