L'Oriente sedusse l'Occidente
I due studiosi: «Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita segreta del Buddah» redatta intorno al Mille fu un «Siddharta» ante litteram elevato a potenza: influenzò Boccaccio, Shakespeare e altri autori.
La versione bizantina della storia di Barlaam e Ioasaf ha tenuto a battesimo tutte le storie cristianizzate di Buddha. Redatta intorno al Mille, narra le vicende di Ioasaf, figlio del re dell’India Abenner, persecutore dei cristiani. Indovini profetizzano che dovrà un giorno governare il regno e mutarne la fede. Il re rinchiude in uno splendido palazzo il figlio, circondandolo di piaceri d’ogni specie: vuole sottrarlo a ogni nozione di peccato, malattie e morte; finché un giorno, uscito all’aperto, il giovane vede un lebbroso, un cieco e un vecchio e scopre l’esistenza della morte. Giunge allora al palazzo un anacoreta di nome Barlaam, dal quale apprende la dottrina cristiana, per lui nuova, e viene battezzato. Alla partenza di Barlaam, nonostante prove e ostacoli, Ioasaf persevera e converte al cristianesimo - anche grazie a una disputa pubblica - sia il regno che ha ereditato sia il padre Abenner. Alla fine il principe si fa eremita e raggiunge nel deserto il maestro Barlaam per condividere con lui l’ascesi. La narrazione fu diffusissima nel medioevo nelle culture d’Europa e d’Asia, e la nuova edizione italiana della versione bizantina - a cura di Paolo Cesaretti, professore di Civiltà bizantina all'Università di Bergamo e Silvia Ronchey, professore di Storia bizantina all’Università di Siena - esce ora nella Nuova Universale Einaudi («Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha») sulla base del testo critico pubblicato nel 2009 da Robert Volk, che ha indotto i curatori a rivedere e accrescere la loro precedente versione (1980). Sono a colloquio con i due studiosi.
Professor Cesaretti, in quali elementi coglie i valori stilistici del romanzo?
L’opera è una leggenda agiografica, una somma teologica, un trattato di psicologia, nel rapporto Ioasaf - Abenner - Barlaam. E’ anche una raccolta di fiabe orientali inserite nella narrazione ora per alleggerirla, ora per indirizzarla. La «fusione» dei diversi elementi ci mostra uno scrittore sommo, identificato solo dopo mille anni.
In che modo si è di recente dimostrato che autore dell’opera è Eutimio di Iviron? Chi era?
Vissuto dal 955 al 1028, Eutimio era un nobile georgiano, che nel 1005 successe al padre Giovanni alla guida del monastero dei Georgiani (a Bisanzio si chiamavano Iberi: di qui «Iviron»), fondato sul monte Athos proprio dal padre. Forse per reticenza monastica, Eutimio fece di tutto perché il testo nascondesse la sua paternità. Ma già a fine Ottocento le affinità dell’opera con una precedente versione elaborata in ambito georgiano avevano indirizzato le ricerche; oggi il conforto delle tecnologie informatiche di cui si è avvalso Volkad esempio, i parallelismi tra il «Barlaam e Ioasaf» e le opere teologiche e agiografiche bizantine del X secolo - toglie ogni dubbio.
Filtra nel romanzo la spiritualità di Bisanzio intorno al Mille?
La cultura bizantina dissimula bene le sue trasformazioni e offre un’im - pressione di immutabilità, ma è tutto solo apparente. Proprio negli anni del «Barlaam e Ioasaf» Bisanzio cominciò a cristianizzare il principato di Kiev: non finzione letteraria ma fatti della storia, e di enorme influsso.
Professoressa Ronchey, nel suo ampio saggio introduttivo lei fa riferimento a Max Müller, lo studioso di fiabe che nel 1870 parlò a Londra di «Barlaam e Ioasaf». Perché è importante?
Max Müller contribuisce allo studio dell’origine della vita bizantina del Buddha ma, essendo scrittore, conferenziere, viaggiatore, uomo di mondo cosmopolita oltre che studioso, è il più affascinante e originale portavoce delle proprie conoscenze orientalistiche e di quelle dei suoi predecessori e colleghi. In quanto tale, lo considero uno dei protagonisti della storia di questa «storia delle storie» che è la vita del Buddha e del suo passaggio a occidente, che era tuttavia avvenuto ben prima, come illustro nel mio saggio.
Perché scrive che il «Barlaam e Ioasaf» «è seta lavorata a damasco»?
C’è nel testo greco-bizantino un impalpabile, cangiante lavoro di tessitura di citazioni colte — letterarie, filosofiche, teologiche — dissimulate nell’impianto apparentemente elementare della storia del bodhisattva Ioasaf. Forse Eutimio non fu il solo a lavorarci: forse furono più d’uno ad alternarsi al telaio, in una gara di sapienza e bravura simile ad alcuni dei giochi di società praticati alla corte di Costantinopoli e nelle dimore delle sue cerchie intellettuali.
Non pochi scrittori europei che ne sono rimasti affascinati e influenzati…
La storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del medioevo globale, un «Siddharta» ante litteram elevato a potenza. Raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime «chansons de geste», ai poemi epici medievali. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il «Novellino» si trasmetterà al «Decameron» di Boccaccio. Attraverserà i confini settentrionali dell’Europa e arriverà fino al teatro di Shakespeare. Nel Seicento vedrà la sua massima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo «Barlán y Josafá», per il cui tramite il giovane principe isolato dal mondo e assorbito nel sogno troverà il più completo ritratto occidentale ne «La vida es sueño» di Calderón de la Barca. Sarà attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha — questa leggenda dalle mille facce, questo punto dello spazio letterario che contiene tutti gli altri punti, proprio come l’Aleph di Borges — si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca e troverà ancora interpreti in Hugo von Hofmannsthal e in Marcel Schwob.