La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto. Prima edizione Best BUR
2018
Silvia Ronchey
Un viaggio nella tradizione rimossa che fin dall'antichità unisce oriente e occidente. Una sfida a leggere, sotto l'attualità, il reticolo sotterraneo di simboli e cicatrici che segnano la storia delle convivenze e delle collisioni tra popoli: in una parola, il passato. Da quali antichissime simbologie proviene la mezzaluna divenuta emblema dell’islam? A quale passato si riallacciano le distruzioni di statue e monumenti dell’Isis e cos’hanno a che fare con l’iconoclastia? In che modo il paganesimo si è ibridato con il cristianesimo? E chi era Cristo? Quali sono le altre facce della sua predicazione, che si innestarono e germogliarono nell’antico oriente, dall’avventura nestoriana a quella buddhista? In quali pieghe della nostra cultura sopravvive la voce dei mistici? Quanto è rimasto nel nostro immaginario di ciò che un tempo si chiamava religio? Quanto c’è di vero nel Trono di spade? In altre parole: quanto passato c’è nel nostro presente e quanto presente nel nostro passato? E quanto oriente c’è nel nostro occidente? Oggi il baricentro del mondo sembra essersi spostato. Per dissipare pregiudizi e malintesi nati da interferenze nella trasmissione dei saperi o da vere e proprie falsificazioni, Silvia Ronchey ci accompagna in questo libro in un viaggio avventuroso alla ricerca del sacro perduto, riportando alla luce una topografia rimossa dalla nostra coscienza storica e dalla nostra identità collettiva. Facendo emergere dal profondo del tempo e della psiche l’edificio sommerso e complesso di ciò che l’uomo contemporaneo ha smarrito: i legami che generano quell’unica civiltà orientale-occidentale in cui oggi, in un tempo di rivolgimenti culturali e migrazioni epocali, siamo globalmente implicati e coinvolti.
Altro su questo volume:
xAudio e video (10)
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2018 | Rai News 24: Sabato e Domenica 24. La cattedrale sommersa
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2018 | Rai Tre: Kilimangiaro. La cattedrale sommersa
La saggista e accademica Silvia Ronchey ospite di Camila Raznovich per scoprire quanto oriente c'è nel nostro occidente. Puntata andata in onda domenica 21/01/2018.
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2017 | La Stampa TV. “La Cattedrale sommersa” di Silvia Ronchey per chi vuole capire e capirsi
In questa video-intervista Silvia Ronchey ci presenta il suo nuovo saggio, “La Cattedrale sommersa” (edito da Rizzoli) e ci immerge in un mondo ricco di novità che arrivano da molto lontano. Forse in pochi sanno che…. Così la nostra storia e la nostra religione, le nostre origini e anche il nostro futuro acquisiscono una luce che per tanti è completamente nuova. Basta inoltrarsi nei meandri del nostro passato presi sapientemente per mano dall’affabulatrice Ronchey come si fosse dei detective alla scoperta di tracce chiare. L’autrice non ci offre soluzioni ma un ottimo kit per poter poi indagare da soli e farci un’idea autonoma. A chi è rivolto il libro? A tutti, giovani, giovanissimi e maturi, laici o forti di una propria fede. A coloro che vogliono capire e capirsi meglio.
Intervista di Michela Tamburrino
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2017 | TG5. La lettura. La cattedrale sommersa
Silvia Ronchey presenta il volume "La Cattedrale Sommersa" al TG5. La rubrica "La lettura" è condotta da Carlo Gallucci.
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2017 | Rai News 24 - Focus 24. La cattedrale sommersa
Silvia Ronchey presenta il suo volume "La cattedrale sommersa" a RaiNews 24. In conduzione: Emanuela Bonchino.
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2017 | Rai Radio3 Fahrenheit. La cattedrale sommersa
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2017 | Radio 24 Un libro tira l'altro. La cattedrale sommersa
Silvia Ronchey ha presentato il volume "La cattedrale sommersa" ai microfoni di Radio 24. La tramissione "Un libro tira l'altro" è stata condotta da Salvatore Carrubba il 10 Dicembre 2017.
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2017 | TG2 Lavori in corso. L'angolo dei libri. La cattedrale sommersa
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2017 | Più libri più liberi. 16ª edizione della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria.
Più libri più liberi. 16ª edizione dellla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria. Massimiliano Coccia intervista Silvia Ronchey ai microfoni di Radio Radicale.
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2017 | Repubblica TV | 11/10/2017 | Racconti. La cattedrale sommersa
Stampa (9)
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TTL - La Stampa | 25/11/2017 | Alla ricerca del sacro perduto: il filo …, Enzo Bianchi
Siamo portati a pensare che i giornali quotidiani, incalzati dal ritmo sempre più frenetico delle notizie e dall’inarrivabile istantaneità della rete, difficilmente possano dedicarsi a una riflessione programmata e di ampio respiro, al di là di approfondimenti e commenti «a caldo» su fenomeni sociali portati alla ribalta della cronaca da eventi emotivamente coinvolgenti. 11 serio giornalismo d’inchiesta sa ancora guadagnarsi uno spazio significativo, mentre invece le tematiche degli «editorialisti» e i loro elzeviri da «terza pagina» paiono patire maggiormente il confinamento e la parcellizzazione in priorità dettate dall’incalzare dello scorrere quotidiano della vita. Per le riflessioni più ponderate esistono i libri, quando anch’essi non si rivelino una raccolta di «istantanee».
