Il romanzo di Costantinopoli
2010
Silvia Ronchey e Tommaso BracciniEinaudi
Le voci di centocinquanta testimoni, tra poeti, viaggiatori, filosofi, esploratori, eruditi, pellegrini, avventurieri di ogni nazionalità ed epoca, accostate come in un mosaico variegato e scintillante, compongono l’eterno «romanzo» di Costantinopoli. Da Procopio a Le Corbusier, da Paolo Silenziario a Mandel’stam, da Psello a Dos Passos, da Anna Comnena a Flaubert, da Ibn Battuta a Gide, da Gilles a Loti, da Grelot a Melville, da Andersen a Cocteau, da Chateaubriand a Fermor, da De Amicis a Mark Twain, da Byron a Yeats, da Nerval a Pamuk, narrazioni e descrizioni si snodano attraverso la Roma d’Oriente in dieci percorsi: un inconsueto itinerario topografico che è anche un viaggio nel tempo e nei segreti di un’eredità storica, artistica e culturale, quella bizantina. Ogni percorso è illustrato da una mappa-itinerario e da un’introduzione scientifico-narrativa ai monumenti e ai luoghi, che fornisce anche indicazioni precise per rintracciarli nel «labirinto» dell’antica Città. Un breve apparato di note, un’indispensabile quanto aggiornata bibliografia e un supplemento biografico con i profili di tutti gli autori convocati completano il volume, corredato inoltre da piú di centocinquanta immagini tra disegni, incisioni, foto d’epoca e mappe. (Dalla quarta di copertina)
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La Repubblica | 13/11/2010 | Per mille e cento anni fu considerata il…, Piero Citati
Per mille e cento anni, Costantinopoli fu il cuore del mondo. Per mare e per terra, svedesi, danesi, tedeschi, inglesi, russi discendevano verso il Bosforo; e persiani, arabi, amalfitani, veneziani, genovesi, normanni risalivano verso il Bosforo. All’alba, quando i viaggiatori si alzavano per contemplare Costantinopoli, la città era nascosta, o mascherata, o lasciava confusamente trasparire le infinite abitazioni. Attorno alle navi si stringeva una luminosa nebbia bianca, qualcosa di folto, umido e lattiginoso: il primo segno di Costantinopoli. Verso mezzogiorno, quando cominciò a soffiare una brezza, la spessa nebbia lattiginosa si diradò. Poi scomparve. All’improvviso, tutto fu chiarore, splendore, irradiazione, trionfo. La folla degli oggetti luminosi abbagliarono gli occhi che non riuscivano a contemplarli tutti insieme; e la visione era raddoppiata e moltiplicata nelle acque del mare. Tra queste innumerevoli visioni di Costantinopoli, una si distinse tra tutte: quella dell’estate 1203 quando le navi veneziane arrivarono a Santo Stefano: «Nessuno poteva immaginare esserci nel mondo –scrisse Geoffroy de Villehardouin - una città tanto ricca, quando vedemmo quelle alte mura e quelle torri possenti, dalle quali è racchiusa tutt’intorno in un cerchio, quei ricchi palazzi in così gran numero e quelle alte chiese, e nessuno avrebbe potuto crederlo se non l’avesse visto con i suoi occhi». Tutti provarono stupore. «L’illustre e venerabile città brillava stranamentedi un’infinità di meraviglie», insisté Geoffroy de Villehardouin. Sulla riva della città si levavano centinaia di statue: statue che i primi imperatori avevano saccheggiato dai tesori dell’Occidente e dell’Oriente, che col passare degli anni diventarono segrete, fantastiche, incomprensibili, o soggette a qualsiasi interpretazione.
