S. Ronchey, La Città delle città, in S. Ronchey – T. Braccini, Il romanzo di Costantinopoli. Guida letteraria alla Roma d’Oriente, Torino, Einaudi, 2010, pp. v-xxvii
2010
L’antica Costantinopoli è un microcosmo che riflette puntualmente il cosmo culturale e politico della basileia in cui la sapienza filosofica ellenica si era saldata con la tradizione giuridica e amministrativa romana, rendendo Bisanzio per undici secoli la superpotenza del Mediterraneo geografico, ma anche il soggetto culturale egemone di quello che Braudel ha chiamato il Mediterraneo Maggiore, e che prolungherà l’evo antico in un’ellissi orientale destinata a ricongiungersi direttamente col Rinascimento escludendo la nozione stessa di Medioevo.
A tenerla insieme è un tessuto connettivo materiale e simbolico.Tutto, all’interno della sua topografia, che è anche una mappatura del molteplice genoma culturale bizantino, si tiene in un ordine visivo che è contemporaneamente funzionale e metaforico. L’illimitata e inimitata cupola della Divina Sapienza, il cui sesto appiattito come un disco domina la Città, celebra la Sapienza del Logos infuso nell’ingegno umano e si scinde e riflette in una pluralità di altre cupole, a perdita d’occhio. Lungo i mitici sette colli, la Polis dispiega i suoi monumenti e li moltiplica attraverso i secoli, emanando messaggi perennemente puntuali.
Una rete di connessioni precise, non solo architettoniche, lega le statue e gli obelischi dell’Ippodromo agli altri principali monumenti della Città. La Porta d’Oro, «scintillante» ancora nei resoconti dei viaggiatori tardomedievali. L’alfabeto delle colonne onorifiche – di Teodosio e di Arcadio, di Costantino e di Giustiniano, di Marciano, dei Goti, della Vergine — scandisce la sequenza di Fori che si dilatano lungo i percorsi cerimoniali — la Mese Odos, via Triumphalis e via Purpurea, fino al Milion, ma anche le vie Magnae, le vie Maiores, le vie Perpetuae — e socchiudono le loro ellissi colonnate. I mausolei imperiali dei Santi Apostoli, in cui si rispecchia la volta zodiacale degli ellèni, e la loro prosecuzione in quelli del Pantokrator.
E, sopra tutto, il Palazzo sparso dalla terra al mare, la Città Proibita dell’impero di Bisanzio, unico rivale di quello della Cina, come le fonti medievali attestano e come si riflette anche nelle testimonianze dei viaggiatori. L’assetto architettonico del Grande Palazzo rispecchia la complessità gerarchica del più complesso degli stati antichi, la molteplicità delle sue funzioni e dei suoi funzionari, delle sue dignità e dei suoi dignitari. Così come le fazioni dell’Ippodromo e i demi rispecchiano la pluralità della popolazione cittadina, nel ventaglio delle corporazioni e dei mestieri, e la ritualizzazione di ognuno di loro nelle danze, nei giochi, nelle acclamazioni ritmiche e nei percorsi ritmati dai toni cromatici e musicali riflessi e riecheggiati nel Libro delle Cerimonie.
Il kosmos sociale e sacrale, politico e religioso, si condensa e si irrigidisce nell’architettura della Città a ondate successive lungo gli undici secoli della sua esistenza bizantina. La sua ineludibile molteplicità viene descritta dagli autori greci — da Procopio a Silenziario, da Malala a Teofane, da Fozio a Leone Cherosfatta, da Costantino Rodio a Simeone Logoteta, da Psello a Cedreno, da Zonara a Tzetze, dallo Ptocoprodromo ad Anna Comnena, da Costantino Manasse a Nicola Mesarita, da Niceta Coniata a Giorgio Acropolita, da Niceforo Callisto Xantopulo e Niceforo Gregora a Ducas — così come dagli stranieri che durante la vita di Bisanzio vi approdarono — dall’Anonimo cinese a Harun ibn Yahya, da Liutprando da Cremona a Bartolfo di Nangis, da Giuseppe di Canterbury a Odone di Deuil, da Beniamino di Tudela a Gunterio di Pairis, da Robert de Clari a re Sigurd, da Ibn Battuta a Ruy Gonzalez de Clavijo, da Cristoforo Buondelmonti e Bertrandon de la Broquière a Pero Tafur.
A partire dalla seconda metà del XV secolo, subito dopo la Conquista ottomana del 1453, un popolo di dotti viaggiatori salpò dall’Europa occidentale, risparmiata dall’ondata turca. Tutto lo spessore del passato bizantino affiora dalle pagine di quegli eruditi che affluivano verso il Bosforo, calamitati dalle radiazioni storiche del luogo. Il catalogo è lungo: dai tardoquattrocenteschi e cinquecenteschi come Bonsignori, Maurand, Belon, Nicolas de Nicolay, Ghislain de Busbecq, Du Fresne-Canay, Gerlach, Schweigger, Palerne, entrando poi nel grande Seicento con Fynes Moryson, George Sandys, Pietro della Valle, Michel Baudier, Vincent de Stochove, Nicolas du Loir, Balthazar de Montconys, Jean de Thévenot, Paul Tafferner, Thomas Smith, Jacob Spon e George Wheler, Cornelis de Brujn, Aubry de la Motraye, sfiorando infine il Settecento con Joseph Pitton de Tournefort. I loro nomi si recitano come un rosario di devozione verso la Città. Tutti consegnano i loro rilievi a scritti puntuali, informati, inestimabili. Due di loro — Pierre Gilles e Guillaume-Joseph Grelot — regaleranno ai posteri testimonianze inestimabili sui monumenti bizantini scomparsi o snaturati.