L’ultimo saggio di Silvia Ronchey - La cattedrale sommersa - va in direzione opposta. Paradossalmente si tratta di una raccolta di articoli scritti per un quotidiano, ma «concepiti fin dall’inizio per dissipare i pregiudizi o i malintesi ... oggi alimentati da una sconcertante semplificazione del passato nella nostra società nutrita di presente». Si, il percorso che Silvia Ronchey intraprende «alla ricerca del sacro perduto» è un’affascinante rilettura della dimensione interiore propria di ogni essere umano che spazia dal Corano al «Buddha cristiano», dalle mistiche alle trasmigrazioni di simboli e riti, dall’idolatria alla venerazione per le icone, da Dioniso al Cantico dei Cantici, dall’iconoclastia all’arte astratta. Scandagliare scritture sacre, miti e riti, personaggi e narrazioni, opere d’arte e letteratura del passato per interpretare il presente può apparire operazione troppo lenta e faticosa per la nostra società accelerata, eppure non vi sono scorciatoie per chi voglia essere consapevole di quanto la storia di guerre e convivenze, di scontri e confronti, di scambi commerciali e di saccheggi abbia plasmato non solo le nostre società ma anche il nostro modo pensarci e di pensare l’altro da noi.
La riflessione della Ronchey, ordinario di Civiltà bizantina all’Università di RomaTre, fa tesoro di una rara conoscenza di testi appartenenti a mondi e culture diverse d’oriente e d’occidente, eppure il lettore non si smarrisce nel dedalo di mondi che si intrecciano prima ancora di essere stati descritti nella loro peculiarità: non di sincretismo, né di «indifferenza» infatti si tratta, bensì di capacità di cogliere l’elemento «religioso» (e quindi di connessione tra il sacro e il profano) che sottostà a tanti quotidiani modi pensare, di vivere e di essere di uomini e donne di ogni tempo. E la grande capacità dell’autrice di spaziare in universi contigui eppur diversi nello spazio e nel tempo apre a volte squarci di sorprendente attualità, come quando ci fa - ironicamente? - notare che «la rivista dell’Isis si chiama oggi Riuniva, il nome che ai tempi di Bisanzio l’islam dava a Costantinopoli.»
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Il Giornale | 16/12/2017 | La nostra civiltà morirà se non recupera…, Matteo Sacchi
Silvia Ronchey è una delle più grandi esperte di storia e filologia bizantina. Il suo nuovo saggio La cattedrale sommersa (Rizzoli, pagg. 252, euro 19) va, come spiega il sottotitolo, «alla ricerca del sacro perduto». Per la Ronchey la religio, il sentimento del divino, che è qualcosa di diverso dalle religioni nel loro essere forme storicamente codificate, era un tratto comune e di unione tra Occidente e Oriente. Ora però è, in buona parte, perduto. E vale la pena cercare di capire il perché, usando anche gli strumenti della filologia e raccontando quei legami tra le religioni che, spesso, finiscono nel dimenticatoio. Perché le religioni cambiano e i simboli restano. Tanto per dire, la mezzaluna islamica è un regalo delle religioni pagane, è la mezzaluna di Artemide, simbolo protettore della Bisanzio pagana. È solo uno dei tanti prestiti, o a volte scippi, interreligiosi, come quelli che nelle zone più remote della Cina hanno fatto sovrapporre Gesù e Buddha, lì per quanto ci si svegli moderni e atei poi il senso/bisogno religioso rientra dalla finestra, e bisogna capire in che forma.
Professoressa Ronchey, perché la religiosità è una cattedrale sommersa?
«In questo momento si parla moltissimo di religioni, magari anche di religioni nuove, ma mai come ora il senso del sacro è andato perduto. La perdita dell'idea del sacro, la sua trasmissione, cospira a non farci comprendere il presente e ad aumentarne la violenza. Allora mi sono rifatta a questo mito bretone clic racconta della misteriosa scomparsa della città di Ys: il suono delle campane della sua cattedrale giungerebbe remoto dal fondo. Ecco io come altri, credo, sentiamo ancora il suono del sacro. Solo che nell'oggi è un suono lontano e confuso. C'è una volontà di recuperarlo, pensi al New Age, ma è molto fai da te, mancano gli strumenti culturali per farlo».
Perché il sacro è andato perso? Colpa dell'Illuminismo? Del progresso scientifico?
«Credo che si tratti di un fenomeno molto più recente e in questo seguo le idee di Elémire Zolla (1926-2002, studioso di religioni e mistica, Ndr). La crisi è stata provocata dal Sessantotto e da fenomeni come la rivoluzione culturale maoista. Zolla lo scriveva già in quegli anni e, infatti, leggerlo era considerato eretico in certi ambienti. Si, l’Ottocento positivista e l’illuminismo prima hanno sostituito lo studio del passato con un'orgia di speranze proiettate sul futuro. Ma la morte del sacro è provocata dallo schiacciamento sul presente e il contingente. E quella è iniziata in tempi molto più recenti. L'appiattimento sul presente schiaccia la ciclicità propria delle religioni antiche o la proiezione verso il “dopo" di quelle monoteiste».
Lei nel libro tesse l'elogio delle grandi mistiche medievali. Un certo tipo di cultura le ha liquidate quasi fossero pazze clic sentivano le voci...
«Stiamo parlando di giganti della scrittura e del pensiero. Nel libro ne cito molte, in particolare Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena. È solo l’ignoranza del Medioevo che fa sì che siano state viste come marginali. C'era della nevrosi? Quanti scrittori, poeti e scienziati sono esenti da nevrosi? Fortunatamente si sta andando verso un recupero di questi nomi all'interno della storia del pensiero. La mistica occidentale deve moltissimo alle donne».
Nel libro si parla molto di simboli e come transitino da una religione all’altra.