La più bella era, probabilmente, una statua di bronzo alta trenta piedi che sorgeva nel Foro di Costantino. Molti l’attribuirono a Fidia. La veste a pieghe giungeva ai piedi per proteggere dagli sguardi umani le membra divine. Com’era bella quella figura misteriosa! Il capo era quietamente inclinato, il collo nudo e lungo, il corpo si chinava mollemente, le vene corrugavano la fronte, i capelli intrecciati e legati dietro il capo sfuggivano all’elmo, ciocche scendevano sul viso, gli occhi gettavano dardi, la mano sinistra sollevava le pieghe della veste. Il bronzo imitava ogni particolare del corpo, si piegava, si modulava, diventava viso, collo, capelli, abiti; e sembrava trasformarsi in voce e parola. Tutta la figura senza vita fioriva di vita, «facendo fluire negli occhi tutta la forza dell’ardore». Nessuno - scriveva Niceta Coniate - aveva mai visto una «donna di così invincibile dolcezza». * * * Nel Foro, sopra una grande colonna di porfido, sorgeva una colossale statua bronzea di Costantino: aveva la forma di Apollo-Helios, come una volta a Roma, molti secoli prima, era stato rappresentato Nerone davanti alla Domus Aurea. Portava uno scettro nella destra, un globo nella sinistra e una corona di raggi lucente sul capo. Tre secoli più tardi, la figura dell’imperatore Giustiniano appariva a cavallo, molto più piccola. Nella parte superiore, c’era Cristo avvolto da un disco col sole, la luna, una stella sorretta da due angeli: benediva con una mano e con l’altra reggeva una croce. Giustiniano montava un destriero focosissimo, che si impennava uscendo dalla cornice: una vittoria reggeva la palma del trionfo, mentre la terra, seminuda, teneva la staffa del cavallo in un gesto di sottomissione. La città di Costantinopoli veniva raffigurata nelle tre forme della luna pagana: Artemide, Selene, Ecate: l’acqua lunare la circondava, come nell’ultimo libro delle Metamorfosi di Apuleio. La luna pagana era Maria cristiana, che irradiava il mondo di candore luminoso. Uno degli imperatori bizantini adorò Maria con una mania profondissima: la rimirava di continuo, la divorava con gli sguardi, le erigeva intorno gli arredi di una reggia, dispiegava drappi di porpora. Così Costantinopoli fondeva in sé tutte le luci possibili: quella di Apollo e quella del Sole, quella di Cristo, di Artemide, di Maria: lo splendore più ardente si mescolava con lo splendore più delicato; il chiarore più freddo con quello più prossimo. * * * Santa Sofia, “la chiesa senza pari”, “il modello del Paradiso”, come dicevano i turchi, era stata inaugurata nel 360: distrutta in una rivolta del 404, ricostruita nel 415, di nuovo distrutta nel 532; e di nuovo definitivamente inaugurata il 27 dicembre 537. Sopra una grandissima lastra bianca, la mano della natura aveva inciso segni, venature, rilievi, screziature, che disegnavano a loro volta le figure umane di Gesù Cristo, Maria e Giovanni Battista. La pietra sembrava illusione: il sasso immagine umana; e tutto era variegato, suscitando in chi vedeva stupore e sgomento. Gli architetti avevano rivestito il pavimento di lastre di marmo colorato, o di sottilissime luci policrome. Se dal pavimento si guardava Santa Sofia, la volta sembrava un infinito cielo stellato, e se dalla cupola si guardava il pavimento, ecco, le pietre tumultuavano, ondeggiavano, oscillavano, sembravano un ardimentoso mare in tempesta. Quando qualcuno penetrava sotto la cupola di Santa Sofia, la sua mente si innalzava verso Dio, nella convinzione che Egli fosse lì accanto, lì prossimo, e che amasse risiedere nel luogo che aveva prescelto. Santa Sofia, scriveva mirabilmente Procopio, era uno spettacolo bellissimo, quasi eccessivo per chi lo vedeva, e assolutamente incredibile per chi ne sentiva parlare. Era luce e riflesso. Sembrava «che la luce non venisse da fuori, ma che un bagliore accecante nascesse nel suo interno». Tutto il soffitto era rivestito d’oro puro, per aggiungere maestà alla bellezza, eppure lo splendore dell’oro era sopraffatto dal barbaglio della pietra preziosa. Fasci di luce penetravano da finestre diverse, convergendo verso un punto diafano, oppure incrociandosi ad altezze varie, le lame di luce scivolavano lungo le pareti e si allungavano sul pavimento. Questa mobile irradiazione accresceva, agli occhi di tutti, l’effetto irreale e inverosimile della visione. In alto, in alto, Santa Sofia culminava in un quarto di sfera, al di sopra della quale si elevava un’altra semisfera, «di bellezza meravigliosa ma anche spaventosa», perché, diceva Procopio, tutto sembrava instabile, inquieto e incerto e in procinto di crollare al suolo. «Chi potrebbe descrivere lo splendore delle colonne e delle