Quando Buddha era santo per cristiani e musulmani
Nell'undicesimo secolo, e in quelli successivi, nelle chiese di Bisanzio si venerava Buddha. In realtà, anche nella nostra parte di cristianità Jacopo da Varagine, dottissimo domenicano e arcivescovo di Genova, nella Legenda aurea da lui scritta a partire dal 1260 e rielaborata fino alla sua morte nel 1298, inseriva (inconsapevolmente?) la vita e l'insegnamento del Buddha Shakyamuni (il Buddha storico), a quel tempo già cristianizzato sotto il nome e l'epopea dei santi Barlaam e Iosafat: la sua festa ricorreva, fino alla riforma di Paolo VI del 1969, il 27 novembre. Nel 1583, tre secoli dopo Jacopo, il cardinale Cesare Baronio, padre della storiografia ecclesiastica, include senza problemi il Buddha nel martirologio romano (il catalogo dei santi e delle feste cattoliche) perché considerato santo «apud Indos Persis finitimos», nell'India ai confini con la Persia.
Silvia Ronchey, nel suo ultimo saggio intitolato La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto (Rizzoli), termina qui la sua citazione sul culto cri stiano del Buddha, annotando sulla questione lo scetticismo del cardinale Roberto Bellarmino, il "padre nobile" dei controriformisti di tutti i tempi, coinvolto nei processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei. Il Baronio, nel suo martirologio, spiega diligentemente che le «opere meravigliose» del Buddha «furono descritte da san Giovanni Damasceno». E questi, vissuto tra il 676 e il 749, è un padre della Chiesa che oltre che in Buddha vedeva in Maometto, e nel suo dogma islamico dell'eternità del Corano, una forma dell’idea cristiana del Logos. Quindi, prima di essere cristiano, Buddha era stato fatto pure musulmano grazie all'assimilazione degli elementi indo buddhisti da parte dei mistici sufi.
E continuando cosi, risalendo da fonte a fonte, Silvia Ronchey tenta di contrastare l'insensata rimozione, o peggio la sconcertante semplificazione del passato, in una società che ama nutrirsi solo del presente. O così almeno crede, visto che la Ronchey cartografa, per così dire, 24 punti topici di una geografia culturale oramai (consapevolmente?) rimossa dalla nostra coscienza storica e dalla nostra identità collettiva. La mappa che ne con segue, facile da leggere anche se piacevolmente vertiginosa, mentre ci lascia intravvedere i regni perduti (di cui, sia in Occidente sia in Oriente conserviamo simboli e cicatrici) ci indica anche i sentieri da percorrere, spiega l'autrice, per ritrovare «i legami che generano quell'unica civiltà orientale occidentale in cui oggi, in un tempo di rivolgimenti culturali e migrazioni epocali, siamo globalmente implicati e coinvolti.