«Le religioni si compenetrano molto più di quanto si fronteggino. La mezzaluna islamica arriva dalle antiche religioni con al centro il culto della dea madre. È sopravvissuta alle religioni politeistiche successive, al cristianesimo dove la figura della dea madre è stata riassorbita da Maria ed è tornata nel mondo islamico. Succede con un sacco di simboli, di date di festività. Anche tra buddismo e cristianesimo lo scambio è stato fortissimo. Si è creata una tradizione con Buddha trasformato in santo cristiano e Gesù è arrivato portato dai nestoriani sino alle porte della Cina».
Il sacro sarà anche un sentimento comune, però le religioni sui simboli combattono anche. Li eliminano o se li scippano facendo fìnta di niente.
«Quello è il politico che irrompe nel sacro. Con i monoteismi capita di più, si prestano a visioni politiche totalizzanti, però se pensa alla distruzione del tempio di Gerusalemme sono stati i romani a praticare il primo tentativo di cancellazione della religione altrui... Ma in ogni caso e sempre la politica che piega il sacro ad altri fini. Ad esempio Isis ha diffuso per i propri scopi una narrazione onirica dell’islam. Ha sviluppato una feroce iconoclastia che risponde a fini precisi e poi l’ha ricoperta con la religione. È successo spesso nella storia. Metodi che sfruttano l'ignoranza e che non si possono contrastare nell'ignoranza. Men che meno lasciandosi avviluppare in un gioco di specchi, che alimenta l'odio. Il sacro è diverso, cerca di tenere assieme l'anima del mondo».
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Avvenire | 17/12/2017 | Ceronetti e Ronchey: mito sacro da esplo…, Alessandro Zaccuri
ll segno può essere lo stesso, ma davanti alla medesima traccia - al medesimo simbolo - l'esploratore del sacro si sforza di risalire alla regola, mentre il credente si sofferma sull'eccezione lì raffigurata. Il percorso subito si biforca: regole ed eccezioni, appunto, lo schema che si ripete e l'evento, irripetibile, da cui discende la salvezza. È utile al credente la mappa che l'esploratore disegna? E l'esploratore, da parte sua, in quale territorio si avventurerebbe se a custodire la frontiera da cui è attratto non ci fosse la fede semplice e a volte semplicissima del credente? È una storia lunga e non priva di equivoci, questa che affianca due soggetti simili soltanto se osservati da lontano, questi due viaggiatori che, arrivati alla stessa stazione di posta, si servono di una lingua comune per ottenere un diverso, a volte inconciliabile conforto. «Tentava una morfologia spirituale unitaria delle culture del mondo antico, avviava una riflessione sistematica sul lascito speculativo dell’oriente non cristiano al mondo moderno, recuperava una visione del mondo vivente anteriore alla rivoluzione scientifica», scrive Silvia Ronchey nel ritratto di Elémire Zolla ora compreso in La cattedrale sommersa (Rizzoli, pagine 254, euro 19,00), raccolta ragionata dei contributi che la bizantinista romana ha dedicato negli ultimi anni alla “ricerca del sacro perduto” richiamata nel sottotitolo. Non credente professo e insieme studioso infaticabile di ogni forma dell'esperienza religiosa», Zolla (1926-2002) è forse l'intellettuale la cui lezione risulta più influente nell'impianto complessivo della ricognizione compiuta di Silvia Ronchey. Che torna a più riprese su autori e temi della sua Bisanzio, in una prospettiva di continuità storico-simbolica secondo la quale la turbinosa eccezione del millennio medievale andrebbe corretta mediante la regola che mette in relazione «l'antico, con le sue persistenze, rinascenze, resistenze oscurantiste» e «il moderno, con le sue rivoluzioni e le sue barriere, sociali, etniche, geografiche». Ipotesi affascinante, come tante altre che si ritrovano nel libro, anche perché aperta alla discussione: a una periodizzazione così drastica si potrebbe obiettare, per esempio, che modernus è parola prettamente medievale, scaturita dalla crisi di cui Cassiodoro fu testimone nel VI secolo. La contemplazione dell'icona riveste un ruolo centrale nella Cattedrale sommersa, sia per comprendere la "guerra alle statue" scatenata dal Daesh (atto politico con labile parvenza religiosa, avverte Silvia Ronchey, anche perché nell’islam è finora mancata una riflessione organica sullo statuto dell'immagine), sia per cogliere l’analogia profonda che lega la Trinità di Rublév alle stilizzazioni estreme dell'arte contemporanea. L’indagine è però ancora più ampia, e va dal-la decifrazione di un fenomeno solo apparentemente pop quale la serie tv II trono di spade all'elogio della visionaria Ildegarda di Bingen e dell’enciclopedico Raimondo Lullo, che con il duecentesco Libro dell'amico e dell'amato segna un livello mai più raggiunto di intima vicinanza tra le fedi monoteistiche. Sono sentieri lungo i quali il credente segue volentieri, e con profitto, l'esploratore del sacro. Il bivio si propone davanti alla figura di Cristo, rispetto alla quale Silvia Ronchey dimostra un’indubbia predilezione per letture eterodosse, come il Jesus Rex di Robert Graves, e non dirado improntate a una visione sincretista. Come se alla regola non si desse eccezione, come se in Gesù di Nazareth si ripresentasse il mito orientale di Mirimi o l'impassibilità imperscrutabile del Buddha. «Si è nel messianico finché si è nell'umano», annota Guido Ceronetti in Messia (Adelphi, pagine 116, euro12,00), piccolo libro di versi, intuizioni e frammenti che viene spontaneo accostare al più compatto La cattedrale sommersa. Nel Messia si potrebbe dunque sperare ma non credere, dato che per Ceronetti «la grande sciagura dei cristiani» sarebbe proprio quella di «crederlo venuto in un tempo storicamente determinato». L'insofferenza per l’eccezione prende il sopravvento, mentre a imporsi e la regola secondo la quale «pensare il Messia è soffrire per qualcosa che vale perché ci oltrepassa», fino a sollecitare quel sentimento di «orlanità» che Ceronetti evoca in una delle poesie qui proposte. Ma come possono essere sicuri, l'esploratore e il credente, che senza eccezione la regola abbia ancora valore?