pietre che le abbelliscono? Sembrava di essere capitato in un superbo prato fiorito. Allo sguardo ammirato si offriva la tonalità purpurea, verde, rosso acceso, bianco brillante delle pietre, per non parlare dei marmi che la natura, come una pittrice, aveva screziato di tinte d’ogni sorta». Ciò che sorprendeva nelle vette di Santa Sofia, era l’estrema cangiabilità del sacro, la mobilità incessante dell’eterno, simile alle irradiazioni degli angeli evocate nei libri dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita. Settantadue tonalità diverse brillavano, secondo la natura della pietra, delle perle e dei materiali più diversi. Maometto II aveva conquistato Costantinopoli penetrando in Santa Sofia nel dicembre 1453. La sua era una tremenda passione erotica. Non sapeva allontanare dal suo cuore il pensiero dell’amatissima città. Conversava con l’immagine della sua sposa, contemplava la sua bellezza, parlava di quando l’avrebbe conquistata, congiungendosi nel suo grembo. Adorava la «lunga e profonda fessura odorosa del Corno d’oro»: un’immensa vagina di acqua, di terra e di alberi. Provava la stessa passione per Santa Sofia. Quando volle godere lo spettacolo delle opere d’arte, salì sulla superficie concava della cupola, come Gesù -“il soffio di Dio”- ascese al quarto cielo. Dopo aver ammirato il mare ondoso del pavimento, raggiunse la cima. Così sia Costantinopoli sia Santa Sofia, diventarono la più intima delle sue passioni. In apparenza, Costantinopoli era vastità, grandezza, teatralità, sublimità, tragedia, ineffabilità – tutto portato all’estremo, fino a inebriare ed estasiare gli abitanti della capitale. In realtà gli architetti, gli artefici, i truccatori cercavano qualcosa di profondamente diverso, come accadeva a Bagdad e a Ctesifonte: qualcosa di stravagante e di illusionistico, di bizzarro e di eccentrico. Secondo il famoso racconto di Liutprando, un albero di bronzo dorato era disposto davanti al trono imperiale: i rami erano gremiti di uccelli di ogni specie e colore, anch’essi in bronzo dorato; e ciascuno degli uccelli emetteva il canto inconfondibile della sua specie. In quel momento gli ambasciatori si prosternarono tre volte a terra, secondo un costume che risaliva ad Alessandro Magno. Il trono imperiale appariva dapprima disteso, poi si innalzò e in un attimo torreggiò altissimo nella grande stanza, custodita da leoni di immensa grandezza che sferzavano il pavimento con la coda e ruggivano con la bocca aperta. L’imperatore di Costantinopoli era in primo luogo il signore delle forme e delle apparenze e delle liturgie. Quando nasceva, si sposava o aveva figli, la città era in festa per sette giorni e su tutte le piazze si mangiava e beveva a spese del sovrano. Le strade erano purificate: durante le processioni si spargevano fiori sul selciato, sulle finestre e sui balconi: si esponevano le suppellettili più preziose e si ostentava vasellame d’oro e d’argento. Un tappeto di bellissima lana rappresentava una coda di pavone: le stoffe di seta, tinte con porpora di Tiro, erano ricamate con l’ago; si esaltava lo scarlatto fiammante, il cupo viola, il delicato splendore del verde. I fabbricanti degli oggetti di lusso – orefici, importatori di seta, mercanti di lino, profumieri, autori di bronzi niellati - affermavano al mondo intero il prestigio di Bisanzio. Come scriveva lo storico turco, «si mescolavano le bellezze greche, franche, russe, ungheresi, cinesi»: le belle dai morbidi capelli, le fanciulle simili alle stelle della Lira, fresche come il gelsomino, alte e sottili come il cipresso, con la fronte simile alla luna e le ciglia al Sagittario. In momenti straordinariamente solenni, l’imperatore lasciava da solo il palazzo e passava il Bosforo in una galera imperiale. Quando raggiungeva la giusta distanza dal ponte, conosceva la visione spettacolare e grandiosa della città. Allora, si alzava sulla sedia: restava in piedi guardando verso est con le mani alzate al cielo, faceva tre volte il segno della croce sulla città e poi rivolgeva una preghiera a Dio: «Signore Gesù Cristo mio Dio, nelle tue mani affido questa tua città: preservala, Ti prego, dall’assalto di ogni avversità e tribolazione, dalla guerra e dalle invasioni straniere. Conservala inviolata dalla cattura e dal saccheggio, perché è in Te che abbiamo riposto la nostra speranza e Tu sei signore di misericordia e padre di pietà e Dio di ogni consolazione e a Te spetta avere grazia e preservarci e salvarci dalle difficoltà e dai pericoli ora e per sempre e nell’eterno dell’eterno». Mai, come in quel momento, l’imperatore aveva rivolto al cielo una preghiera così commovente: così tenera, delicata e quasi indifesa.
