Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha.
a cura di Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti
2012
Silvia Ronchey e Paolo CesarettiNuova universale Einaudi. Nuova serie ; 9
"Capofila di tutte le storie cristianizzate del Buddha, questo testo bizantino degli anni intorno al Mille ha una genesi affascinante tra il Caucaso e il Monte Athos, in un intreccio di lingue, culture e religioni diverse. A questo proposito l’introduzione di Silvia Ronchey è un avvincente “romanzo di filologia” che mostra come lo studio della tradizione dei testi possa toccare il cuore degli snodi culturali e, in questo caso, degli intricati rapporti fra Occidente e Oriente.
La Storia di Barlaam e Ioasaf racconta di un principe indiano che, grazie agli insegnamenti di un anacoreta, fugge dal palazzo dove il padre l’ha rinchiuso per proteggerlo dai mali del mondo, abbandona il destino regale e avvia il suo percorso mistico-eremitico. Che la storia ricalcasse quella del Buddha se ne erano accorti già gli studiosi di fine Ottocento, ma la matassa dei passaggi e delle mediazioni è stata dipanata solo in anni recenti, anche grazie all’edizione critica pubblicata da Robert Volk nel 2009. Basandosi sul suo testo e sui suoi apparati, Paolo Cesaretti consegna ai lettori una puntuale revisione della traduzione (di entrambi curatori) e una ristrutturazione delle note e degli indici, che completano l’informazione aggiornata sull’insieme dell’opera fornita nel saggio introduttivo. Tutto questo rinnova profondamente l’edizione firmata dai due studiosi nel 1980. Si possono così apprezzare appieno per la prima volta sia le qualità narrative del testo sia la ricchezza allusivo-sapienziale delle parabole incastonate nel racconto, che hanno affascinato e influenzato molti scrittori nel corso dei secoli, da Iacopo da Varazze a Boccaccio, da Shakespeare a Tolstoj." (Dalla quarta di copertina)
"C’è un personaggio singolare, in questo libro, cui viene dato il nome di Guaritore dei Discorsi. Quando nella discussione si profila un dissidio insanabile, un’aporia, questo terapeuta (therapeutes) interviene a sanarne i termini: a curare i tranelli delle domande, prima ancora che le risposte, per far uscire il discorso dall’impasse in cui è caduto e guarire il dialogo malato, evitando il degenerare dei conflitti.
Anche questo libro guarisce. Cura, ad esempio, i nostri discorsi sul presunto scontro di civiltà che dalla fine del XX secolo, dopo la caduta dei due imperi eredi di Bisanzio – l’impero ottomano all’inizio del Novecento, quello zarista, poi sovietico, alla sua fine –, sembra dominare il mondo attuale. (…)
Il Barlaam e Ioasaf, non solo con la sua storia ma già nella storia della sua storia, cura la nostra logica. Il monstrum interconfessionale che ci consegna è l’epifania di un passato che garantisce la composizione degli scontri. Un passato bizantino fatto di ortodossia, ma anche di convivenza e mediazione religiosa, che col suo stesso esistere ci ricorda come tra civiltà siano invece, possibili, spesso, degli incontri. C’era a corte un uomo, funzionario tra i più alti per grado, di vita ordinata e pia fede. (…) Accadde che un giorno il re se ne andasse a caccia con la solita scorta, e anche quel valentuomo fosse della partita. E mentre questi vagava tutto solo, gli capita, penso per divina Provvidenza, di trovare in una macchia un uomo accasciato al suolo, con un piede orrendamente maciullato da una bestia feroce; il quale, come lo vede venire, lo scongiura di non passare oltre, ma di avere pietà della sua disgrazia e ricondurlo a casa. E insieme soggiunge: «Vedrai che in futuro non mi rivelerò senza frutto, né ti sarò inutile». Il valentuomo ripose: «Ti aiuterò a rimetterti in forze e ti procurerò l’assistenza che posso: ma disinteressatamente, e per puro Amor del Bene. Comunque, qual è il profitto che – a quanto dici – mi verrà da te?» E quel povero invalido dice: «Io sono il Guaritore dei Discorsi. Se avviene che sia riscontrata ferita o infermità in parole o conversazioni, con appropriati farmaci io saprò guarirla, sì che il male non abbia a diffondersi ulteriormente". (Dall’introduzione di Silvia Ronchey)
Altro su questo volume:
xAudio e video (3)
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2013 | Rai 3 Le storie. Presentazione del volume “Storia di Barlaam e Ioasaf”
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2013 | Mediaset Tg5. Presentazione del volume “Storia di Barlaam e Ioasaf”
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2013 | Rai Radio3 Uomini e Profeti. Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha
Silvia Ronchey nella puntata andata in onda sabato 12 Gennaio 2013, racconta una storia di contaminazione tra culture da cui si evince che già intorno all'anno mille dietro l'identità di due santi cristiani si cela la figura del Buddha.
Stampa (17)
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La Stampa | 13/11/2012 | Quando Buddha era un santo cristiano, Silvia Ronchey
“Perché non possiamo non dirci cristiani”, scriveva il laico Croce, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta obiettività dovremmo oggi seriamente riflettere sul “perché non possiamo non dirci buddhisti”. Più di una filosofia e meno di una religione, il buddhismo è forse la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna, esistenzialista e non. Un silenzioso bestseller, il Siddharta di Hesse, ha orientato spontaneamente la formazione delle due ultime generazioni. Ratificata dalla New Age, ma già anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza culturale e cultuale del buddhismo ha prodotto un’ibridazione confessionale, in cui lo yoga cristiano e le forme di meditazione miste sono ormai consuetudine pacifica. Da Yahoo Answers ai circoli parrocchiali, la domanda “si può essere insieme buddhisti e cristiani” è diffusa viralmente e la risposta è quasi sempre un sì.
In genere si fa risalire l’influsso del buddhismo nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire dell’occidente allo slancio degli studi di orientalistica, da cui si dice fosse influenzato fin da ragazzo Schopenhauer. Ma in realtà il buddhismo era già penetrato da secoli in occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva e si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta ottocentesca. Fin dall’XI secolo il Buddha era diventato un santo della chiesa cristiana. Il suo nome era stato solo lievemente mascherato: Ioasaf, da bodhisattva — budasaf – iudasaf, attraverso le varie versioni che avevano portato la sequenza di fatti, circostanze, archetipi e simboli, per così dire la stringa originaria della vita del Buddha fino a Bisanzio.
Mai prima coagulata in un testo sacro, lì si era fatta libro. Il buddhismo non aveva mai avuto una Scrittura, non essendo un'ortodossia ma un'ortoprassi dove ciò che importa è l'armonia del comportamento e non quella delle dottrine: fatto per adattarsi alle diverse culture, si rispecchiava diversamente nelle loro scritture. Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro per eccellenza, generò un nuovo testo originale: la Storia di Barlaam e Ioasaf, composta tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo da Eutimio di Iviron, un aristocratico ostaggio circasso educato all’alta cultura dei palazzi di Costantinopoli e diventato poi monaco sul Monte Athos. E’ a partire da questo primo decalcarsi dell’impronta buddhista nello stampo bizantino che la sequenza narrativa della vita del Buddha si moltiplicherà in progressione geometrica nella letteratura occidentale e che Buddha estenderà la sua predicazione in occidente en travesti, sotto forma di santo cristiano.
La storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del medioevo globale, un Siddharta ante litteram elevato a potenza. Dal testo greco passerà allo slavo ecclesiastico, di qui al russo e al serbo. Nell’est del mondo la versione di Eutimio sarà tradotta, oltre che in arabo, in etiopico, armeno, ebraico, siriaco. Detti e fatti dell’alias cristiano di Siddharta risuoneranno in ogni lingua occidentale con una diffusione mai raggiunta da nessun’altra leggenda. Attraverso il latino, ma con l’influenza del manicheismo, la sua storia raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime chansons de geste, ai poemi epici medievali in langue d’oïl, a quelli medio-alto-tedeschi, fino al Barlaam und Josaphat di Rudolf von Ems. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio. Si affrancherà dal latino nei fabliaux, nei sunti dei Leggendari, nei misteri popolari, nelle ballate e nei ludi medievali del Maggio. Stupirà il pubblico nelle piazze e nelle sacre rappresentazioni. Attraverserà i confini settentrionali dell’Europa e arriverà fino al teatro di Shakespeare. Nel Seicento vedrà la sua massima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo Barlán y Josafá, per il cui tramite il giovane principe isolato dal mondo e assorbito nel sogno troverà il più completo ritratto occidentale ne La vida es sueño di Calderón de la Barca. Sarà attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha — questa leggenda dalle mille facce, questo punto dello spazio letterario che contiene tutti gli altri punti, proprio come l’Aleph di Borges — si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca e troverà ancora interpreti in Hugo von Hofmannsthal e in Marcel Schwob.
Intanto repertori come lo Speculum di Vincenzo di Beauvais e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze avevano riflesso e nebulizzato nel loro perdurante raggio di influenza non solo la storia del Gautama Sâkyamuni, ma anche il lucente pulviscolo leggendario e sapienziale delle dieci fiabe o parabole che la scandiscono, la più famosa delle quali, l’apologo del Viandante e dell’Unicorno, oggi nota soprattutto nella sua versione zen, proprio attraverso il Barlaam e Ioasaf è dilagata in tutte le letterature del mondo.