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Il Venerdì di Repubblica | 29/12/2017 | Quando Buddha era santo per cristiani e …, Filippo di Giacomo
Nell'undicesimo secolo, e in quelli successivi, nelle chiese di Bisanzio si venerava Buddha. In realtà, anche nella nostra parte di cristianità Jacopo da Varagine, dottissimo domenicano e arcivescovo di Genova, nella Legenda aurea da lui scritta a partire dal 1260 e rielaborata fino alla sua morte nel 1298, inseriva (inconsapevolmente?) la vita e l'insegnamento del Buddha Shakyamuni (il Buddha storico), a quel tempo già cristianizzato sotto il nome e l'epopea dei santi Barlaam e Iosafat: la sua festa ricorreva, fino alla riforma di Paolo VI del 1969, il 27 novembre. Nel 1583, tre secoli dopo Jacopo, il cardinale Cesare Baronio, padre della storiografia ecclesiastica, include senza problemi il Buddha nel martirologio romano (il catalogo dei santi e delle feste cattoliche) perché considerato santo «apud Indos Persis finitimos», nell'India ai confini con la Persia.
Silvia Ronchey, nel suo ultimo saggio intitolato La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto (Rizzoli), termina qui la sua citazione sul culto cri stiano del Buddha, annotando sulla questione lo scetticismo del cardinale Roberto Bellarmino, il "padre nobile" dei controriformisti di tutti i tempi, coinvolto nei processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei. Il Baronio, nel suo martirologio, spiega diligentemente che le «opere meravigliose» del Buddha «furono descritte da san Giovanni Damasceno». E questi, vissuto tra il 676 e il 749, è un padre della Chiesa che oltre che in Buddha vedeva in Maometto, e nel suo dogma islamico dell'eternità del Corano, una forma dell’idea cristiana del Logos. Quindi, prima di essere cristiano, Buddha era stato fatto pure musulmano grazie all'assimilazione degli elementi indo buddhisti da parte dei mistici sufi.
E continuando cosi, risalendo da fonte a fonte, Silvia Ronchey tenta di contrastare l'insensata rimozione, o peggio la sconcertante semplificazione del passato, in una società che ama nutrirsi solo del presente. O così almeno crede, visto che la Ronchey cartografa, per così dire, 24 punti topici di una geografia culturale oramai (consapevolmente?) rimossa dalla nostra coscienza storica e dalla nostra identità collettiva. La mappa che ne con segue, facile da leggere anche se piacevolmente vertiginosa, mentre ci lascia intravvedere i regni perduti (di cui, sia in Occidente sia in Oriente conserviamo simboli e cicatrici) ci indica anche i sentieri da percorrere, spiega l'autrice, per ritrovare «i legami che generano quell'unica civiltà orientale occidentale in cui oggi, in un tempo di rivolgimenti culturali e migrazioni epocali, siamo globalmente implicati e coinvolti.
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Il Foglio | 03/01/2018 | La cattedrale sommersa. Alla ricerca del…, Claudia Gualdana
Se c’è un filo nell’antico labirinto di contiguità tra oriente e occidente, Arianna ne ha tratto in salvo Teseo. Fuor di metafora, che qui di Teseo non si tratta, ma della cattedrale sommersa, ossia “l'ininterrotta corrente circolare che dall'India al Bosforo trasmetteva ai millenni un’unica sapienza sull’essere", Silvia Ronchey intendeva svelare gli scambi culturali tra i due mondi e vi è riuscita. Con semplicità: il libro raduna articoli usciti sulla Repubblica dal 2014 al 2017, ma paiono studiati per dimostrare una teoria. Ovvero: l’assioma ideologico dello scontro di civiltà non esiste, se non nelle menti ottuse dei terroristi e dei soloni del nostro mondo. Non siamo stati sempre in guerra, lo dimostra una certa cultura che sotto la parvenza rituale ha sempre visto l'unità sostanziale di ogni tradizione. Non a caso, un capitolo è dedicato al rimpianto Elémire Zolla, che di tale unità fu cantore. Se le cose stanno cosi, quid est veritus? come titola il capitolo in cui Pilato rivolge la celebre frase a Gesù, che del patto tra occidente e medio oriente è il cuore. Ronchey riporta l’anagramma che della frase fece sant'Agostino traendone abilmente la risposta: est vir qui adest, “è l'uomo che è qui”. Ma non si creda di risolvere la bimillenaria tenzone foriera di scambi culturali nella figura di Cristo. Quando i terroristi islamici hanno distrutto i Budda di Bamiyan, senza saperlo hanno ferito un santo cristiano. La notizia merita di essere riportata perché è ignota ai più: il buddismo non è arrivato in Europa nel Seicento, con il gesuita Matteo Ricci. Un certo Gesù Budda è venerato dal secolo Undicesimo a Bisanzio, tanto che gli fu dedicato un libro. Storia di Barlaam e loasaf. In un dipinto, compare assiso con le gambe incrociate sul fior di loto, ma sul petto porta una croce. Tant’è che, nel 1583, il cardinale Baronio si risolse a includere loasaf nel Martirologio romano come santo. Che dire, poi, della mezzaluna ottomana? La luna è simbolo primigenio della grande madre, viva nei culti precedenti i monoteismi. E' poi transitata ai piedi della Madonna, di dove rammenta la dea egizia venerata nella Roma pagana, Iside. Sicché il monoteismo più misogino, l'islam, si è ritrovato quale emblema un simbolo prettamente femminile.