Il Romanzo di Costantinopoli di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini (Einaudi, pagg. XXXI- 956, euro 28) è un libro bellissimo. Contiene testi bizantini, francesi, inglesi, americani, turchi, arabi, italiani, tedeschi: scelti con grazia e intarsiati con rara raffinatezza.
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Left | 29/12/2012 | Istanbul, la femmina, S. Maggiorelli
Mentre sta lavorando alacremente a una grande mostra storica su Bisanzio che per la prima volta esporrà a Roma i tesori bizantini della Chiesa cattolica, accanto a quelli della Chiesa ortodossa e quelli del museo di Istanbul, Silvia Ronchey non trascura il lavoro di scrittrice, di studiosa e di divulgatrice della storia del Vicino Oriente. Così mentre è da poco più in libreria l’antologia realizzata con Tommaso Braccini Il romanzo di Castantinopoli, (Einaudi) che riscopre testi di scrittori, viaggiatori, filosofi e artisti sulle rotte della grande città turca, comincia ad accendersi l’interesse intorno al suo nuovo libro dedicato alla filosofa e scienziata alessandrina Ipazia, assassinata nel IV secolo d.C. da fondamentalisti cristiani. Con il titolo Ipazia, la vera storia uscirà il 10 novembre per Rizzoli . Un’interessante doppia uscita editoriale che ci ha spinti a cercare la docente di Filologia classica e civiltà bizantina dell’Università di Siena. Professoressa Ronchey, perché un nuovo libro su Ipazia? Cosa l’ha lasciata insoddisfatta dei molti titoli usciti nel 2010? È vero, c’è un affiorare nelle librerie e nei giornali di pubblicazioni su Ipazia ma molte sono riedizioni, sulla scia del successo del film di Amenábar. Così La Lepre ha ripreso il libro di Petta e La Tartaruga quello di Moneti Codignola. Io stessa avevo scritto su Ipazia in un volume miscellaneo uscito, ormai 17 anni fa, per Laterza. E da anni mi riproponevo di tornarci. Il fatto che siano uscite molte rielaborazioni letterarie, attualizzazioni e ricostruzioni libere, mi ha dato il la per tornare alla storia con metodo scientifico. Già alcuni mesi fa al convegno in Treccani lei aveva posto l’accento sulla complessità del contesto in cui Ipazia fu uccisa. Era un quadro complesso non riducibile a uno scontro ideologico fra cristiani e pagani. Da Diderot in poi ha preso campo la posizione illuminista che legge l’assassinio di Ipazia come l’uccisione del libero pensiero da parte di una Chiesa. Arrivando anche a vedere in Ipazia una proto-illuminista. Dal punto di vista storico, però, non possiamo trascurare che Ipazia era un’autorevolissima caposcuola di una confraternita platonica, dunque una teurga. Ma ci sono anche tanti altri punti da chiarire senza facili semplificazioni. Anche per questo ho pensato di aggiungere al mio libro un apparato di “documentazione ragionata”. Dove c’è quello che un lettore può voler sapere a partire da quanto racconto nella storia principale. Sono documenti che aiutano a capire la complessità di dibattiti come, per esempio nei secoli ha continuato a rappresentare la città, in origine era il simbolo di Artemide. Poi anche la Madonna così è diventata una divinità femminile e lunare. Questo simbolo della falce lunare campeggia anche nella bandiera ottomana. C’è una continuità femminile che ritorna anche nelle titolazioni delle chiese, a cominciare da Santa Sofia. Non solo. La “femminilità” di questa città fu captata anche dai conquistatori. In alcune cronache incluse nel Romanzo di Costantinopoli si parla quasi in termini “pornografici” della penetrazione in città. Nella prefazione a Figure bizantine di Charles Diehl lei ricorda che opere letterarie e teatrali come Teodora contribuirono a creare il mito di un Oriente seducente ma pericoloso. Cocteau definiva Costantinopoli «la decrepita mano ingioiellata che si