Un uomo è inseguito da un unicorno imbizzarrito. Nella fuga inciampa e cade in un burrone. Mentre precipita riesce ad aggrapparsi a un arbusto. Guardando in giù però si accorge che due topi, uno bianco e uno nero, ne stanno rosicchiando le radici. In fondo al burrone vede un drago che lo aspetta a fauci spalancate. Esaminando il punto in cui appoggia i piedi vede quattro teste di serpenti che spuntano dalla parete di roccia. Alza gli occhi al cielo e vede che dai rami dell’arbusto sta colando del miele. Smette di pensare a tutto il resto e si concentra sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele.
Avere portato in occidente questa parabola, di origine forse giainista, è uno dei più squisiti meriti di Bisanzio. Quell’eco mistica arrivò a Baudelaire, per insinuarsi in Mon coeur mis à nu, e a Tolstoj, la cui Confessione è forse la più chiara enunciazione del buddhismo cristiano: conosciuto mediante la tradizione ortodossa dei Menei, il Buddha bizantino, scrive, “gli rivelò il senso della vita”.
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il Venerdì di Repubblica | 23/11/2012 | Mille e una notte in Asia: la favola di …, Lara Crinò
È la favola del principe indiano Ioasaf, rinchiuso dal padre in un fastoso palazzo affinché non conosca i dolori e i mali del mondo: il giovane si ribella, grazie al vecchio saggio Barlaam che gli apre gli occhi sulla natura e il fato umani, e abbandona il suo destino di privilegi per farsi mistico ed eremita. Si intitola Barlaam e Ioasaf e arrivò intorno all’anno Mille dall’Asia centrale a Bisanzio, e di qui in Occidente. Se vi ricorda la storia del Buddha è perché è la storia del Buddha: traslata, cristianizzata e destinata, insieme alle «parabole» che la inframmezzano, ad avere grande successo nell’agiografia medioevale e a diventare protagonista di una miriade di riscritture, dalla Chanson de geste a Boccaccio, da Calderòn de la Barca a Tolstoj, che nella sua Confessione si dice folgorato da quella vicenda, scoperta leggendo le «vite dei santi» ortodossi. Testimonianza eccezionale della ricchezza culturale e del lascito della civiltà bizantina, Barlaam e Ioasaf (Einaudi, pp. 350, euro 30) si riaffaccia in libreria (una prima pubblicazione italiana per Rusconi è degli anni Ottanta) in una nuova edizione curata da Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey. Quest’ultima ci racconta come ha ricostruito la storia filologica del testo ma anche l’intrico dei rapporti filosofici e religiosi tra Oriente e Occidente. Mostrandoci come la fascinazione dell’Occidente contemporaneo per il Buddismo è, in realtà, una storia d’amore nata mille anni fa e «inscritta nel nostro Dna culturale». Tutti oggi conoscono il Siddartha di Herman Hesse. Ma Ronchey mostra come il fascino per il Bodhisattva risalga al primo medioevo. Dice infatti: «La storia dell’Illuminato è un’archetipo perfetto dell’iniziazione alla condizione umana. Ed è attuale anche oggi, perché di fronte alla tabula rasa del benessere, il principe non si fa ingannare dall’apparenza. Jorge Luis Borges, nel suo Che cos’è il Buddismo, sosteneva che la vita del Siddartha è più “povera” metaforicamente di quella di Cristo. Però ha un fascino universale». Ma come mai è stato così facile per l’Occidente «rubare» la storia del Buddha e occultare il fatto che era un mito non cristiano? «Perché il buddismo è un ortoprassi, un insieme di pratiche e narrazioni e non una religione codificata con un testo sacro. Per questo la vita dell’Illuminato, attraverso l’Iran islamico e la Georgia ortodossa, poté trasformarsi in Europa nella storia dei santi Ioasaf e Barlaam». L’introduzione al libro, ammette Ronchey, è anche un atto d’amore per la cultura bizantina. Come mai, allora, «bizantinismo» è oggi considerato un termine negativo? «La storia dell’Impero Romano d’Oriente è stata distorta dalla visione cattolica che ha dipinto Bisanzio come decadente. Ma può la decadenza durare dieci secoli? La verità è che quello bizantino fu un impero capace di integrare ed educare le élite dei popoli che annetteva. Quelli che noi chiamiamo barbari divennero parte integrante del potere, in un mescolamento di etnie e culture».
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L'Unità | 27/11/2012 | Il principe indiano fuori dal palazzo, Chiara Valerio
Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, a distanza di più di trent’anni, e senza «lo zelo giovanile», (auto)sanzionato in una nota, tornano su Barlaam e Joasaf (Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha, Nuova Universale Einaudi, 2012), aggiungendo così il loro personale tassello al libro-intarsio che ha raccolto, inglobato e ispirato le concrezioni di pensiero, ossessione ed estetica di schiere di studiosi, di appassionati e di scrittori. Non è falso tuttavia scrivere che al centro de la Storia di Barlaam e Ioasaf sta assiso un principe indiano che, rinchiuso dal padre in un palazzo meraviglioso perché non conosca dolore, vecchiaia e morte, e che, per questo, «ha ricevuto in sorte il dono dello stupore», sfugge al proprio destino di grazia e intraprende, forse scalzo, un cammino di conoscenza, di altrove e di solitudine. Non è falso, ma non è tutto, come si capisce per sempre leggendo il Buddha bizantino, l’introduzione di Ronchey che, sotto l’esergo da La tempesta di Shakespeare - «il passato è un prologo» - racconta con acribia filologica e nitida tensione narrativa quanto una storia - «la stringa genetica delle storie» - anticipi o segua certe migrazioni, di genti, di idee e di culti, di sistemi politici pure, e di quanto le intenzioni narrative - «perché la purezza non venga contaminata dalla cognizione del dolore» - nascano assolte ma attraverso il tempo e le conoscenze, si ibridino, diventino altro. Di quanto, per esempio, già per gli studiosi di fine ottocento la storia del Barlaam e Joasaf echeggiava quella del Buddha. Nella prefazione di Ronchey, l’eco diventa però un percorso dimostrativo di una somiglianza per ibridazione o per frequentazione. Questa dimostrazione potrebbe avere natura di filologia di glottologa, o di teologia e invece ha essenza narrativa. Perché, ancora, aggiunge un tassello, entrando così a comporre l’oltrevita di Barlaam e Joasaf, dove, finalmente «non si può smettere di sapere quello che si sa». E per questo, la ripubblicazione de La storia di Barlaam e Joasaf, con la nuova introduzione di Ronchey, è, in questo nostro fosco periodo di assenza di responsabilità e dunque di conseguenze, un gesto rivoluzionario.
Qual è il senso bizantino della parola «conoscenza»?
«La conoscenza è reminiscenza e trasmissione».
Chi è «il guaritore dei racconti»?
«Forse questo libro stesso, forse il suo autore, forse Bisanzio. Certo è l’incarnazione di una sapienza che sta nel curare le domande per guarire le risposte e, come sta scritto alla fine dell’introduzione, “far uscire il discorso dall’impasse in cui è caduto e guarire il dialogo malato, evitando il degenerare dei conflitti”. È una sapienza greca, socratica, e bizantina, platonica. Molte le applicazioni attuali della Terapia Bizantina».
Nel suo Il romanzo di Costantinopoli (Einaudi, 2010),lei parla di Costantinopoli come“ la città delle città”, come “una irregolare figura perfetta”, quanto «La storia di Barlaam e Joasaf» è la storia delle storie?
«Lo è stata sempre, e non solo a partire dalla riscoperta del buddhismo negli studi orientalistici ottocenteschi e di qui nella filosofia moderna. È uno dei pochi elementi comuni tra il Dna culturale orientale e occidentale. Così come di due braccia due gambe e una testa, l’essere umano è universalmente dotato della capacità di comprendere la sua vana condizione esistenziale al di là del velo delle apparenze. La “stringa originaria” della storia del principe Siddharta Gautama figlio di Suddhodana re Sakya di Kapilavastu fa parte del genoma culturale della specie». E perché? «Perché ogni storia parte dalla scoperta della morte, perché solo la vicinanza con la morte permette la vita, perché non si è vivi senza la morte e perché come cantava Caterina Caselli “si muore un po’ per poter vivere”».
Qualè il suo senso della conoscenza?
«Caccia grossa al dettaglio». Perché la cultura è riscritta? «Perché tutto è già stato scritto e come diceva l’Ecclesiaste non c’è nulla di nuovo sotto il sole».
Che differenza passa tra un intellettuale contemporaneo, come lei, e un intellettuale bizantino, come Eutimio?