Dalla metà del Settecento a tutto l’Ottocento gli europei smarriscono il senso di Bisanzio e nella Polis perdono, letteralmente, l’orientamento. Casanova accusa il «panorama superbo» del Bosforo di avere causato la fine dell’impero romano e dato inizio alla decadenza di costumi di un impero greco che Costantino fonda perché «sedotto dalla vista del luogo». La sofisticata paradossalità di Lady Montagu, nutrita di innumerevoli letture e di un’appassionata cultura classica, sdegna l’architettura di Santa Sofia, dando inizio a un cliché che ricorrerà in molta letteratura successiva. Melville, pur abituato alle estreme avventure delle esplorazioni marine e agli intricati sentieri delle foreste americane, perderà a tal punto l’orientamento nelle vie di Costantinopoli da doversi munire di bussola e ciononostante perdersi, sino a definire la Città un labirinto: «Proprio come perdersi in una foresta. Un perfetto labirinto. Stretto. Chiuso, serrato». Il kosmos urbano perfettamente leggibile, la pregnante topografia inconfondibile sino alla fine dell’impero e a tutto il Seicento, a partire dal Settecento diventa un inintellegibile caos.
Il primo Ottocento esalta la Roma classica e ne condanna la “degenerazione” bizantina nel visitare la Città che ne è epitome e specchio. Per Chateaubriand quella «frontiera tra i due mondi» è «la capitale dei popoli barbari» in cui si scorgono «monumenti antichi, senza rapporto con gli uomini», come se fossero stati «trasportati in questa città orientale con un talismano». D’altro lato, l’Ottocento romantico è completamente assorbito nel paesaggio, disorientato e sperso quando si tratta di monumenti di cui non coglie più il senso, la funzione, il legame reciproco, il tessuto di nessi. Le metafore vegetali di Lamartine per i monumenti dell’Ippodromo sono rivelatrici quanto l’esaltazione, nel canonico giro delle mura, degli aspetti naturali su quelli, pur macroscopici, dell’ingegneria bizantina. L’immagine delle mura come specie di grandi masse di rocce metamorfiche in continuo smottamento tellurico domina i resoconti ottocenteschi, influenzando anche gli autori più didascalici, come De Amicis e Maynard-Dumas. Lo stereotipo dell’incanto della visione della Città come paesaggio contrapposto alla disillusione per ciò che è prodotto dalla sua storia culturale umana, compresi i suoi monumenti, ricorre invariabile da Byron a Baratta, dalla Comtesse Dash a Thackeray, da Maynard e Dumas a Twain, da Melville ai tardoromantici: ultimo, Gobineau, che tuttavia, per il grandioso scenario naturale di Costantinopoli, parla di «natura fisica imbevuta di natura morale».
Nel Novecento l’effetto del costituirsi della bizantinistica come scienza e disciplina universitaria — il suo atto di nascita si coglie proprio nella Polis tra il 1875 e il 1885, con i viaggi di Gustave Schlumberger e di Karl Krumbacher – produce, parallelamente al recupero monumentale di Santa Sofia da parte di restauratori come i fratelli Fossati e poi come il “raschiatore” Whittemore, un recupero culturale. I letterati cominciano a leggere, con una rapidità sconcertante, quello che la giovane bizantinistica offre loro: se Dos Passos sull’Orient Express studia Diehl, Butor ha letto l’edizione di Psello pubblicata da Renauld nelle Belles Lettres e riesce a visualizzare quasi in una trance, seduto in un caffè del vecchio Ponte di Galata, la facies della Costantinopoli bizantina. Questa letteratura a sua volta innesca nuovo interesse per gli scavi, i restauri e gli studi, in un circolo virtuoso che condurrà, negli anni 40 e 60, alle grandi opere di recupero di San Salvatore in Chora (Kariye Camii), della Pammakaristos (Fethiye Camii), di alcuni mosaici del Palazzo, e ai primi scavi sistematici in questa e in altre aree della Città antica.
Da allora in poi, questa sotterranea dialettica degli studi e degli scrittori porterà a un’accelerazione delle conoscenze. Il Novecento riprenderà non solo a orientarsi nella Città, a sconfiggerne il labirinto, ma a comprenderne il passato e a ritrovarne e seguirne le tracce. Una comprensione che oggi ripropone, nelle pagine degli scrittori greci e turchi, il millennio di Bisanzio come esempio cui guardare per la risoluzione dei conflitti postcoloniali e Costantinopoli stessa, proprio nella sua topografia, come simbolo di mediazione tra civiltà.