La storia segue strade imprevedibili. E se le Crociate sono state uno scontro violento, sappiamo bene che ne discese linfa nuova per la cultura europea. Che le cose stanno cosi lo ha insegnato anche l’epopea di Alessandro Magno, i cui soldati, una volta giunti in India, nel profilo orgiastico di Shiva ravvisarono i tratti malandrini di Dioniso. Non serve, tuttavia, andare troppo lontano. Quando festeggiamo il Natale, entriamo ignari nella festività del dio Mitra, giunto da oriente e abbracciato in fretta dai legionari, e nelle sepolte celebrazioni del dies Natalis Solis lnvicti, il sole. Così come i Re Magi, tanto amati dai bambini per i doni e i fascinosi turbanti, testimoniano la lode persiana tributata a Gesù bambino.
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La Provincia | 31/01/2018 | Storia e memoria. Perché il passato oggi…, Vera Fisogni
Antico è spesso sinonimo di vecchio, inutile. Non per Silvia Ronchey, classe 1958, bizantinista e cattedratica all’Università di RomaTre, collaboratrice di “La Repubblica”, con alle spalle una tv di qualità che molti rimpiangono (“L’Altra Edicola”, RaiDue), saggi tradotti in molte lingue e un’intensa opera di divulgazione culturale. E grazie a lei, ad esempio, se gli italiani hanno conosciuto e apprezzato il pensiero dello psico-analista-filosofo James Hillman. Oggi è in libreria con “La Cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto” (Rizzoli, 2581 pag., 19 euro).
Lei sostiene che non esiste il “Medio Evo”, né i secoli bui: esiste solo l’antico con le sue rinascenze. Perché?
Mi sono posta l’obiettivo di dissipare i pregiudizi o malintesi nati da interferenze nella trasmissione dei saperi o da vere falsificazioni. La tradizione antica è sempre viva in noi, anche se ignorata o rimossa. Scriveva Borges che siamo in un punto imprecisato della decadenza dell’Impero romano. L’epoca che stiamo vivendo ricorda molto da vicino il Tardo Antico.
Come sì spiega questo ritorno?
Da storica ho una visione ciclica delle epoche e credo che in questo momento il baricentro della storia si stia spostando verso Est. Era accaduto proprio nel Tardo Antico: nel IV secolo, Costantino, seguendo le tendenze del suo tempo, si spostò a Costantinopoli. Prima ancora c’era stata una ciclicità in senso opposto, che aveva portato dall’Oriente alla civiltà Greco-Romana.
L’incontro tra Oriente e Occidente e il passato visto con gli stimoli del presente sono al centro del libro.
Quello che manca ai politici e agli osservatori è la profondità del tempo. Questo, secondo me, è un appiattimento provocato da un discredito gettato sul passato, che è figlio degli anni ’70.
Nel libro lei ricorda l’emarginazione di pensatori come Elemire Zolla.
Io sono cresciuta con questi “fratelli maggiori” che erano i sessantottini. Quella cultura lì apparteneva a una certa sinistra che condannava come borghese lo studio del passato.
A quali conseguenze ha portato?
L’onnipresenza del presente ci ha portato a guardare a un’attualità senza lo spessore passato. Tucidide ci ricorda che, senza l’anamnesi della storia, non si possono fare diagnosi del presente e prognosi del futuro.
Come ha maturato la scelta di dedicare la vita allo studio dell’antico, in particolare, della cultura bizantina?
Non è stata una scelta ideologica, ma personale. Frequentavo il liceo Visconti al centro di Roma ed c’erano sempre assemblee, collettivi, scioperi. Una moda borghese, tutto sommato; un modo per non far nulla da parte degli studenti e dei professori. Così io passavo il mio tempo nelle biblioteche, dove il mio spirito di ribellione verso quel conformismo era finalmente appagato. Girare con i testi dei poeti latini, era eccentricità giovanile e insieme una sfida. Studiando, ho scoperto che l’antichità non finisce. Esaurita la letteratura greca più nota c’erano altri 11 secoli di cultura bizantina. Il Rinascimento segna il rinchiudersi di questa ellissi di cultura classica.
Cosa pensa della chiusura dell'Europa nei confronti della Turchia?
Quando c’è stata l’idea di fare entrare la Turchia nella UE, ero d’accordo. Il Paese che ci aveva consegnato Ataturk era brulicante di cosmopolitismo. Oggi vedo che va verso l’integralismo, per colpa nostra. Sul tema di “cosa sia Europa” ricordo una discussione che ho avuto qualche anno fa con il celebre storico francese Jacques Le Goff: sostenevo che l’Europa storicamente si estende dove fu esercitato il diritto romano, cosa che a Bisanzio avvenne fino al XV secolo. Le Goff, dal canto suo, negava che l’Italia facesse parte dell’Europa...
Tra le mistificazioni che lei denuncia c’è quella nei confronti dell’IsIam.
L’Isis ci ha dato una rappresentazione per così dire “barbarica” dell’Islam con mezzi narrativi occidentali (stragi, orrore, esecuzioni). Le prime vittime del fondamentalismo terrorista sono gli stessi musulmani.
Trascuriamo la contemporaneità dell’antico. Però serie tv come “Trono di spade” hanno successo con un mix di passato, futuro, Oriente e Occidente.
Penso che questa serie televisiva (di Sky, ndr) sia proprio la spia del bisogno di passato che abbiamo. Ed ecco che spunta un mondo reinventato, che non è solo medioevale, anzi. Colpisce la coesistenza di memorie onomastiche, linguistiche, culturali di un passato pre medievale, classico. In “Game of Thrones” c’è moltissimo studio, in una sceneggiatura di impronta pop.
Tra i pregiudizi sul passato che lei ci fa superare, c’è anche quello che le donne non abbiano lasciato una letteratura fino al 1600.