«Siamo sulla stessa barca. Ci troviamo in condizioni simili, davanti a un archivio del sapere immenso. Nel X secolo bizantino è cambiato il “medium”, c’è stata una trascrizione completa di tutti i manoscritti antichi nella nuova scrittura, e quando c’è un cambiamento di “medium”, siamo in odore di rinascenza. La stessa cosa sta accadendo oggi con la digitalizzazione del sapere. D’altronde le vecchie vie di trasmissione sono bloccate. Con eccezioni, non funziona la scuola, non l’università, non l’editoria, non i giornali, ma nonostante questo siamo alla vigilia del sapere. Ogni minuscola biblioteca della provincia australiana o qualsiasi associazione di lettori ha messo online i libri - tutto tranne quello che è ancora sotto diritti - e ciò significa che un bambino di un villaggio indiano ha davanti la Biblioteca di Babele. Che ognuno di noi si trova davanti alla Biblioteca di Babele. E a parte il pessimismo sulla vita e sulla natura, io credo molto all’impegno politico ed etico, e credo che sia importante quando si parla di qual è la differenza dire che siamo intellettuali bizantini se vogliamo esserlo. Bisanzio è stata la grandissima astronave che ho portato tutta la tradizione classica, greca in particolare, attraverso i secoli. Possiamo leggere l’Iliade perché materialmente il libro è arrivato da Bisanzio. Il nostro rinascimento viene da lì, perché da lì sono arrivati i libri».
Chi è Eutimio?
«Un monaco, come me: un “monachòs”, un “solo”, il Solitario di Goethe».
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Il Giornale | 17/12/2012 | Quando Buddha divenne un santo cristiano, Luca Negri
Forse non tutti i cristiani né tutti i buddisti sanno che il Buddha è un santo cristiano. Addirittura cattolico, inserito nel Martirologio Romano dal 1583, in piena epoca segnata dalla Controriforma. Santa Romana Chiesa lo festeggia ogni 27 novembre sotto il nome di Ioasaf, in compagnia di un altro strano santo chiamato Barlaam. Poiché non mancano i buddisti cristianofobi (quasi tutti occidentali convertiti) e negli ultimi tempi sono spuntati cattolici troppo critici nei confronti del buddismo, è consigliata soprattutto a loro la lettura della Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha, appena pubblicata da Einaudi (a cura di Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, pagg. 308, euro 35). L'autore è ufficialmente anonimo ma molto probabilmente rispondeva al nome di Eutimio, monaco cristiano figlio di un dignitario di corte georgiano, istruito nella capitale dell'Impero Romano d'Oriente. Dopo un periodo di meditazione sul sacro Monte Athos, Eutimio scrisse nell'VIII secolo questa leggenda, e non è strano che il mondo bizantino, così aperto al sincretismo religioso fra buddismo, islamismo e cristianesimo, fra le tradizioni greche e romane, abbia partorito una storia così affascinante. La vicenda, in poche parole, è questa: a un re indiano che si diletta nel perseguitare cristiani, un astrologo predice che suo figlio diventerà un re ancora più grande, ma di un regno che onora il Cristo. Il padre decide così di rinchiudere il rampollo nel palazzo reale, fra ozi e piaceri, allo scopo di tenerlo all'oscuro dei fatti del mondo. Ma nel corso di qualche uscita clandestina il giovane incontra un lebbroso, un cieco, un vecchio decrepito. Di conseguenza, diventa consapevole della caducità e della fragilità umana. Sarà poi l'eremita Barlaam a convertirlo al Vangelo. A sua volta, il figlio, convertirà il genitore, dopo aver resistito agli assalti della carne e del diavolo. A parte il non trascurabile elemento della conversione al cristianesimo, sono veramente impressionanti le somiglianze con la leggenda che tramanda la vita del principe Siddharta che diventa il Buddha. Ed è così che il fondatore del buddismo entrò a pieno diritto fra i santi cristiani. Niente di strano, anche perché la sua dottrina non è propriamente una religione, bensì una filosofia, uno stile di vita che può essere propedeutico al cristianesimo non meno dell'ebraismo o di alcuni culti dell'antichità pagana. Oggi la leggenda di Ioasaf e dell'eremita Barlaam è poco conosciuta, ma durante il Medioevo ottenne molto successo: se ne trovano tracce nell'epopea cavalleresca, nelle sacre rappresentazioni, nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, la prima raccolta di vite di santi cristiani. L'eco del Buddha bizantino e degli apologhi contenuti nella sua storia giunge fino al Decameron di Boccaccio, alla Firenze rinascimentale, al teatro di Calderón de la Barca, alle pagine di Tolstoj ed Hesse. Anche l'Oriente ne fece tesoro, in primis i samurai giapponesi che vi trovarono motivi sufficienti per abbracciare Cristo ed affrontare il martirio.
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Il Manifesto | 22/12/2012 | Siddharta a Bisanzio , Marina Montesani
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Il Foglio | 28/12/2012 | Storia di Barlaam e Ioasaf - La Vita Biz…, Maurizio Stefanini
Narra la tradizione che Buddha fosse il figlio di un re, al quale era stato predetto che l’atteso erede sarebbe diventato un grande asceta. Volendo che fosse invece a sua volta un grande sovrano, il padre aveva fatto crescere il rampollo in mezzo alle comodità e al lusso, avendo cura in particolare che gli fossero celate accuratamente tutte le sofferenze della vita, dalla più piccola alla più grande. Ma un giorno il principe uscì dal suo palazzo per scoprire la realtà del mondo esterno, e si imbatté in un vecchio, in un malato e in un morto. Turbato, capì che gli agi e le ricchezze tra cui viveva non erano che un’illusione effimera. Decise così di rinunciarvi, per fare vita da eremita in cerca dell’illuminazione che permettesse di liberare l’uomo dalla sofferenza. “Certo che se fosse stato cristiano sarebbe stato un grande santo di Nostro Signore Gesù Cristo”, aveva osservato Marco Polo nel “Milione”, dopo aver narrato la storia del Buddha. Non sospettava che, in realtà, questa “annessione” era già avvenuta. Se ne accorse invece nel 1612 – a Goa, nel cuore dell’India colonizzata dai portoghesi – il cronista e storico Diogo do Couto, grande amico del massimo poeta Luís de Camões. Non c’erano dubbi: la storia di Buddha assomigliava in maniera impressionante a quella dei santi Barlaam e Ioasaf, che nel Tredicesimo secolo Jacopo da Varazze aveva inserito nella sua famosa collezione di vite dei santi passata alla storia come “Legenda Aurea”. Il principe indiano Ioasaf, al cui padre pagano e persecutore di cristiani viene predetto che il figlio si convertirà proprio a quella religione, vive lontano dalle miserie del mondo, in mezzo al lusso e ai piaceri. Ciò non gli impedirà tuttavia di venire a conoscenza di malattia, vecchiaia e morte, e sarà poi convertito dal santo eremita Barlaam. Diventato eremita egli stesso, convertirà al cristianesimo anche suo padre e tutti i suoi sudditi. L’idea di Diogo do Couto fu, in linea con i suoi tempi, che fossero stati gli indiani ad appropriarsi della storia cristiana. Al contrario, fu il santo Ioasaf a derivare da Bodhisattva, “l’essere che si incammina a diventare un Buddha”. L’adattamento della storia buddhista a un ambito cristiano avvenne nel VI secolo in persiano, per poi passare in siriaco e in arabo. Mentre dal XII secolo in poi l’opera ispirò in profondità la cultura occidentale, fino a Boccaccio, Shakespeare, Lope de Vega, Tolstoj e Hesse. Ma la grande mediazione spetta a questo testo bizantino redatto attorno all’anno Mille da un nobile georgiano di nome Eutimio. Figlio di un dignitario della corte di quel regno cristiano vassallo degli arabi, fu mandato come ostaggio a Costantinopoli, e volse questo testo dall’arabo in greco. Ma non lo tradusse soltanto: basti considerare la storia delle persecuzioni ordinate dal padre di Ioasaf, troppo somiglianti a quelle degli imperatori iconoclasti. Accanto alle parabole del Vangelo ci sono poi dieci apologhi tratti dalla favolistica orientale. I bizantinisti Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey non si limitano a riproporre il testo in una traduzione arcaizzante, e a rivelarne la complessa genesi. Silvia Ronchey ricostruisce un vero “romanzo filologico” che intreccia l’esegesi dei testi con alcuni punti cruciali dei rapporti, non solo culturali, tra oriente e occidente. La postfazione di Paolo Cesaretti studia invece il racconto di Barlaam e Ioasaf alla luce della lezione di Vladimir Propp e delle sue teorie sul folclore. Ne emergono peculiari “bizantinismi ideologici”: dal rapporto filiale tra Barlaam e Ioasaf che si rovescia quasi in ostilità, per l’invadenza del pupillo che vuole superare in ascesi il maestro, alla rivolta di Ioasaf contro il padre Abenner, che evoca la rivolta di Adamo contro Dio.
