Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha
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L’ anonimo lettore di un manoscritto veneziano quattrocentesco del Milione di Marco Polo, imbattendosi in una delle prime menzioni del Buddha, pensò bene di vergare una nota “comparativa” a margine: “Questo asomeia alla vita de san Ioasaf (…) segondo chome se legie nella vita e llegenda di sancti padri”. Per tutto il medioevo e anche oltre, infatti, la popolarità del romanzo agiografico di Barlaam e Ioasaf fu immensa in tutta la cristianità, come dimostra la sua presenza nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine e in infiniti altri repertori e leggendari dei santi. La storia presenta effettivamente personaggi e situazioni di raro fascino: un giovane principe, Ioasaf, tenuto prigioniero dal padre in un principesco palazzo per risparmiargli la conoscenza delle brutture del mondo; il suo desiderio di conoscere che cosa c’era al di là delle mura della reggia, e lo sconvolgimento nel momento in cui prende coscienza della malattia, della vecchiaia, della morte; il successivo percorso di meditazione e illuminazione, guidato dalle sagge parole del monaco Barlaam, che convertirà il giovane alla religione cristiana. Si tratta di una vicenda così esemplare ed edificante che, nonostante i dubbi di ecclesiastici ed eruditi (Roberto Bellarmino e Leone Allacci) sulla sua veridicità, il principe e il suo mentore furono innalzati alla gloria degli altari. Addirittura, la Vita de san Ioasaf finì paradossalmente per entrare nel bagaglio catechistico con cui i gesuiti in missione in Oriente cercarono di convertire i buddisti della Cina e del Giappone. La storia, dunque, era tornata al punto di partenza: perché è chiaro, come già nell’Ottocento ci si era resi conto, che la vicenda dei due santi cristiani costituisce la trasposizione della vicenda del Buddha (al punto che lo stesso nome Ioasaf deriva, attraversi vari passaggi, da “Bodhisattva”). In Occidente era giunta da Bisanzio, dov’era nota come Storia di Barlaam e Ioasaf, chiosata nei manoscritti come “Storia utile all’anima, recata dalle più remote plaghe della terra degli Etiopi, detta anche degli Indiani”. Proprio di questo raffinato e importante testo greco Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey avevano fornito già nel 1980 la prima edizione italiana, perfettamente in linea con le conoscenze e le acquisizioni dell’epoca. In quegli anni, infatti, si ignorava ancora chi ne fosse l’autore (spesso era evocato il nome di un Padre della chiesa, Giovanni Damasceno), e anche sulla datazione c’era un ampio margine di incertezza, per quanto spesso si pensasse all’epoca della controversia iconoclastica, nell’VIII secolo. In trent’anni il panorama è completamente cambiato. Lo spartiacque è costituito dalla nuova edizione di Robert Volk (2006), accompagnata da monumentali prolegomeni (2009). Attraverso un uso sistematico e raffinatissimo tanto degli strumenti più antichi della filologia testuale, quanto di quelli più moderni (in particolare le banche dati informatizzate), Volk ha demolito le speculazioni precedenti ed è stato in grado di dimostrare che la Storia bizantina di Barlaam e Ioasaf è opera di Eutimio il Georgiano (955-1028). Si trattava di un colto monaco circasso di ottima famiglia, educato a Costantinopoli e attivo nel monastero di Iviron sul Monte Athos, di cui sarebbe divenuto anche igumeno (abate). Fu lui a tradurre in greco il Balavariani, la versione georgiana del racconto, a sua volta tradotta dall’arabo, che probabilmente la riprendeva dal persiano, a sua volta derivato da un originale indiano. Questa scoperta, una vera rivoluzione copernicana che getta finalmente luce su una delle opere fondamentali nella storia della spiritualità (nell’introduzione al volume la si definisce non a caso “deposito di saggezza interconfessionale” e “patrimonio spirituale universale”), impone di riscrivere tutto quanto è comparso finora sul Barlaam e Ioasaf. Il nostro paese, in questo, si è mostrato all’avanguardia. Sono stati proprio i due curatori dell’edizione del 1980 a riprendere e rielaborare il proprio lavoro di un tempo, che ne esce così trasfigurato, accresciuto, ancora più prezioso. Un’ampia e affascinante introduzione di Silvia Ronchey conduce il lettore alla scoperta dell’universo culturale che ha generato questo romanzo agiografico, mentre l’agile avvertenza curata da Paolo Cesaretti riassume le principali acquisizioni dell’edizione di Volk. Lo stesso Cesaretti ha poi rivisto la traduzione, della quale peraltro è stata mantenuta la gradevole patina arcaizzante, e ha arricchito il corpus delle note e dei rimandi scritturali. Sì, perché la versione di Eutimio non fu un affatto un lavoro meccanico: il dotto monaco la arricchì sapientemente di infiniti rimandi patristici e scritturali, che, sommati agli affascinanti ed enigmatici apologhi di origine orientale (anch’essi ben inquadrati nell’introduzione), come quello del Viandante e l’unicorno, andarono a comporre un variegato tappeto nel quale confluiscono suggestioni indiane, arabe, greche, caucasiche, buddiste, islamiche, cristiane… Il risultato fu una delle opere più affascinanti e influenti del medioevo, una sorta di summa del sincretismo generata dalla “civiltà del testo” di Bisanzio, che in questo si rivela, ancora una volta, crocevia e ponte fondamentale tra Oriente e Occidente.