Solo da poco la storiografia ammette che Caterina da Siena non era analfabeta. In effetti, come poteva esserlo una donna che scriveva una lingua paragonata, da Nicolò Tommaseo, a quella di Dante.
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Alias- Il Manifesto | 11/03/2018 | Verso Bisanzio, dove le immagini sono l’…, Francesco Lubian
Si apre nel segno della mezzaluna, simbolo del sultano Mehmet II tuttora campeggiante insieme alla stella al centro della bandiera turca, l’ultimo libro di Silvia Ronchey, La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto (Rizzoli «Saggi», pp. 256, €19,00), che raccoglie e rielabora venticinque articoli apparsi fra 2014 e 2017 sul Repubblica.
Già la genealogia di quest’immagine, che rimanda insieme ad Artemide e alla Vergine, protettrici della Bisanzio pagana e cristiana, intrecciandosi con la leggenda relativa all’eclissi di luna registrata in città durante l’assedio ottomano del maggio 1453, basta a illustrare i tratti dell’Oriente caro all’autrice, docente di Civiltà bizantina: essenzialmente un campo di tensione, in cui da più di un millennio convergono - per convivere o deflagrare - almeno tre culture, quella classica, bizantino-cristiana e islamica.
Paradossale emblema di tale sincretismo è lo stesso Cristo: il giovane falegname ebreo Yeoshua, «un punto minuscolo nel mare di parole della letteratura antica», si sovrappone a Mitra, a Dioniso, al su/ì indiano Yuz Asaf e allo stesso Buddha, mentre per converso l’assimilazione cristiana di Sid- dharta, che ancora compare come santo nel Martirologio Romano del 1583, avvenne soprattutto attraverso il Romanzo di Barlaam e Ioasaf.
Attraverso percorsi altrettanto tortuosi, sarà invece l’icona a esercitare un decisivo impulso sullo sviluppo dell’astrattismo novecentesco, conducendo fino alle repliche seriali di Andy Warhol e al blu «inconfondibilmente bizantino» di Yves Klein. Già al termine delle lotte iconoclaste, a Bisanzio le immagini sacre avevano infatti perduto ogni ambizione realistica, assumendo piuttosto lo status di interfaccia fra il visibile e l’invisibile, di «prototipi della figura umana trasfigurata» (così Trubeckoj).
L’Oriente della tradizione come prodromo di quello della rivoluzione, dunque: e del resto anche Hugo Ball, nella sua sorprendente fase post-dadaista, scriveva che il socialista e il mistico bizantino sono accomunati almeno da una cosa, il desiderio di abbandonare la cultura borghese alla sua decadenza.
È la minaccia dell’Isis ad aver restituito all’attualità molti dei luoghi citati nel libro, che è anche una sorta di carta termografica da cui emergono i nodi culturalmente e politicamente più significativi del Vicino Oriente. La comparazione storica scongiura però i rischi di troppo comodi parallelismi: se infatti il monastero di Santa Caterina sul Sinai, da tempo minacciato dai fondamentalisti, era considerato venerabile dallo stesso Maometto, la distruzione dei Buddha di Bamiyan e delle statue del museo di Mosul trova il suo precedente più prossimo non tanto nell’aniconismo islamico, quanto nel sacco crociato di Bisanzio del 1204, descritto in pagine drammatiche da Niceta Coniata; e del resto lo stesso terrore in full-HD dei videoproclami dello Stato islamico ha molto poco di orientale, costruito com’è a misura del pubblico occidentale abituato agli stilemi dell’horror movie.
Il luogo per eccellenza dell’incontro fra Oriente e Occidente rimane la città dai tre nomi, Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul: la sua immagine «lunare e femminile» palpita ovunque nel libro, anche quando il suo nome appare solo di sfuggita, come nelle scarne note del diario di Patrick Leigh Fermor, che pure ne aveva fatto la meta del viaggio attraverso l’Europa degli anni Trenta che egli impiegò tutta la vita a raccontare.
L’Occidente, non solo quello postmoderno per il quale il passato è ormai indistinguibile dalla sua ibridazione messa in scena da Game of Thrones, è stato spesso incapace di riconoscere l’autentico volto dell’Oriente, da un lato proiettandovi i suoi stessi mali e dall’altro cercando in esso le vie del loro riscatto; indagando «il passato con gli occhi del presente e il presente con gli occhi del passato», Silvia Ronchey guida i lettori alla decifrazione dei rintocchi della cathédrale engloutie (il titolo è debitore di Debussy), ricostruendo frammenti di una storia che, da sempre, è anche la nostra.
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La Repubblica | 17/03/2018 | Bisanzio brucia nella crociata dimentica…, Silvia Ronchey
Il 13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno, trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare sangue anziché lacrime”. Erano stati torturati, depredati delle loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli, violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453. Erano stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici dello stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico, pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana (Grandezza e catastrofe di Bisanzio – Narrazione cronologica, traduzione di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten, introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, 3 volumi, pp. 712, 787, 662, € 35, 30, 30).
Come ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici, che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale moschea, ma quell’”accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204 avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione politica: un modello di stato multietnico, meritocratico e sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata sono testimoniate non solo dagli storici bizantini — oltre a Niceta Coniata, Nicola Mesarita — ma anche dai cronisti occidentali — oltre al maresciallo Villehardouin, Roberto di Clari, Gunterio di Pairis, la Cronaca di Novgorod — nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III, inorridito nel suo epistolario. La Città traboccava di capolavori d'arte e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade e per le case, strappando tutto ciò che luccicava e distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti, lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggare le reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi. L’immensa opera di oreficeria dell’altare fu distrutta, smembrata e spartita. Mentre bevevano dal vasellame liturgico una prostituta seduta sul trono del patriarca intonò un'oscena canzone francese.