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il Sole 24 Ore | 13/01/2013 | Buddha, santo cristiano, Gianluca Briguglia
Nella vasta area multiculturale e multietnica dell’impero bizantino, tra il X e l’XI secolo, il nobile georgiano Eutimio, monaco ed eremita del monte Athos, traduceva in greco l’agiografia georgiana di due personaggi straordinari, Barlaam e Ioasaf. In quell’ambiente di integrazione e scambio tra culture, non stupisce naturalmente che un nobile circasso come Eutimio – che prima di abbracciare il monachesimo era stato ostaggio a Bisanzio, in seguito alle complesse relazioni tra impero bizantino e nobilità georgiana – avesse compreso da molto tempo che tradurre dal greco al georgiano scritti come i commenti ai vangeli di Giovanni Crisostomo o i testi di Basilio il Grande, o come molti classici della letteratura e della filosofia, quasi settecento operein tutto, fosse un’operazione importante e anzi fondamentale per il suo Paese d’origine . Ma in fondo non deve stupire neppure che, almeno nel caso della Vita di Barlaam e Ioasaf, egli abbia compiuto l’operazione inversa, cioè rendere disponibile al mondo greco-bizantino le vicende favolose di quel Ioasaf, già considerato santo in Georgia, che riecheggiavano «dalle più remote plaghe della Terra degli Etiopi, detta anche degli Indiani». Non si trattava però di una traduzione nel senso che abbiamo oggi noi del termine, ma di un vero passaggio tra culture, di una rinarrazione, arricchita della sapienza e di temi bizantini, con aggiunte tratte da Giovanni Damasceno, o ispirate ai Padri della Cappadocia, con allusioni alla vicenda iconoclasta, con l’assunzione di temi della cultura monastica e delle esperienze eremitiche. E a ben vedere, noi oggi lo sappiamo, il Balavariani, cioè l’agiografia georgiana tradotta da Eutimio, non era il racconto fiabesco della vita di un santo cristiano proveniente dall’India e dell’eremita che lo convertì, ma addirittura la versione cristianizzata della vita del Buddha. La vicenda del resto è chiaramente riconoscibile. Il figlio di un re viene costretto dal padre a vivere all’interno del palazzo reale, con una vita dolce e agiata, senza vera conoscenza dell’esterno. Il re vuole così impedire che a contatto con il mondo si possa verificare la profezia espressa al momento della nascita del principe, secondo la quale egli sarebbe divenuto un asceta (nella versione cristianail principe è destinato a diventare cristiano, mentre il padre, pagano, è un crudele persecutore di monaci e ha messo al bando il Cristianesimo). Ma il figlio, ormai adulto, ottiene di poter uscire dal palazzo almeno una volta e scopre con sgomento che esistono la malattia, la vecchiaia e la morte. Comincia così il suo risveglio, o la sua conversione, assecondata nella variante cristiana dall’incontro con l’eroico eremita Barlaam. Quella storia meravigliosa, riconoscibile ma porosa e sempre arricchita di nuovi dettagli e vicissitudini, come una favola sempre aperta, era arrivata nel regno caucasico peril tramite complesso e affascinante della mediazione islamico-ismailitica e persiana, che alla figura del bodhisattva indiano, che diventa appunto il Ioasaf cristiano – e che appare come una sorta di santo islamico, e in alcune varianti con i tratti di un vero e proprio Gesù indiano – aggiungeva la figura del maestro eremita, Bilawahr, il nostro Barlaam. Dopol’edizione critica del testo a opera di Robert Volk, del 2009, la storia di Barlaam e Ioasaf è ora disponibile e ritradotta initaliano grazie al bel lavoro di Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, che non solo aggiornano sul nuovo testo critico la loro classica traduzione, ma la corredano di un commento a piè di pagina, di una ricchissima introduzione, Il Buddha bizantino, di Ronchey, e di una dotta post fazione,Note sulla fiaba di Barlaam e Ioasaf, di entrambi i curatori. L’introduzione ha tra i tanti pregi anche quello di restituire la complessità delle mediazioni culturali e religiose che hanno accompagnato la leggenda della vita del bodhisattva indiano fin dentro la koiné bizantina, che a sua volta viene illuminata nei suoi caratteri di fusione di tradizioni, di circolazione di arti, di merci, di etnie, cioè nel disegno di assimilazione culturale e sociale che rappresenta la grande strategia millenaria di Bisanzio. E se il passaggio multiplo e vertiginoso dall’India alla koiné è iranico-islamico-georgiano, Ronchey mostra anche come dal testo greco l’agiografia si irraggia un’infinità di altre lingue e tradizioni, lo slavo ecclesiastico, che diventa il tramite per il russo e il serbo, e naturalmente il latino, ma anche l’occitano, il francese, il tedesco medievale, l’inglese, lo spagnolo, ma ancora l’arabo, l’etiopico, l’ebraico, il siriaco, fornendo materia per ulteriori elaborazioni ed esperienze letterarie e spirituali e filtrando fino dentro la letteratura moderna e contemporanea. È un mondo aperto, quello che la storia della diffusione di questa leggenda ci riconsegna. Ed è il modello di risveglio, rinascita, conversione, che la vita del Buddha riesce a raccontare con una incredibile capacità osmotica, come un percorso tra culture che a ogni passaggio si impossessa di elementi nuovi per renderli comuni, ma interpretabili diversamente a seconda del luogo di accoglienza. Se l’Occidente si appropria allora, per il tramite di Bisanzio e senza saperlo, della vita di Buddha, lo fa addirittura nelle forme canoniche della santità. Ioasaf/Buddha è incluso nel catalogo dei santi nel Cristianesimo georgiano già dal 1044 e successivamente riconosciuto, insieme a Barlaam, questo Siddharta dalle fattezze eremitiche, in tutto il mondo greco-ortodosso. E la Chiesa cattolica li inserisce entrambi nel martirologio nel 1583, in piena Controriforma, al giorno 27 novembre. Quando Marco Polo, alla fine del XIII secolo, viene a contatto nel suo viaggio in Oriente con il buddhismo non può fare a meno di dire che se Buddha fosse stato cristiano «sarebbe stato un grande santo». Quello che non sa è cheBuddha è già cristiano, anzi bizantino, e che presto sarà anche un santo cattolico.
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Avvenire | 19/01/2013 | L’atteso ritorno del Buddha venuto da Bi…, Franco Cardini
Celebriamo con gioia un grande ritorno, un’opera della quale si cominciava ormai, oltre un trentennio dopo la sua prima edizione, a sentire la mancanza. Nel 1980, Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti pubblicavano per i tipi della Rusconi una Vita bizantina di Barlaam e Joasaf che fu un grande successo e nella quale era facile identificare i tratti della leggenda relativa alla vita del Buddha, trasformato in santo cristiano. Da allora, gli studi orientalistici e le ricerche sulle varie forme di acculturazione buddhistico-cristiano-musulmana hanno fatto sostanziosi progressi, tradotti in un’imponente bibliografia e in una intricata avventura testuale. La Ronchey e il Cesaretti hanno fatto stoicamente di necessità virtù: e si ha in ultima analisi l’impressione che, riscrivendo completamente il loro lavoro del 1980, si siano perfino divertiti. È comunque senza dubbio meritoria questa loro Storia di Barlaaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha che esce adesso nella prestigiosa «Nuova Universale Einaudi» e che ci fornisce una versione della leggenda bizantina molto diversa da quella del 1980. La leggenda nasce nel mondo bizantino del X- XI secolo e presto entra anche nel circolo dei racconti riferiti o riassunti in Occidente fino a ispirare Giacomo da Varazze, Giovanni Boccaccio e Shakespeare, mentre in Russia giunge a interessare Tolstoj. La leggenda indiana della vita del Buddha approdò a Bisanzio attraverso strade intricate, che passavano per il Caucaso e per il Monte Athos, ma che soprattutto erano state smistate attraverso testi musulmani di segno sciita- “ismailitico, eterodosso rispetto allo sciismo maggioritario.
È molto diffusa nel mondo di oggi una sommaria koiné buddhista, sostenuta da molti luoghi comuni di quelli alimentati da la cultura new age, che sembra contrapporre alla spiritualità cristiana, ritenuta frusta e superficiale, una ben altrimenti profonda, rigogliosa e radicale cultura buddhista, la quale sarebbe addirittura più adatta del cristianesimo ad affrontare i problemi esistenziali e a diffondere una visione “umanitaria” ispirata all’amore e alla compassione. Il testo studiato dalla Ronchey e dal Cesaretti dimostra che, al contrario, tra buddhismo, Islam e cristianesimo la circolazione dei testi e delle tematiche, quindi il dialogo fatto di articolazioni e di differenze, ma anche di elementi comuni, era molto antica.
La vicenda di Barlaam, come quella del Buddha che è effettivamente il suo modello, racconta di un principe indiano che, fuggendo dalla falsa gioia e dalla ingannevole perfezione del palazzo paterno nel quale non esistono né male né dolore, s’incontra al contrario con l’uno e con l’altro che signoreggiano il mondo e attraverso la loro contemplazione e il loro superamento giunge alla perfezione ascetico-mistica. La ricchezza di questo testo e la significativa importanza delle digressioni – secondo una tecnica che per molti versi ricorda, e non a caso, Le Mille e Una Notte – lo rendono un modello fondamentale della letteratura agiografica cristiana sia orientale sia occidentale e ci aiutano a cogliere quella sostanziale omogeneità culturale che prima dell’età moderna, attraverso la pluralità delle tradizioni e la complessità delle variabili, ha caratterizzato la cultura eurasiatica.
