Quando Buddha era un santo cristiano
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“Perché non possiamo non dirci cristiani”, scriveva il laico Croce, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta obiettività dovremmo oggi seriamente riflettere sul “perché non possiamo non dirci buddhisti”. Più di una filosofia e meno di una religione, il buddhismo è forse la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna, esistenzialista e non. Un silenzioso bestseller, il Siddharta di Hesse, ha orientato spontaneamente la formazione delle due ultime generazioni. Ratificata dalla New Age, ma già anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza culturale e cultuale del buddhismo ha prodotto un’ibridazione confessionale, in cui lo yoga cristiano e le forme di meditazione miste sono ormai consuetudine pacifica. Da Yahoo Answers ai circoli parrocchiali, la domanda “si può essere insieme buddhisti e cristiani” è diffusa viralmente e la risposta è quasi sempre un sì.
In genere si fa risalire l’influsso del buddhismo nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire dell’occidente allo slancio degli studi di orientalistica, da cui si dice fosse influenzato fin da ragazzo Schopenhauer. Ma in realtà il buddhismo era già penetrato da secoli in occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva e si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta ottocentesca. Fin dall’XI secolo il Buddha era diventato un santo della chiesa cristiana. Il suo nome era stato solo lievemente mascherato: Ioasaf, da bodhisattva — budasaf – iudasaf, attraverso le varie versioni che avevano portato la sequenza di fatti, circostanze, archetipi e simboli, per così dire la stringa originaria della vita del Buddha fino a Bisanzio.
Mai prima coagulata in un testo sacro, lì si era fatta libro. Il buddhismo non aveva mai avuto una Scrittura, non essendo un'ortodossia ma un'ortoprassi dove ciò che importa è l'armonia del comportamento e non quella delle dottrine: fatto per adattarsi alle diverse culture, si rispecchiava diversamente nelle loro scritture. Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro per eccellenza, generò un nuovo testo originale: la Storia di Barlaam e Ioasaf, composta tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo da Eutimio di Iviron, un aristocratico ostaggio circasso educato all’alta cultura dei palazzi di Costantinopoli e diventato poi monaco sul Monte Athos. E’ a partire da questo primo decalcarsi dell’impronta buddhista nello stampo bizantino che la sequenza narrativa della vita del Buddha si moltiplicherà in progressione geometrica nella letteratura occidentale e che Buddha estenderà la sua predicazione in occidente en travesti, sotto forma di santo cristiano.
La storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del medioevo globale, un Siddharta ante litteram elevato a potenza. Dal testo greco passerà allo slavo ecclesiastico, di qui al russo e al serbo. Nell’est del mondo la versione di Eutimio sarà tradotta, oltre che in arabo, in etiopico, armeno, ebraico, siriaco. Detti e fatti dell’alias cristiano di Siddharta risuoneranno in ogni lingua occidentale con una diffusione mai raggiunta da nessun’altra leggenda. Attraverso il latino, ma con l’influenza del manicheismo, la sua storia raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime chansons de geste, ai poemi epici medievali in langue d’oïl, a quelli medio-alto-tedeschi, fino al Barlaam und Josaphat di Rudolf von Ems. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio. Si affrancherà dal latino nei fabliaux, nei sunti dei Leggendari, nei misteri popolari, nelle ballate e nei ludi medievali del Maggio. Stupirà il pubblico nelle piazze e nelle sacre rappresentazioni. Attraverserà i confini settentrionali dell’Europa e arriverà fino al teatro di Shakespeare. Nel Seicento vedrà la sua massima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo Barlán y Josafá, per il cui tramite il giovane principe isolato dal mondo e assorbito nel sogno troverà il più completo ritratto occidentale ne La vida es sueño di Calderón de la Barca. Sarà attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha — questa leggenda dalle mille facce, questo punto dello spazio letterario che contiene tutti gli altri punti, proprio come l’Aleph di Borges — si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca e troverà ancora interpreti in Hugo von Hofmannsthal e in Marcel Schwob.
Intanto repertori come lo Speculum di Vincenzo di Beauvais e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze avevano riflesso e nebulizzato nel loro perdurante raggio di influenza non solo la storia del Gautama Sâkyamuni, ma anche il lucente pulviscolo leggendario e sapienziale delle dieci fiabe o parabole che la scandiscono, la più famosa delle quali, l’apologo del Viandante e dell’Unicorno, oggi nota soprattutto nella sua versione zen, proprio attraverso il Barlaam e Ioasaf è dilagata in tutte le letterature del mondo.
Un uomo è inseguito da un unicorno imbizzarrito. Nella fuga inciampa e cade in un burrone. Mentre precipita riesce ad aggrapparsi a un arbusto. Guardando in giù però si accorge che due topi, uno bianco e uno nero, ne stanno rosicchiando le radici. In fondo al burrone vede un drago che lo aspetta a fauci spalancate. Esaminando il punto in cui appoggia i piedi vede quattro teste di serpenti che spuntano dalla parete di roccia. Alza gli occhi al cielo e vede che dai rami dell’arbusto sta colando del miele. Smette di pensare a tutto il resto e si concentra sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele.
Avere portato in occidente questa parabola, di origine forse giainista, è uno dei più squisiti meriti di Bisanzio. Quell’eco mistica arrivò a Baudelaire, per insinuarsi in Mon coeur mis à nu, e a Tolstoj, la cui Confessione è forse la più chiara enunciazione del buddhismo cristiano: conosciuto mediante la tradizione ortodossa dei Menei, il Buddha bizantino, scrive, “gli rivelò il senso della vita”.