I corpi esanimi di ecclesiastici e notabili si ammucchiavano nelle chiese, nei palazzi, nelle prigioni. I vecchi, le donne e i bambini straziati, le monache violentate e strappate ai loro conventi giacevano agonizzanti per le strade. L’orrore continuò per giorni, finché la capitale dell'ortodossia fu ridotta, scrivono i testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è l’esempio piu’ notevole di quella cruda verità economica delle crociate di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, oggi in uscita in traduzione italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale e obiettivi strategici (C. Tyerman, Come organizzare una crociata, Utet, 548 pp., 26 €). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa e insendiando sul soglio patriarcale un veneziano.
L'alleanza della Realpolitik dei papi di Roma con l'Europa dei traffici, del protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca, dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante ricambio sociale. Fu uno scontro di civiltà diverso ma forse più radicale di quello odierno: il conflitto che otto secoli fa ha portato gli europei a distruggere l’impero che costituiva l’indispensabile interfaccia di mediazione e dialogo con quel mondo asiatico, già allora sempre più islamico, con cui oggi sempre meno ci sembra di comunicare segnò la definitiva frattura tra l’Europa occidentale e l’oriente europeo, il suo distacco dalla memoria storica, l’inizio della denigrazione della sua sofisticata tradizione politica.
Ancora oggi, nella presenza islamica al centro del Mediterraneo così come in pieno Adriatico, nelle perenni collisioni etniche da questa generate dopo l’affermazione degli stati nazionali, l'occidente continua a scontare la nemesi della storia per la Quarta Crociata. "Noi l’impero bizantino l’abbiamo smembrato da vivo, proprio come prescrivono i libri di cucina quando dicono: 'Il coniglio deve essere spellato vivo'! Noi abbiamo pelato viva Bisanzio", ha sintetizzato un grande storico francese, Fernand Braudel.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero nascosti in una casa porticata dall’ingresso buio, sperando di sfuggire alle incursioni e alle violenze. Ma si illudevano. Anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango, in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si gettò a terra e
inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché rimanevano insensibili, non si scioglievano in lacrime, non si sgretolavano al suolo, ma si reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro strada, si incamminarono verso Selimbria. Si sarebbero ricongiunti in seguito al resto degli esuli e al governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore.
Ma quella che Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto, pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente, diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente. Erano i figli del feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto, e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei cittadini di ogni livello verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica del profitto e del lucro. I barbari esistevano, nascosti sotto lo scudo crociato, e la bellezza e sapienza dell’eredità classica che Bisanzio aveva perpetuato, il patrimonio stesso della cultura mondiale, la possibilità per tutti i di fruirne, erano in pericolo.
Anche dopo la riconquista del 1261 e l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra banchieri — genovesi e veneziani – continuerà a devastare economicamente e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche e autodistruttive possano essere le strategie finanziarie e belliche degli esecutivi politici, gli intellettuali possono sempre, discretamente, mobilitarsi. Sempre di più si affermerà, tra i protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che chiamiamo “il” rinascimento. L’antica cultura oltraggiata dai crociati conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera, alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei loro possessori, nella primavera del 1204.
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Il Sole 24 Ore | 29/04/2018 | Mondi Svaniti. Tanta voglia di riscoprir…, Armando Torno
Un pensiero di Nicolas Gómez Dàvila, che si legge “In margine a un testo implicito” (Adelphi), è utile per proteggersi dalla catatonia del politically correct: «La religione non è nata dall’esigenza di assicurare solidarietà sociale, come le cattedrali non sono state edificate per incentivare il turismo». Già, le cattedrali. Quelle gotiche furono concepite in modo da trasformarsi in un punto di risonanza del cosmo, tanto che due compositori della Scuola di Notre-Dame, Leoninus e Perotinus, operanti tra il XII e il XIII secolo, crearono musiche da eseguire in armonia con l’architettura per cui furono concepite. Era un servizio liturgico e, al tempo stesso, un omaggio all'anima chiusa in quelle pietre. Elémire Zolla notò che ogni cattedrale acquisiva un proprio suono nei giorni di pioggia. Statue, doccioni, diavoli e tarasche, angeli e pinnacoli entravano in sintonia con gli scrosci, offrendo un concerto esterno. Una musica dentro e una fuori: si direbbe quasi che quei sacri luoghi suggerissero alle pietre un sogno che la comunità monastica degli Acemeti praticava a Bisanzio. Il nome letteralmente significa “coloro che non dormono”; non a caso ricorda il principio su cui era fondata la loro vita religiosa, ovvero l’alternarsi di gruppi nella salmodia, che giorno e notte facevano risuonare il monastero di cantici perenni, lodando senza requie Dio.
Tutto questo viene alla mente leggendo il libro di Silvia Ronchey, La cattedrale sommersa, che ha come sottotitolo Alla ricerca del sacro perduto. In tali pagine ritrovate Elémire Zolla, rimandi continui al mondo bizantino, questioni religiose (da Gesù ai testi biblici a numerosi temi del paganesimo greco); soprattutto il titolo richiama un brano del primo libro dei Preludi di Debussy, La Cathédrale engloutie, che ha come indicazione Profondément calme. La composizione rampolla dalle note do-re-sol che si dilatano, ritornano, cercano la dissonanza, s’inabissano, evocano un'antica leggenda celtica quasi strologando oltre un secolo fa quanto l’autrice descrive; «Tra gli archi gotici o forse selgiuchidi della cattedrale sommersa si impennano lo spirito apollineo greco e le preghiere esicastiche, i canti dei dervisci e l'urlo dionisiaco, il buddhismo e la mistica del Medioevo occidentale». La Ronchey non desidera far riemergere quelle pietre, più semplicemente - a pagina 8 - invita a omaggiarle con brevi apnee. Cerca il sacro che fu, inseguendo in una pagina Mithra, in un'altra Dioniso, in un’altra ancora «la molteplice maschera di Cristo».