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Corriere della Sera | 07/02/2013 | Vita “cristiana” del Buddha, Alberto Melloni
ll titolo appropriato Storia di Barlaam e Ioasaf dice poco a pochi. Il più antico manoscritto che ce la tramanda è del 1021 ed è a Kiev; il suo parente più stretto all’Athos; l’altro del 1064 ad Oxford. Ancora negli anni Cinquanta dello scorso secolo la si credeva opera di Giovanni Damasceno, ed oggi dopo che padre Bonifatius Koetter e Robert Volk gli hanno dedicato una vita di studi, lo scrigno di questo «romanzo» si apre con tutto il suo carico di mistero e di fascino. «La vita bizantina del Buddha» (Einaudi, pp. CXXVI+314, e 35) svela il sottotitolo della edizione traduzione italiana di Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti: ma anche questa anticipazione del finale non lascia sospettare l’intreccio magico di vie e visioni che questo racconto consegna a chi legga la sontuosa introduzione e la inappuntabile traduzione di questo che è davvero un «libro» nel senso forte della parola.
Forse è lo schematismo mentale e la povertà interiore a cui siamo assuefatti; forse è colpa (sì, colpa) delle religiosità ipocrite e degli stucchevoli manierismi agnostici che danzano insieme sul bordo dell’abisso dell’assurdo; forse è solo l’ignoranza crassa partorita dallo stupidario d’una ricerca che a forza di cercare ricadute, cade rovinosamente su se stessa: ma per entrare negli strati della sua vicenda e dei suoi significati serve davvero quel piccolo oggetto al quale consegniamo un po’ di tempo e che in cambio ci restituisce il filo di secoli e di mondi. Mondi che iniziano nel X secolo in Bitinia. Eutimio, formatosi culturalmente a Bisanzio dov’era stato inviato come ostaggio, raggiunge il padre, già passato a vita monastica dai ranghi dei nobili georgiani (detti ivèri): dopo che un monaco georgiano guida la vittoria sull’usurpatore al trono di Costantinopoli Barda Sclero nel 963, questa etnia viene premiata con la costruzione di un monastero all’Athos (detto appunto Ivrion), di cui il provetto traduttore Eutimio diventa igumeno al posto del padre verso il 1005. Egli conosce una versione georgiana del Balavariani, un romanzo tradotto sulla base di una versione araba del 775-785: e produce così la versione greca della storia di un principe segregato che incontra il dramma del mondo e lo decifra con l’aiuto dell’eremita Bilawhar (Balavar in georgiano, infine Barlaam).
Eutimio non sa che sta spostando verso occidente un racconto che aveva già reso la vita del Buddha un apologo per dotti musulmani ismaeliti e che sotto la sua penna diventa una «cristianizzazione» di quell’originale ormai lontano: ma sa che per rendere quella storia asciutta palatabile ai suoi lettori bizantini deve creare una struttura narrativa, creare un po’ di suspense e inserire qua e là altri estratti di spiritualità e morale che commuovano il suo lettore.
Il risultato ottenuto da Eutimio è straordinario, e la fortuna sia di quella sua versione sia delle sue fonti lo testimonia. Chi infatti abbia la pazienza di affrontare quello che a prima vista è un normale testo di esortazione spirituale, solo dopo aver letto la ricca e dotta presentazione di Silvia Ronchey troverà, frase dopo frase, le ragioni di un’avventura editoriale e culturale piena di suggestioni, dall’edizione di Teheran del 1883 a quella prodotta a Bombay sei anni dopo. Mentre si alzava la torre dell’ingegner Eiffel quelle edizioni giravano l’Oriente. Edizioni che, con pochi tocchi, facevano diventare Budasaf un Iudasaf, anzi Ioasaf, cioè un Gesù indiano nel quale si rispecchia, sullo scorcio del secolo XIX, il santo Mirza Ghulam Ahmad, che in quelle pagine rivela la profezia della sua missione di Ben Guidato, purificatore dell’islam, Messia chiamato a portare le religioni alla perfezione. Da questa tradizione deriva la citata versione georgiana e gli intrecci globali che, secondo me, è sbagliato catalogare come espressioni di un «sincretismo».
Questa storia, infatti, non ci parla di una sintesi costruita fra elementi consapevoli di sé: ci dice, al contrario, che nella vita del Buddha sia i musulmani che i cristiani trovano dei significati essenziali: nella storia del principe protetto che si misura con la miseria umana trovano un percorso che si inserisce nel sistema dottrinale di ciascuno senza contraccolpi. E che, alla fine, esalta quel fondo ascetico-spirituale che gli uomini di Dio condividono sempre, specie dentro la forma del monachesimo. Questa vita «cristiana» del Buddha, dunque, può essere letta come un romanzo di mondi lontani ed esoticamente remoti: ma dice anche che le molte vie della fede possono essere percorse non per una compiacenza allo spirito dei tempi di questa età (così distante da quello del secolo X all’Athos...), ma per una sete interiore da alimentare con ogni cura, come se la sete fosse l’unica cosa che irriga le aridità dell’ultimo.
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L'Eco di Bergamo | 30/04/2013 | Quando Buddha diventò cristiano, Giulio Brotti
Un re indiano tiene rinchiuso dalla nascita il suo unico figlio (di nome Josafat, o Ioasaf, secondo le versioni della storia) in un palazzo, per evitare che egli venga a contatto con la sofferenza, la vecchiaia e la morte. Un giorno, però, il giovane ottiene finalmente il permesso di lasciare la reggia, e si imbatte in un lebbroso e in un cieco. Durante una seconda uscita, poi, incontra un vecchio, curvo sulle gambe malferme, sdentato, la voce tremante; gli accompagnatori del principe gli spiegano allora che nessuno può sfuggire alla vecchiaia e che tutti, alla fine, devono morire. A questo punto egli si apparta, angosciato e pensoso, finché non gli appare un santo eremita, Barlaam, che gli dischiude una più alta visione dell’esistenza, quella testimoniata nel Vangelo. Non vi ricorda nulla, questo racconto? Se si fa eccezione per la conversione al cristianesimo del protagonista, la vicenda che abbiamo appena riassunto assomiglia straordinariamente a quella di Siddhartha Gautama, il Buddha, nel periodo precedente il suo «risveglio» e l’inizio della predicazione; e, in effetti, la leggenda cristiana «dei Santi Barlaam e Josafat» rimanda attraverso una lunga serie di traduzioni e riscritture – dall’India all’Iran, dalla Georgia a Costantinopoli – a un originale buddhista: man mano che ci si sposta verso Oriente, Josafat diviene un sufi islamico o un asceta manicheo, e il suo nome cambia in Budasaf o in Bodisav, per arrivare alla forma sanscrita originaria «Bodhisattva» («Colui che ha conseguito l’illuminazione»: uno degli appellativi tradizionali, appunto, del Buddha). Allo stesso modo, ha conosciuto un’enorme fortuna uno dei «racconti nel racconto» narrati dall’eremita Barlaam a Josafat, per indurlo a riflettere sulla precarietà della vita terrena: vi si narra il caso di un uomo che, caduto in un burrone, incomincia a gustare il miele che stilla dai rami di un arbusto, incurante del drago che, più sotto, si appresta a divorarlo (tra le molte raffigurazioni di questo tema, è celebre l’«Allegoria della vita» scolpita da Benedetto Antelami nella lunetta del portale meridionale del Battistero di Parma). La vita bizantina del Buddha «Storia di Barlaam e Ioasaf. La Vita bizantina del Buddha» (Einaudi, pp. CXXIV-314, 35 euro) è il titolo di uno splendido volume curato dai bizantinisti Paolo Cesaretti, docente dell’Università di Bergamo, e Silvia Ronchey, dell’Università di Roma Tre, che sarà presentato presso la Fiera dei Librai oggi alle 16, in un incontro compreso nel calendario di UniBergamoRete, a cui prenderanno parte lo stesso Cesaretti, il latinista Francesco Lo Monaco e Giovanna Parravicini della Fondazione Russia Cristiana. Il libro comprende la versione integrale di una «vita di Barlaam e Ioasaf» redatta da Eutimio, un monaco georgiano del Monte Athos, a cavallo dell’anno Mille: a partire da questa prima trasposizione nella letteratura bizantina dell’originario modello buddhista, «la storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del medioevo globale», scrive Silvia Ronchey nell’ampio saggio introduttivo al testo, proposto in una nuova edizione rivista rispetto a quella pubblicata da Rusconi nel 1980. «Undici secoli di storia di Bisanzio – ci spiega la Ronchey – smentiscono il pregiudizio per cui l’Europa avrebbe avuto una storia autonoma, contrapposta a quella dell’Asia. L’impero bizantino rappresentò, per così dire, un grande mulino, in cui si mescolavano lingue, culture, religioni. È anche significativo che, dopo la dissoluzione dei due grandi imperi eredi di Bisanzio, quello turco e quello russo – considerando pure la sua versione "sovietica" – le aree dei Balcani, del Caucaso e del Medio Oriente siano divenute teatro di conflitti etnici sanguinosi». «A confutare l’ideologia corrente dello "scontro di civiltà" – prosegue la storica –, dobbiamo constatare che tra l’Europa e l’Asia si sono prodotti fecondi incontri di popoli e di culture. Gli scambi sono avvenuti in entrambe le direzioni. Pensiamo all’arte sviluppatasi negli attuali Pakistan e Afghanistan dopo che queste regioni furono conquistate dall’esercito di Alessandro Magno: nello stile Gandhara i temi buddhisti si mescolavano con motivi tipici della statuaria greca». La «fecondità» di una storia Paolo Cesaretti, da parte sua, si sofferma sui motivi della straordinaria «fecondità» della storia di Barlaam e di Ioasaf, in contesti culturali così diversi: «Che una fiaba sia produttiva di sempre nuove riprese e riscritture – egli afferma – non deve stupire. Nessun romanzo, nemmeno il più riuscito, può avere lo spettro di risonanza proprio delle narrazioni mitiche e fiabesche, che si svolgono di necessità in un "al di là" del tempo e dello spazio. Il loro "c’era una volta" va inteso come un "c’è, c’è stato, ci sarà"; e non "qui" o "lì", ma ovunque. Con il suo Palazzo incantato, con la figura del Padre che pone un divieto, con il figlio che lo trasgredisce, e così facendo scopre se stesso e il mondo, la storia del Buddha offre una struttura fiabesca perfetta, tale da poter sostenere infinite variazioni». «Quanto all’apologo del viandante caduto nel burrone – prosegue Cesaretti –, il testo bizantino interpreta l’elemento del miele gustato dall’uomo come il simbolo dell’"inganno della vita presente", ovvero dei piaceri sensuali, che ci distoglierebbero dal pensiero della morte e dell’aldilà. Altrove però si proposero letture diverse, per esempio nella tradizione dello zen giapponese, dove saper concentrarsi sulla dolcezza del miele, nonostante la situazione – o forse proprio data la situazione di pericolo –, è indice di sapienza, della capacità di mantenersi liberi da ogni condizionamento per vivere appieno l’attimo presente».