protende verso l’Europa». Lo stereotipo della decadenza cominciò già a definire Bisanzio e continuò nella definizione di Costantinopoli. Vista come minaccia ipnotica seduttiva, quasi vampiresca. Ma va anche detto che molti scrittori, soprattutto nell’Ottocento, che parlavano di questa malìa negativa, scrissero le loro cose migliori proprio a Costantinopoli o grazie a un’ispirazione che veniva loro da lì. Vale per Flaubert per Potocki, per Byron e molti altri. Per cui sì, lo stereotipo della seduttrice pericolosa è la creazione di uno stereotipo orientale, di una Medea, di una sirena, a lungo operante, ma che ripaga gli scrittori, trasformandosi a posteriori in musa. Proprio parlando di sirene è intervenuta di recente su Radio 3, ne nascerà un libro? Il mio intervento si basava su un libro di Luigi Spina, Il mito delle sirene. Uno studio fantastico che ripercorre anche l’oltre vita simbolico e letterario della sirena. A questo non c’è da aggiungere altro. Mi interessava il fatto che questo mito ci lascia intendere che già i greci avevano una visione alterata dell’immagine femminile. La paura della donna c’era già in Omero. Da sempre l’immagine femminile si sdoppia in un’immagine materna (la Madonna) e un’immagine mortifera, che in realtà è l’altra faccia della madre. In una battuta, ecco perché molto spesso gli uomini hanno una moglie e un’amante. C’è una scissione nella ricerca, nell’attrazione per l’immagine femminile. E questo è un aspetto che obiettivamente manca nella donna. I miti antichi ci danno conto di questa inquietudine per quel volto, la faccia scura della Madonna, simbolo lunare. La donna sarebbe questo essere che ti fa perdere i confini dell’io, trascinandoti in una naturalità, in un mondo di puro istinto, di pura passione. Un mondo di smarrimento, di ebbrezza. Le figure del mito non a caso sono tutte legate a elementi dionisiaci, perfino alle droghe, il nepente di Elena, il nome stesso di Medea si lega alla sua capacità di preparare droghe. Similmente per Medusa. Oggi i greci per dire sirena usano Gorgone. Quello delle sirene è un canto, legato a una dimensione dionisiaca che fa uscire l’uomo dalla coscienza, questa è la sua grande forza. Da qui la paura della passione che scinde l’animo del maschio, che sia Odisseo o che sia quello di oggi quello sul monofisismo e che sono sullo sfondo della vicenda di Ipazia. La quantità di interventi su Ipazia (anche sul web) testimoniano comunque un interesse vivo e diffuso. Perché si accende ora? Ci troviamo in un momento storico in cui la laicità ritorna di attualità e ha bisogno di attingere a qualche precedente. Abbiamo attraversato periodi di grandi fedi secolari, di grandi fedi e ideologie pervasive che a un certo punto sono venute a crollare. Al contempo abbiamo assistito a un rigurgito teocon, alla salita al soglio pontificio dell’ala più conservatrice della Chiesa cattolica. C’è da notare che l’ayatollah Khomeini e Woytila sono ascesi al vertice in contemporanea. Poi il pontificato di Ratzinger ha portato un alteriore irrigidimento fondamentalista. Insomma appare chiaro quanto sia urgente un dibattito sulla laicità. E spero che il mio libro possa contribuirvi. Al centro non a caso c’è il tema del rapporto fra Stato e Chiesa. Nella Alessandria del IV secolo c’era un’in- fluenza politica diretta sullo Stato da parte di Cirillo che fu fortemente contrastata nel mondo bizantino. Un’in- filtrazione che divenne una bandiera dell’infiltrazione papista cattolica nello Stato. Questo ci spiega perché la vicenda di Ipazia sia stata così censurata in Occidente. Alessandria d’Egitto era una città multietnica e multiculturale. E ancor più lo è stata Costantinopoli lungo i secoli. Da qui il fascino di Istanbul? Qui ci riallacciamo a quanto dicevo prima: Costantinopoli fu lo specchio della civiltà di cui era capitale. Per più di undici secoli, sommando quelli bizantini a quelli ottomani. Gli ottomani che conquistarono Costantinopoli nel 1453 si posero come continuatori di quella civiltà statale che era stata dell’impero multietnico bizantino. Una convivenza, non solo di etnie ma di culti era alla base dell’esistenza stessa di questa superpotenza del Medioevo che lo sarà anche nell’Età moderna. La forza bizantina, e poi ottomana, stava nella capacità di mescolare, di amalgamare tradizioni e culture o, nel caso, di tollerarle. Quello ottomano era uno stato laico con una distinzione netta fra potere spirituale e temporale. Già al momento della conquista, Maometto II non impose l’islam come religione di Stato ma nominò un patriarca ortodosso, cosa che non fecero i crociati che, invece, presa Costantinopoli, sostituirono al patriarca bizantino ortodosso un loro patriarca latino. Il fascino di questa città nasce dal suo incarnare un ideale di fusione e di tolleranza, come capacità inclusiva. Per questo il passato bizantino ha molto da dare a un’epoca come la nostra di scontro di civiltà. Per undici secoli questo scontro è stato evitato proprio lì, sull’istmo. Il volto di Istanbul appare, ieri come oggi, molto stratifico. È la città che più di ogni altra al mondo mantiene i simboli delle civiltà sconfitte. E proprio questo è il filo di Arianna che abbiamo seguito con Baccini nel preparare questa antologia. L’architettura e la pittura a Istanbul condensano questa sua realtà storica. Curiosamente molti scrittori e viaggiatori parlavano di Costantinopoli al femminile. Perché? Istanbul è la città femminile per eccellenza, fin dall’età pagana. Già prima di Teodosio era consacrata ad Aretmide. La falce lunare che Per più di undici secoli Costantinopoli ha avuto la capacità di far convivere e amalgamare culture fra loro molto diverse della donna orientale destinato ad avere lungo successo: la cortigiana egizia di Flaubert non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. «È lo scrittore francese a farlo per lei», faceva notare Said. Parallelamente, come ora ricostruisce Emmanuelle Gaillard nel volume L’orientalismo e le arti (Electa), in pittura e in architettura si sviluppava nell’Europa dell’Ottocento uno stile di gran moda. Sul piano alto della ricerca, intanto, grandi artisti come Delacroix e Matisse hanno contribuito ad allargare il nostro sguardo oltre un asfittico eurocentrismo, regalandoci immagini sontuose di Babilonia, di Algeri, di Casablanca. Ma al tempo stesso con le loro splendide odalische hanno contribuito a fissare nel nostro immaginario fantasie di un Vicino Oriente femminile della donna orientale destinato ad avere lungo successo: la cortigiana egizia di Flaubert non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. «È lo scrittore francese a farlo per lei», faceva notare Said. Parallelamente, come ora ricostruisce Emmanuelle Gaillard nel volume L’orientalismo e le arti (Electa), in pittura e in architettura si sviluppava nell’Europa dell’Ottocento uno stile di gran moda. Sul piano alto della ricerca, intanto, grandi artisti come Delacroix e Matisse hanno contribuito ad allargare il nostro sguardo oltre un asfittico eurocentrismo, regalandoci immagini sontuose di Babilonia, di Algeri, di Casablanca. Ma al tempo stesso con le loro splendide odalische hanno contribuito a fissare nel nostro immaginario fantasie di un Vicino Oriente femminile ma del tutto inerte. In questo suo nuovo lavoro, Gaillard analizza queste rappresentazioni riavvolgendo il nastro della storia fino al XVII secolo, quando comparvero i primi vagheggiamenti di un Oriente, terra lontana, luogo opulento, mitico, d’evasione.
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