Il libro nasce da (seri) articoli giornalistici: l'autrice spiega, traduce, indica il filo della sacralità che unisce la nascita del simbolo della Mezzaluna islamica e l'iconoclastia, la domanda di Pilato a Gesù sulla verità e un tentativo di rispondere al quesito sull’amore che trascina il discorso dal Cantico dei Cantici a Raimondo Lullo. Eleganti i rimandi a Bisanzio: sempre accattivanti, sia riguardino i concili consumatisi nell'area greca, sia si soffermino sulle mura di Costantinopoli, sia parlino di dadaismo. In tal caso, i rinvii sono numerosi e, tra essi, la Scala del Paradiso del siriaco Giovanni Climaco, che «combatte la realtà come una pestilenza e la zavorra della vita come un'eresia». Sono inviti a riflettere su una sacralità sperperata dalla follia umana e isterilita dal tempo, oggi scambiata con altro, delineati da una studiosa che nel 2014 ha curato il testo critico, con Paolo Cesaretti, del coltissimo bizantino Eustazio di Tessalonica, Exegesis in canonem iambicum pentecostalem (Walter de Gruyter, Berlino).
Morale: Silvia Ronchey è entrata nella cattedrale sommersa, ha scoperto atomi di eterno racchiusi in quelle pietre che ripetono singhiozzando le note di Debussy; ha ritrovato un lacerto di Delfi, un sortilegio pagano, un silenzio monastico di Bisanzio. Ha raccontato poi tutto indicando con “sacro perduto” la verità che conobbero mondi svaniti. Quella che ora sta consolando alcune anime rare.
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Segnalazioni Stampa (4)
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Il Secolo XIX | 16/12/2017 | 30 libri per Natale, Giuseppe Conte
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Io Donna | 16/12/2017 | Datemi un libro su misura. La cattedrale…, Maria Grazia Ligato e Monica Virgili
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Il Tempo | 27/12/2017 | Da Est a Ovest in cerca del sacro perdut…
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Il Corriere di Romagna | 29/04/2018 | Il sacro perduto è il nuovo argine contr…, Claudia Rocchi
La storica bizantinista Silvia Ronchey, docente all’Università RomaTre, presenta alle 17 in biblioteca Malatestiana a Cesena il libro “La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto” (Rizzoli, 2017).
Quale lo spunto della sua nuova ricerca?
«E stata come un’esplorazione subacquea partita dalla constatazione del nostro smarrimento di consapevolezze; da un lato quella del passato collettivo di storia, tradizioni, cultura; dall’altro quello individuale riconducibile a radici psicologiche».
Perché parla di sacro perduto?
«Perché abbiamo smarrito il sacro. Si parla di guerre di religione, di scontri, integralismi e confessioni, eppure mai come in questo periodo c’è una esigenza di ritrovare e capire il sacro; nella nostra memoria, nella storia, nel passato culturale collettivo, ma anche dentro di noi, nella coscienza».
È ricorrente nel libro la direttrice orizzontale Oriente-Occidente.
«Ciò perché emerge che la nostra civiltà, per cultura, interessi, economia, sta vivendo una nuova gravitazione verso Oriente, che è ciclica nella storia (ricordiamo quando Costantino spostò la capitale dell’Impero romano sul Bosforo), mai interrotta, anche se a volte sotterranea. Siamo attratti dalle religioni orientali, da Buddismo e Islam. Affronto perciò i rapporti fra religioni: paganesimo classico, religione olimpica, orientale, Cristianesimo, Mitraismo, cultura nestoriana. Tutte Chiese che stanno scontando le conseguenze dei conflitti in Siria, Iraq, Medio Oriente, anche sul piano dei simboli».
La simbologia è un altro suo riferimento.
«Perché abbiamo smarrito senso e provenienza dei simboli. Ho analizzato la terribile svastica del Novecento, in origine simbolo posato sul cuore del Budda nell’iconografia indiana orientale. E poi la mezzaluna dell’Islam, in realtà simbolo femminile, lunare, che proviene dalla grande madre mediterranea e dalle religioni classiche. Capire la storia dei simboli ci fa comprendere il mondo sommerso dentro di noi».
Dai simboli e dal passato bizantino si riallaccia agli attuali conflitti.
«La storia ci dice che quel lontano passato ha tenuto a freno alcuni problemi attuali; le cadute del Novecento, all’inizio dell’impero ottomano, alla fine di quello russo poi sovietico, hanno aperto uno scenario nuovo che ha condotto all’esplosione dei conflitti etnici. È vero che c’era stato il colonialismo ma, come diceva il grande storico Fernand Braudel, dobbiamo guardare la storia in relazione “dell’onda lunga”, a un passato non prossimo. Da qui il mio sguardo su Bisanzio, cerniera e chiave della doppia vocazione fra Islam e Cristianesimo che bruscamente il Novecento ha terminato».
Quali suggerimenti per superare gli ostacoli della storia di questi giorni?
«È importante avere una conoscenza collettiva che ci faccia comprendere quanto le cose siano meno semplici di come vengono dette dai politici, e quanto grande è la mistificazione, la propaganda».
Quale invece il ruolo nel presente di una biblioteca come la Malatestiana di Cesena?
«Avere messo in rete già nel 2003 molti dei suoi preziosi Codici, credo sia stato un lavoro fantastico, che ha dato opportunità a studiosi di tutto il mondo, io stessa me ne sono servita per la stesura del mio “L’enigma di Piero”».
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