I sessantottini? Pronti a tutto per il potere
01/08/2000
Claudio Sabelli Fioretti
Sette
Lei ha pochi anni in meno, ma i vecchi ragazzi di sinistra a Silvia Ronchey non sono mai piaciuti. Nè quando andava a scuola e le chiedevano di abiurare il padre. Nè quando hanno «occupato» università e giornali. Nè oggi che si rivelano spesso campioni di trasformismo.
Silvia aveva 14 anni e faceva la quarta ginnasio al liceo D'Azeglio di Torino. Suo padre era un famoso giornalista, Alberto Ronchey, direttore della Stampa, odiato dagli studenti di sinistra, i «sessantottini». «Sarebbe meglio che tu ammettessi che tuo padre è uno stronzo e un fascista» sibilavano i contestatori all'orecchio della ginnasiale. Questo è il primo ricordo che Silvia Ronchey, docente di storia bizantina all'Università di Siena ha dei «baby boomers», quelli che oggi hanno cinquant'anni e appartengono alla generazione che «non sa invecchiare» e che, secondo Alberto Ronchey, si sono in buona parte installati ai vertici del potere creando quella che egli stesso ha definito «old boys net». Con Silvia Ronchey, Sette riprende, dopo le interviste a Lidia Ravera, l'inchiesta su questa generazione. Si sentono ancora gli echi della polemica tra Pietro Citati, Eugenio Scalfari e Giuliano Ferrara, intervenuti sul tema lanciato da Sette per cercare di capire il percorso fatto da quella generazione che ieri occupava le università e oggi occupa i posti di comando. Ora Sette continua un nuovo ciclo di interviste andando a sentire loro, gli «old boys», ma anche a sentire le loro «vittime» e i loro «carnefici». Per cercare di capire se hanno preso il potere o ne sono stati catturati, come dice Alberto Ronchey. Per cercare di capire se riusciranno a crescere o si limiteranno a invecchiare, come si chiedeva Lidia Ravera.
Allora, Silvia, tuo padre era uno stronzo e un fascista, come sostenevano trent'anni fa i sessantottini?
«Fascista proprio no. Ma volevano che lo dicessi per cooptarmi».
Chi?
«Quelli che stavano facendo l'università e venivano a parlare alle assemblee, quelli più grandi, quelli della Fgci o di Lotta Continua».
Che rapporto avevi con tuo padre?
«Pessimo. Come tutti i giovani ero in conflitto con lui».
E allora perché non hai detto che era stronzo e fascista?
«Perché non lo pensavo. Ma io non lo avrei detto nemmeno se lo avessi pensato. La Lettera al padre di Kafka non avrebbe mai potuto essere scritta se qualcuno avesse preso Kafka e per una manica e gli avesse detto: dì che tuo padre è uno stronzo».
Questo atteggiamento ti ha limitato nella tua voglia di fare politica?
«Certo, e probabilmente l'avrei fatta in una zona vicina a quella di coloro che mi chiedevano odiosi atti di abiura».
Ti ricordi qualche episodio reale?
«Avvenivano in continuazione. Ricordo un episodio quando ho fatto il concorso per entrare alla Normale di Pisa. Un gruppetto di studenti e assistenti, mentre ero in fila per entrare alla prima prova, mi venne incontro e mi chiese: tu sei la Ronchey? Sei quella che ha il padre e la madre fascisti e stronzi tutti e due? Prega di non superare la prova perché ti facciamo nera».
Capitava solo a te?
«Capitava a tutti i figli di padri moderati, conservatori, reazionari o semplicemente liberali. A tutti veniva imposto questo rito sovietico-mafioso. Un'autocritica pubblica per le colpe di tuo padre».
Tuo padre parla di «old boys net»...
«La sua visione è ottimistica e rosea. Lui si riferisce a questa grande pala del mulino della società, questa grande macina delle ideologie per cui c'è una generazione che si ribella e poi rientra nei ranghi e si integra nel potere».
E non è così?
«È sempre stato così dall'Inghilterra tardo vittoriana in poi. In questo succedersi di illusioni rivoluzionarie di un ceto borghese che poi rientrava nei ranghi. E lasciava sempre il posto alla generazione successiva perché potesse ribellarsi e a sua volta reintegrarsi».
E allora?
«La generazione dei sessantottini non ha lasciato quel posto. Ha inaugurato una novità: bruciare i ponti alla generazione successiva».
Come ha fatto?
«Pensa all'università. Centinaia di persone sono entrate come assegnisti, come precari in quegli anni. Poi i decreti Malfatti del '77 e gli ope legis hanno completamente ingorgato l'università».
Sembri un po' apocalittica...
«Conosco pochissimi quarantenni che siano riusciti ad andare in cattedra. Conosco gente uscita dalla Normale di Pisa, per esempio, gente bravissima, che fa il postino, che inscatola sardine in Alaska, che si è trasferita nel Sahara».
E nel mondo dell'informazione?