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La Sicilia | 05/05/2013 | Quella sapienza orientale che per un mil…, Sergio Caroli
La versione bizantina della storia di Barlaam e Ioasaf ha tenuto a battesimo tutte le storie cristianizzate di Buddha. Redatta intorno al Mille, narra le vicende di Ioasaf, figlio del re dell’India Abenner, persecutore dei cristiani. Indovini profetizzano che dovrà un giorno governare il regno e mutarne la fede. Il re rinchiude in uno splendido palazzo il figlio, circondandolo di piaceri d’ogni specie: vuole sottrarlo a ogni nozione di peccato, malattie e morte; finché un giorno, uscito all’aperto, il giovane vede un lebbroso, un cieco e un vecchio e scopre l’esistenza della morte. Giunge allora al palazzo un anacoreta di nome Barlaam, dal quale apprende la dottrina cristiana, per lui nuova, e viene battezzato. Alla partenza di Barlaam, nonostante prove e ostacoli, Ioasaf persevera e converte al cristianesimo - anche grazie a una disputa pubblica - sia il regno che ha ereditato sia il padre Abenner. Alla fine il principe si fa eremita e raggiunge nel deserto il maestro Barlaam per condividere con lui l’ascesi. La narrazione fu diffusissima nel medioevo nelle culture d’Europa e d’Asia, e la nuova edizione italiana della versione bizantina, a cura di Paolo Cesaretti e di Silvia Ronchey, esce ora nella Nuova Universale Einaudi (“Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha”, euro 35) sulla base del testo critico pubblicato nel 2009 da L Robert Volk, che ha indotto i curatori a rivedere e accrescere la loro precedente versione (1980).
Professoressa Ronchey, nel suo ampio saggio introduttivo lei fa riferimento a Max Müller, lo studioso di fiabe che nel 1870 parlò a Londra di “Barlaam e Ioasaf”. Perché è importante?
«Max Müller contribuisce allo studio dell’origine della vita bizantina del Buddha ma, essendo scrittore, conferenziere, viaggiatore, uomo di mondo cosmopolita oltre che studioso, è il più affascinante e originale portavoce delle proprie conoscenze orientalistiche e di quelle dei suoi predecessori e colleghi. In quanto tale, lo considero uno dei protagonisti della storia di questa “storia delle storie” che è la vita del Buddha e del suo passaggio a occidente, che era tuttavia avvenuto ben prima, come illustro nel mio saggio».
Lei scrive che il “Barlaam e Ioasaf” “è seta lavorata a damasco”. Perché?
«C’è nel testo greco-bizantino un impalpabile, cangiante lavoro di tessitura di citazioni colte - letterarie, filosofiche, teologiche - dissimulate nell’impianto apparentemente elementare della storia del bodhisattva Ioasaf. Forse Eutimio non fu il solo a lavorarci: forse furono più d’uno ad alternarsi al telaio, in una gara di sapienza e bravura simile ad alcuni dei giochi di società praticati alla corte di Costantinopoli e nelle dimore delle sue cerchie intellettuali».
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Gazzetta di Parma | 09/05/2013 | L'Oriente sedusse l'Occidente, Sergio Caroli
I due studiosi: «Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita segreta del Buddah» redatta intorno al Mille fu un «Siddharta» ante litteram elevato a potenza: influenzò Boccaccio, Shakespeare e altri autori.
La versione bizantina della storia di Barlaam e Ioasaf ha tenuto a battesimo tutte le storie cristianizzate di Buddha. Redatta intorno al Mille, narra le vicende di Ioasaf, figlio del re dell’India Abenner, persecutore dei cristiani. Indovini profetizzano che dovrà un giorno governare il regno e mutarne la fede. Il re rinchiude in uno splendido palazzo il figlio, circondandolo di piaceri d’ogni specie: vuole sottrarlo a ogni nozione di peccato, malattie e morte; finché un giorno, uscito all’aperto, il giovane vede un lebbroso, un cieco e un vecchio e scopre l’esistenza della morte. Giunge allora al palazzo un anacoreta di nome Barlaam, dal quale apprende la dottrina cristiana, per lui nuova, e viene battezzato. Alla partenza di Barlaam, nonostante prove e ostacoli, Ioasaf persevera e converte al cristianesimo - anche grazie a una disputa pubblica - sia il regno che ha ereditato sia il padre Abenner. Alla fine il principe si fa eremita e raggiunge nel deserto il maestro Barlaam per condividere con lui l’ascesi. La narrazione fu diffusissima nel medioevo nelle culture d’Europa e d’Asia, e la nuova edizione italiana della versione bizantina - a cura di Paolo Cesaretti, professore di Civiltà bizantina all'Università di Bergamo e Silvia Ronchey, professore di Storia bizantina all’Università di Siena - esce ora nella Nuova Universale Einaudi («Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha») sulla base del testo critico pubblicato nel 2009 da Robert Volk, che ha indotto i curatori a rivedere e accrescere la loro precedente versione (1980). Sono a colloquio con i due studiosi.
Professor Cesaretti, in quali elementi coglie i valori stilistici del romanzo?
L’opera è una leggenda agiografica, una somma teologica, un trattato di psicologia, nel rapporto Ioasaf - Abenner - Barlaam. E’ anche una raccolta di fiabe orientali inserite nella narrazione ora per alleggerirla, ora per indirizzarla. La «fusione» dei diversi elementi ci mostra uno scrittore sommo, identificato solo dopo mille anni.
In che modo si è di recente dimostrato che autore dell’opera è Eutimio di Iviron? Chi era?
Vissuto dal 955 al 1028, Eutimio era un nobile georgiano, che nel 1005 successe al padre Giovanni alla guida del monastero dei Georgiani (a Bisanzio si chiamavano Iberi: di qui «Iviron»), fondato sul monte Athos proprio dal padre. Forse per reticenza monastica, Eutimio fece di tutto perché il testo nascondesse la sua paternità. Ma già a fine Ottocento le affinità dell’opera con una precedente versione elaborata in ambito georgiano avevano indirizzato le ricerche; oggi il conforto delle tecnologie informatiche di cui si è avvalso Volkad esempio, i parallelismi tra il «Barlaam e Ioasaf» e le opere teologiche e agiografiche bizantine del X secolo - toglie ogni dubbio.
Filtra nel romanzo la spiritualità di Bisanzio intorno al Mille?
La cultura bizantina dissimula bene le sue trasformazioni e offre un’im - pressione di immutabilità, ma è tutto solo apparente. Proprio negli anni del «Barlaam e Ioasaf» Bisanzio cominciò a cristianizzare il principato di Kiev: non finzione letteraria ma fatti della storia, e di enorme influsso.
Professoressa Ronchey, nel suo ampio saggio introduttivo lei fa riferimento a Max Müller, lo studioso di fiabe che nel 1870 parlò a Londra di «Barlaam e Ioasaf». Perché è importante?
Max Müller contribuisce allo studio dell’origine della vita bizantina del Buddha ma, essendo scrittore, conferenziere, viaggiatore, uomo di mondo cosmopolita oltre che studioso, è il più affascinante e originale portavoce delle proprie conoscenze orientalistiche e di quelle dei suoi predecessori e colleghi. In quanto tale, lo considero uno dei protagonisti della storia di questa «storia delle storie» che è la vita del Buddha e del suo passaggio a occidente, che era tuttavia avvenuto ben prima, come illustro nel mio saggio.
Perché scrive che il «Barlaam e Ioasaf» «è seta lavorata a damasco»?
