Mondi Svaniti. Tanta voglia di riscoprire la sacralità
Tanta voglia di riscoprire la sacralità
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Un pensiero di Nicolas Gómez Dàvila, che si legge “In margine a un testo implicito” (Adelphi), è utile per proteggersi dalla catatonia del politically correct: «La religione non è nata dall’esigenza di assicurare solidarietà sociale, come le cattedrali non sono state edificate per incentivare il turismo». Già, le cattedrali. Quelle gotiche furono concepite in modo da trasformarsi in un punto di risonanza del cosmo, tanto che due compositori della Scuola di Notre-Dame, Leoninus e Perotinus, operanti tra il XII e il XIII secolo, crearono musiche da eseguire in armonia con l’architettura per cui furono concepite. Era un servizio liturgico e, al tempo stesso, un omaggio all'anima chiusa in quelle pietre. Elémire Zolla notò che ogni cattedrale acquisiva un proprio suono nei giorni di pioggia. Statue, doccioni, diavoli e tarasche, angeli e pinnacoli entravano in sintonia con gli scrosci, offrendo un concerto esterno. Una musica dentro e una fuori: si direbbe quasi che quei sacri luoghi suggerissero alle pietre un sogno che la comunità monastica degli Acemeti praticava a Bisanzio. Il nome letteralmente significa “coloro che non dormono”; non a caso ricorda il principio su cui era fondata la loro vita religiosa, ovvero l’alternarsi di gruppi nella salmodia, che giorno e notte facevano risuonare il monastero di cantici perenni, lodando senza requie Dio.
Tutto questo viene alla mente leggendo il libro di Silvia Ronchey, La cattedrale sommersa, che ha come sottotitolo Alla ricerca del sacro perduto. In tali pagine ritrovate Elémire Zolla, rimandi continui al mondo bizantino, questioni religiose (da Gesù ai testi biblici a numerosi temi del paganesimo greco); soprattutto il titolo richiama un brano del primo libro dei Preludi di Debussy, La Cathédrale engloutie, che ha come indicazione Profondément calme. La composizione rampolla dalle note do-re-sol che si dilatano, ritornano, cercano la dissonanza, s’inabissano, evocano un'antica leggenda celtica quasi strologando oltre un secolo fa quanto l’autrice descrive; «Tra gli archi gotici o forse selgiuchidi della cattedrale sommersa si impennano lo spirito apollineo greco e le preghiere esicastiche, i canti dei dervisci e l'urlo dionisiaco, il buddhismo e la mistica del Medioevo occidentale». La Ronchey non desidera far riemergere quelle pietre, più semplicemente - a pagina 8 - invita a omaggiarle con brevi apnee. Cerca il sacro che fu, inseguendo in una pagina Mithra, in un'altra Dioniso, in un’altra ancora «la molteplice maschera di Cristo».
Il libro nasce da (seri) articoli giornalistici: l'autrice spiega, traduce, indica il filo della sacralità che unisce la nascita del simbolo della Mezzaluna islamica e l'iconoclastia, la domanda di Pilato a Gesù sulla verità e un tentativo di rispondere al quesito sull’amore che trascina il discorso dal Cantico dei Cantici a Raimondo Lullo. Eleganti i rimandi a Bisanzio: sempre accattivanti, sia riguardino i concili consumatisi nell'area greca, sia si soffermino sulle mura di Costantinopoli, sia parlino di dadaismo. In tal caso, i rinvii sono numerosi e, tra essi, la Scala del Paradiso del siriaco Giovanni Climaco, che «combatte la realtà come una pestilenza e la zavorra della vita come un'eresia». Sono inviti a riflettere su una sacralità sperperata dalla follia umana e isterilita dal tempo, oggi scambiata con altro, delineati da una studiosa che nel 2014 ha curato il testo critico, con Paolo Cesaretti, del coltissimo bizantino Eustazio di Tessalonica, Exegesis in canonem iambicum pentecostalem (Walter de Gruyter, Berlino).
Morale: Silvia Ronchey è entrata nella cattedrale sommersa, ha scoperto atomi di eterno racchiusi in quelle pietre che ripetono singhiozzando le note di Debussy; ha ritrovato un lacerto di Delfi, un sortilegio pagano, un silenzio monastico di Bisanzio. Ha raccontato poi tutto indicando con “sacro perduto” la verità che conobbero mondi svaniti. Quella che ora sta consolando alcune anime rare.