«Lo stesso. C'è stato una sorta di ricatto fatto dai sessantottini all'establishment».
Tipo «noi ci diamo una calmata e voi ci date un posto»?
«No, a prescindere dalla calmata. L'establishment, paurosissimo, ha bloccato il fenomeno che riteneva preoccupante con una sorta di corruttela, di cooptazione generale. E così ha saturato tutto e gli altri, i più giovani, sono rimasti a piedi».
Tu però insegni all'università. Tu conduci trasmissioni su Rai Due...
«Io sono andata via di casa a 18 anni, ho lavorato e studiato insieme. Ho fatto una fatica tremenda. Ho preso più calci nel sedere io che 50 cinquantenni tutti insieme».
Gli "old boys" intervistati da Sette dicono che loro hanno raggiunto questi posti perché erano i migliori, forgiati alla difficile scuola delle assemblee e della democrazia. Tu dici il contrario, dici che sono stati risucchiati dal potere, che è quello che ha detto tuo padre, in fondo. E cioè che il potere li ha conquistati.
«Mio padre lo dice in termini generali. Come dire che a contatto con il potere è avvenuta una metamorfosi fatale, operata da quel cinismo di cui il potere non può contagiarti. Secondo me invece il contagio è in partenza».
Anche in questo allora non sei d'accordo con tuo padre.
«Io non sono mai stata d'accordo con mio padre in nulla. Bastava che mi dicesse di fare una cosa e io facevo il contrario. Bastava che mi dicesse di non leggere un libro e io sapevo immediatamente quale era il libro che io avrei dovuto assolutamente leggere. Lui ha sempre incarnato il progressismo di tipo illuministico proiettato nella società tecnologica e capitalistica e io mi sono occupata del passato, di studiare antiche carte, delle soluzioni alternative date dalla storia, o dalla fantasia, a questa società orrenda».
Quindi gli «old boys» non sono un élite genuina?
«Sono un'élite all'incontrario, tutta basata su politica politca politica e potere potere potere. La visione leninista della politica come lotta per il potere. Sai perché a me non piace questa generazione? Perché parte dalla distruzione del passato. Nell'Internazionale c'è quel verso che dice: "Del passato facciamo tabula rasa". È il bolscevismo. Tutto futuro. Io ricordo al liceo Visconti di Roma: il passato era fascista. Studiare i lirici greci era un atto supremo di fascismo, peggio che se uno avesse letto i libri di esoterismo, che so, nazistoide. Intere epoche della storia erano messe al bando. Studiare la letteratura era borghese. C'erano autori che non potevi nemmeno toccare. Sono quelli che vanno di moda oggi. Nietzsche per esempio. Dovevi leggerlo di nascosto. Adesso è obbligatorio. Tutta la filosofia dell'Ottocento. I pessimisti. Non parliamo poi se uno si metteva a leggere i mistici: era da traditori del proletariato. Dumézil? Tutti i libri pubblicati oggi da Adelphi erano proibiti. Naturalmente era proibito leggere romanzi. Si poteva solo leggere Neruda e ascoltare gli Inti Illimani».
Tuo padre dice che i classici del marxismo non li leggeva nessuno.
«Magari avessero letto Marx, perlomeno avrebbero letto un'opera dell'Ottocento».
Lidia Ravera dice che c'erano due gruppi: da una parte i venticinquenni, i leader, e dall'altra i giovani che facevano la critica all'autoritarismo, la critica alla famiglia, il riequilibrio dei ruoli sessuali...
«Non c'era differenza fra quelli che facevano politica e quelli che la mescolavano con questa prospettiva di ribellismo alla moda. La differenza era qualitativa: quelli che facevano politica erano l'élite e sono diventati i capi. Però l'implicazione trasgressiva e libertaria era identica in tutti. Salvo poi oggi fare marcia indietro. Questo è il lato più vergognoso».
Per esempio?
«C'è un ritorno a un cattolicesimo integralista e becero da terzo mondo. Ci vengono a dire che si deve negare il diritto all'aborto. Le ex femministe si mettono a studiare le sante, senza fondamenti teologici per farlo. Altri riscoprono la spiritualità delle crociate. Una cosa da far ridere i polli: le crociate sono state un atto di barbarie spaventoso. Tutti credono in Dio. Tutti rivalutano il cattolicesimo. Tutti a fare il tifo per la parità di insegnamento».
Rutelli si sposa in chiesa. D'Alema va in visita con tutta la famiglia dal Papa...
«... da quello che è stato, come dicono tanti preti con un minimo di cultura, il peggior Papa di questo secolo...».
Rutelli e D'Alema forse sono obbligati a farlo...
«Certo. Io non ho riserve sul sindaco o sul premier. Hanno esigenze di ricerca del consenso. Ma ho riserve sui cosiddetti intellettuali che dovrebbero essere un'élite politico culturale».
Facciamo qualche nome?