C’è nel testo greco-bizantino un impalpabile, cangiante lavoro di tessitura di citazioni colte — letterarie, filosofiche, teologiche — dissimulate nell’impianto apparentemente elementare della storia del bodhisattva Ioasaf. Forse Eutimio non fu il solo a lavorarci: forse furono più d’uno ad alternarsi al telaio, in una gara di sapienza e bravura simile ad alcuni dei giochi di società praticati alla corte di Costantinopoli e nelle dimore delle sue cerchie intellettuali.
Non pochi scrittori europei che ne sono rimasti affascinati e influenzati…
La storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del medioevo globale, un «Siddharta» ante litteram elevato a potenza. Raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime «chansons de geste», ai poemi epici medievali. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il «Novellino» si trasmetterà al «Decameron» di Boccaccio. Attraverserà i confini settentrionali dell’Europa e arriverà fino al teatro di Shakespeare. Nel Seicento vedrà la sua massima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo «Barlán y Josafá», per il cui tramite il giovane principe isolato dal mondo e assorbito nel sogno troverà il più completo ritratto occidentale ne «La vida es sueño» di Calderón de la Barca. Sarà attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha — questa leggenda dalle mille facce, questo punto dello spazio letterario che contiene tutti gli altri punti, proprio come l’Aleph di Borges — si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca e troverà ancora interpreti in Hugo von Hofmannsthal e in Marcel Schwob.
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Medioevo | 01/06/2013 | Una lettura dolce come il miele, Marisa Ranieri Panetta
Un’ambientazione degna delle Mille e una notte trasporta il lettore in un Medioevo «multiculturale», nel quale si fondono tradizioni orientali d’impronta buddhista e novella cristiana. È questa l’atmosfera trasmessa da una nuova edizione della Storia di Barlaam e Ioasaf. Una lettura dolce come il miele.
Per milioni di Occidentali, l’incontro con la visione buddhista del mondo – con quella speciale vicenda interiore di rinuncia e di ascesi, di nuova appropriazione di sé per esiti pacifici – è stato favorito dalle pagine del fortunato Siddharta, il romanzo che lo scrittore tedesco Hermann Hesse pubblicò nel 1922. Ma la cultura che definiamo occidentale si era già misurata con la vicenda del Buddha intorno all’anno Mille. In quell’epoca, presso la recente fondazione monastica del Monte Athos, un monaco georgiano di illustri natali, Eutimio, aveva ripreso la vicenda dell’Illuminato (originaria del V secolo a.C. e arrivata nell’Egeo attraverso innumerevoli filtri orientali), e l’aveva riplasmata in una «storia edificante cristiana» secondo i canoni dell’agiografia bizantina in lingua greca. Il Bodhisattva e l’asceta Da queste premesse ha origine la Storia di Barlaam e Ioasaf, volume destinato non solo agli appassionati di cultura bizantina, ma anche a chi voglia indagare sui rapporti culturali e religiosi tra Oriente e Occidente, e a chi auspichi, come già in passato è avvenuto, il dialogo e la convivenza pacifica tra i seguaci di credi diversi. Il racconto, che si svolge in un’atmosfera da Mille e una notte, ha come protagonisti Ioasaf (il «Bodhisattva»), recluso dal padre in un palazzo incantato per essere protetto dai mali del mondo, e Barlaam: un asceta che riesce a intrufolarsi nel palazzo sotto mentite spoglie per fargli arrivare la «perla preziosa» della buona novella cristiana. La sostanza di una notevole impalcatura teologica, un bel piglio narrativo, l’inserimento felice di mirabili fiabe (apologhi) di matrice orientale, vengono amalgamate da Eutimio per dare vita a una narrazione impareggiabile che ambisce a essere «utile all’anima». Tradizioni a confronto In essa si coglie, oltre a un talento letterario raro, anche il carattere «meticcio» di un Medioevo aperto, capace di mettere a confronto e di fondere con esiti inattesi tradizioni diverse. Tanto che la fiaba (o Storia) di Barlaam e Ioasaf ebbe grande fortuna anche dopo Eutimio (Jacopo da Varazze, Marco Polo, Lev Tolstoj e innumerevoli altri). Il testo era già stato tradotto nel 1980 da Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, che in questa recente e pregevole edizione Einaudi lo ripropongono in una nuova veste, arricchita dai più recenti contributi critici (spiccano quelli di Robert Volk, che risultano decisivi per l’attribuzione dell’opera a Eutimio). L’ampio saggio introduttivo di Silvia Ronchey consente anche al lettore non specialista di seguire l’evoluzione del nucleo narrativo, dalle versioni orientali della vita del Buddha alla prima cristianizzazione georgiana (da cui dipese Eutimio), e oltre. Traduzioni, note al piè e apparati sono invece stati rivisitati da Paolo Cesaretti con un lavoro puntuale e prezioso, che conferisce alla resa italiana una piacevole patina arcaizzante. Resta l’emozione di questa storia: riprendendo le parole di uno dei memorabili apologhi che in essa sono raccolti, potrebbe definirsi un invito a «concentrarsi sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele» che solo la lettura sa dare.
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L'Indice | 01/07/2013 | Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita biza…, Tommaso Braccini
L’ anonimo lettore di un manoscritto veneziano quattrocentesco del Milione di Marco Polo, imbattendosi in una delle prime menzioni del Buddha, pensò bene di vergare una nota “comparativa” a margine: “Questo asomeia alla vita de san Ioasaf (…) segondo chome se legie nella vita e llegenda di sancti padri”. Per tutto il medioevo e anche oltre, infatti, la popolarità del romanzo agiografico di Barlaam e Ioasaf fu immensa in tutta la cristianità, come dimostra la sua presenza nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine e in infiniti altri repertori e leggendari dei santi. La storia presenta effettivamente personaggi e situazioni di raro fascino: un giovane principe, Ioasaf, tenuto prigioniero dal padre in un principesco palazzo per risparmiargli la conoscenza delle brutture del mondo; il suo desiderio di conoscere che cosa c’era al di là delle mura della reggia, e lo sconvolgimento nel momento in cui prende coscienza della malattia, della vecchiaia, della morte; il successivo percorso di meditazione e illuminazione, guidato dalle sagge parole del monaco Barlaam, che convertirà il giovane alla religione cristiana. Si tratta di una vicenda così esemplare ed edificante che, nonostante i dubbi di ecclesiastici ed eruditi (Roberto Bellarmino e Leone Allacci) sulla sua veridicità, il principe e il suo mentore furono innalzati alla gloria degli altari. Addirittura, la Vita de san Ioasaf finì paradossalmente per entrare nel bagaglio catechistico con cui i gesuiti in missione in Oriente cercarono di convertire i buddisti della Cina e del Giappone. La storia, dunque, era tornata al punto di partenza: perché è chiaro, come già nell’Ottocento ci si era resi conto, che la vicenda dei due santi cristiani costituisce la trasposizione della vicenda del Buddha (al punto che lo stesso nome Ioasaf deriva, attraversi vari passaggi, da “Bodhisattva”). In Occidente era giunta da Bisanzio, dov’era nota come Storia di Barlaam e Ioasaf, chiosata nei manoscritti come “Storia utile all’anima, recata dalle più remote plaghe della terra degli Etiopi, detta anche degli Indiani”. Proprio di questo raffinato e importante testo greco Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey avevano fornito già nel 1980 la prima edizione italiana, perfettamente in linea con le conoscenze e le acquisizioni dell’epoca. In quegli anni, infatti, si ignorava ancora chi ne fosse l’autore (spesso era evocato il nome di un Padre della chiesa, Giovanni Damasceno), e anche sulla datazione c’era un ampio margine di incertezza, per quanto spesso si pensasse all’epoca della controversia iconoclastica, nell’VIII secolo. In trent’anni il panorama è completamente cambiato. Lo spartiacque è costituito dalla nuova edizione di Robert Volk (2006), accompagnata da monumentali prolegomeni (2009). Attraverso un uso sistematico e raffinatissimo tanto degli strumenti più antichi della filologia testuale, quanto di quelli più moderni (in particolare le banche dati informatizzate), Volk ha demolito le speculazioni precedenti ed è stato in grado di dimostrare che la Storia bizantina di Barlaam e Ioasaf è opera di Eutimio il Georgiano (955-1028). Si trattava di un colto monaco circasso di ottima famiglia, educato a Costantinopoli e attivo nel monastero di Iviron sul Monte Athos, di cui sarebbe divenuto anche igumeno (abate). Fu lui a tradurre in greco il Balavariani, la versione georgiana del racconto, a sua volta tradotta dall’arabo, che probabilmente la riprendeva dal persiano, a sua volta derivato da un originale indiano. Questa scoperta, una vera rivoluzione copernicana che getta finalmente luce su una delle opere fondamentali nella storia della spiritualità (nell’introduzione al volume la si definisce non a caso “deposito di saggezza interconfessionale” e “patrimonio spirituale universale”), impone di riscrivere tutto quanto è comparso finora sul Barlaam e Ioasaf. Il nostro paese, in questo, si è mostrato all’avanguardia. Sono stati proprio i due curatori dell’edizione del 1980 a riprendere e rielaborare il proprio lavoro di un tempo, che ne esce così trasfigurato, accresciuto, ancora più prezioso. Un’ampia e affascinante introduzione di Silvia Ronchey conduce il lettore alla scoperta dell’universo culturale che ha generato questo romanzo agiografico, mentre l’agile avvertenza curata da Paolo Cesaretti riassume le principali acquisizioni dell’edizione di Volk. Lo stesso Cesaretti ha poi rivisto la traduzione, della quale peraltro è stata mantenuta la gradevole patina arcaizzante, e ha arricchito il corpus delle note e dei rimandi scritturali. Sì, perché la versione di Eutimio non fu un affatto un lavoro meccanico: il dotto monaco la arricchì sapientemente di infiniti rimandi patristici e scritturali, che, sommati agli affascinanti ed enigmatici apologhi di origine orientale (anch’essi ben inquadrati nell’introduzione), come quello del Viandante e l’unicorno, andarono a comporre un variegato tappeto nel quale confluiscono suggestioni indiane, arabe, greche, caucasiche, buddiste, islamiche, cristiane… Il risultato fu una delle opere più affascinanti e influenti del medioevo, una sorta di summa del sincretismo generata dalla “civiltà del testo” di Bisanzio, che in questo si rivela, ancora una volta, crocevia e ponte fondamentale tra Oriente e Occidente.
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Giornale di Brescia | 07/08/2013 | La storia orientale che sedusse gli scri…, Sergio Caroli
Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey curano l’edizione della leggenda di «Barlaam e Ioasaf»
La versione bizantina della storia di Barlaam e Ioasaf ha tenuto a battesimo tutte le storie cristianizzate di Buddha. Redatta intorno al Mille, narra le vicende di Ioasaf, figlio del re dell’India Abenner, persecutore dei cristiani. Indovini profetizzano che dovrà un giorno governare il regno e mutarne la fede. Il re rinchiude in uno splendido palazzo il figlio, circondandolo di piaceri d’ogni specie: vuole sottrarlo a ogni nozione di peccato, malattie e morte; finché un giorno, uscito all’aperto, il giovane vede un lebbroso, un cieco e un vecchio e scopre l’esistenza della morte. Giunge allora al palazzo un anacoreta di nome Barlaam, dal quale apprende la dottrina cristiana, per lui nuova, e viene battezzato. Alla partenza di Barlaam, nonostante prove e ostacoli, Ioasaf persevera e converte al cristianesimo - anche grazie a una disputa pubblica - sia il regno che ha ereditato sia il padre Abenner. Alla fine il principe si fa eremita e raggiunge nel deserto il maestro Barlaam per condividere con lui l’ascesi. La narrazione fu diffusissima nel medioevo nelle culture d’Europa e d’Asia, e una nuova edizione italiana della versione bizantina, a cura di Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, è uscita nella Nuova Universale Einaudi («Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha», CCXX + 308 pp., 35€) sulla base del testo critico pubblicato nel 2009 da Robert Volk, che ha indotto i curatori a rivedere e accrescere la loro precedente versione (1980). Ne parliamo con i due studiosi della civiltà di Bisanzio. In che modo si è di recente dimostrato che autore del romanzo è Eutimio di Iviron? Chi era? Vissuto dal 955 al 1028, Eutimio era un nobile georgiano, che nel 1005 successe al padre Giovanni alla guida del monastero dei Georgiani (a Bisanzio si chiamavano Iberi: di qui Iviron), fondato sul monte Athos proprio dal padre. Forse per reticenza monastica, Eutimio fece di tutto perché il testo nascondesse la sua paternità. Ma già a fine Ottocento le affinità dell’opera con una precedente versione elaborata in ambito georgiano avevano indirizzato le ricerche; oggi il conforto delle tecnologie informatiche di cui si è avvalso Volk - ad esempio, i parallelismi tra il «Barlaam e Ioasaf» e le opere teologiche e agiografiche bizantine del X secolo - toglie ogni dubbio. Prof. Ronchey, nel suo ampio saggio introduttivo lei fa riferimento a Max Müller,lo studioso di fiabe che nel 1870 parlò a Londra di «Barlaam e Ioasaf»... Max Müller contribuisce allo studio dell’origine della vita bizantina del Buddha, ma, essendo scrittore cosmopolita, è il più affascinante portavoce delle proprie conoscenze orientalistiche e di quelle dei suoi predecessori. Lo considero uno dei protagonisti della storia di questa «storia delle storie» che è la vita del Buddha e del suo passaggio a Occidente, che era tuttavia avvenuto ben prima. Non pochi scrittori europei ne sono rimasti affascinati e influenzati... La storia di Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del medioevo globale, un «Siddharta» ante litteram elevato a potenza. Raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime «chansons de geste», ai poemi epici medievali. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il «Novellino» si trasmetterà al «Decameron» di Boccaccio. Arriverà fino al teatro di Shakespeare. Nel Seicento vedràla suamassima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo «Barlán y Josafá», fino a «La vida es sueño» di Calderón dela Barca. È attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha si trasmette alla letteratura otto e novecentesca.
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Teologia | 01/09/2013 | Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita biza…, Emanuela Fogliadini
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Latitudes | 12/09/2013 | Storia di Barlaam e Ioasaf, Andrea Nardi
È un cammino davvero singolare quello su cui ci conducono Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey con questo loro saggio. Stiamo per percorrere la Via del Deserto, la millenaria e ancora presente direttrice dell’Impero Bizantino che dai rilievi del nord della Mesopotamia, dai valichi di Amano vicino ad Alessandretta, dalla sponda orientale del Mar Nero attraverso il Caucaso, raggiunge le leggendarie distese di Sogdiana e Bactriana, fino in Afghanistan, in Pakistan e quindi in India. Da qui passarono gli accademici ateniesi della corte di Cosroe quando Giustiniano chiuse le Scuole filosofiche elleniche; da qui passò il sincretismo platonico e poi l’aristotelismo, il misticismo seguito dall’aniconismo giudaico e islamico, e ancora la musica e i libri antichi. Ma il percorso che seguono i due studiosi non si ferma qui, e si dirama su per la Via delle Steppe, dal delta del Danubio, attraverso l’Ucraina, lungo il Dnepr e poi navigando sulla Dvina Occidentale, fino al golfo di Riga, e costeggiando tutti i porti del Baltico. Non è finita: seguendo i fiumi continentali a nord dei Carpazi, ci fanno ridiscendere a Praga, e quindi da un lato troviamo le grandi capitali europee, dall’altro Bisanzio, la capitale dell’Impero: sono le vie delle grandi migrazioni germaniche e slave, dei Turchi, di Tamerlano e di Scanderberg, dei crociati di Varna, ma anche di Cirillo e Metodio. Il viaggio lungo il corso della storia bizantina è quello compiuto dal kitab Kamal-ad-din, libro secolare scritto dal dotto sciita Ibn Babuya e risalente al califfato fatimide, scomparso e poi rispuntato a Teheran in un’oscura officina tipografica nel 1883. Questo testo straordinario narra la versione islamicoismailita della storia del Buddha, introducendo un maestro eremita, Bilawhar, chiamando Buddha non col nome di Budasaf bensì di Iudasaf, e facendolo infine morire nel Kashmir. Da qui si diramano infinte altre storie giunte sino a noi attraverso i secoli, compresa l’illuminazione di Mirza Ghulam Ahmad, carismatico musulmano convinto d’essere l’ultimo messia, il quale interpretò il nome Iudasaf come Iuzasaf, ossia quel Yus Asaf iscritto in una cripta di tomba a Shrinagar nel Kashmir, e ritenendolo niente meno che appartenente a Gesù, solo svenuto sulla croce e portato in segreto dai discepoli sulle orme di Alessandro Magno sino in India. Qui, dopo una vita di predicazioni, il Cristo sarebbe morto appunto fra le case galleggianti di Shrinagar. Su queste strade polverose, dall’Oriente fino all’Europa, si sono avvicendate le traduzioni, le versioni, i codici medioevali e le stampe successive del libro, fino proprio a questa ultima e preziosissima edizione dei due autori e studiosi contemporanei, i quali svelano magistralmente ogni aspetto filologico, storico, e dottrinale del racconto, lasciandoci poi gustare il testo originale tradotto dalla stessa Ronchey. Nella “fiaba” c’è un principe da Mille e una Notte, un padre che per proteggerlo lo tiene avulso dal mondo, c’è un palazzo meraviglioso e incantato, ma c’è anche la trasgressione al divieto, il desiderio della conoscenza e la scoperta della vecchiaia, dei mali e della morte, c’è allora l’eroe e la sua ansia strana, la sua uscita dal palazzo per immergersi nella vita reale, fino all’incontro col suo precettore, l’asceta saggio con le cui parole il principe diventerà Buddha. E sono parole che magicamente riecheggiano quelle del Gesù che ben conosciamo, riavvolgendo il filo di seta srotolato secoli prima lungo tutte queste regioni misteriose.
Storia di Barlaam e Ioasaf – La vita bizantina del Buddha | Paolo Cesaretti – Silvia Ronchey, Einaudi | Nuova Universale Einaudi – 2012 | pp. 310 | euro 35,00
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