«Anche quelli che sono stati intervistati per questa inchiesta di Sette. Chi non ha, in qualche dibattito o articolo, manifestato opinioni fortemente filocattoliche, in maniera peraltro che riconduce a un cattolicesimo retrivo populistico, popolare, demagogico?».
Il pentitismo dilaga.
«Il trasformismo dilaga. È sempre stato un fenomeno italiano».
Questi cinquantenni proprio non ti piacciono.
«Ci sono delle eccezioni naturalmente».
Ci sono dei cinquantenni colti...
«Sì, ma colti in che cosa? In politica. Giuliano Ferrara, Paolo Mieli: mi piace come ragionano. Sono intelligenti. Però in politica. Tutto quello che fa parte della cultura non e che non è strettamente legato alla visione leninista della politica come potere in realtà non interessa fino in fondo».
Voi che non eravate d'accordo con quello che tu chiami "regime" non potevate fare qualcosa?
«L'intimidazione era troppo forte. Io vedevo i figli degli amici di mio padre che cercavano di essere più realisti del re, più a sinistra della sinistra. Bisognava farsi perdonare».
E i professori?
«C'era chi ci credeva e allora smetteva di insegnare certe cose, e parlava solo di Neruda. Poi c'era chi ne approfittava: professori autoritari, ottusi e ignoranti, che se ne fregavano completamente, assenteisti. Voi mi contestate? E allora io non vengo ad insegnare. I collettivi e i comizi si facevano perché esisteva la volontà di una buona parte dei professori "vecchi" di non venire a scuola e di non fare un tubo. I migliori erano i giovani supplenti sessantottini che tutto sommato ci hanno formato. A un paio di loro devo molto. È la tipologia che ha disegnato su Sette Aldo Grasso. La più morale».
Tu sei d'accordo che questa generazione non sa invecchiare?
«Questa è una generazione nata vecchia».
Allora definiamo la vecchiaia.
«Si è vecchi quando si ha bisogno di sostegno. Quando bisogna fare rete, fare mafia, fare setta. Si è giovani quando si è indipendenti, intellettualmente, moralmente e fisicamente. I sessantottini sono stati sempre vecchi: non c'era autosufficienza, indipendenza, affrancamento dal conformismo».
Il Sessantotto ha prodotto anche i Viale, i Pero, leader che hanno puntato a occupare il potere...
«Il Sessantotto in sé non era esecrabile. Il fenomeno esecrabile è stato la sua strumentalizzazione. Il Sessantotto era un movimento di grande sovvertimento interiore, di grande cambiamento del costume mentale, di grande moralismo. La selezione, la scrematura non l'ha fatta, come dice Rinaldi, il Sessantotto. L'ha fatta negli anni Settanta l'irreggimentazione di alcuni leader del versante politico del Sessantotto all'interno delle strutture di partito. Bisognerebbe cominciare, a sinistra, un dibattito sugli anni Settanta, a più voci, altro che gli "old boys net". Tipo: ehi, gente di sinistra, vogliamo parlare di quello che è successo in quel periodo?».
Ma la forte pulsione dei leader del Sessantotto era l'anticomunismo, la lotta al revisionismo, l'avversione al Pci. E lo è tuttora. Dovunque siano finiti, questi ex leader del Sessantotto sono spinti da un profondo anticomunismo...
«Anche dei gesuiti si dice che sono i più grandi nemici del papa. Poi quando si tratta di discutere di dogmi, sono tutti insieme. E non si discute. Anche chi è diventato di destra, o ipercattolico, continua a essere leninista. Ha questo imprinting: l'idea stessa di politica, sostanzialmente antidemocratica».
Ti senti appartenente a una generazione?
«Completamente, totalmente. Io appartengo alla generazione degli sfigati. Quelli che per un anno si sono visti soffiare qualsiasi cosa. Non esagero. È stato proprio così. Poi ci sono le eccezioni, ci sono gli opportunisti. Si richiede ai giovani di oggi, i giovani tra virgolette, quelli che devono essere buttati sul mercato dell'industria culturale come giovani, una cialtroneria e un cinismo che nessuna persona di quatant'anni con un minimo di senso morale accetta. Se oggi c'è un grande scrittore, un grande poeta di 40 anni non va certo a farsi mettere la targa di giovane scrittore o, se è una donna, a farsi fotografare in giarrettiere o a scrivere romanzi pornografici magari con scene di pedofilia. Tutto questo è l'abbassamento al quale sono stati costretti alcuni. Non è un caso che non ci siano degli strepitosi quarantenni sul mercato. Non ci sono perché sono acquattati, perché sono stati discriminati, danneggiati».
C'è qualcosa che ti rimproveri?
«Mi rimprovero la mia timidezza. I collettivi io li detestavo. Mi pento di non aver avuto l'eloquenza retorica che avevano i miei coetanei che andavano ad arringare. Era molto difficile, c'era un clima di forte intimidazione, cominciavano a fischiare, a urlare. A Torino, al D'Azeglio dove facevo il ginnasio, un po' di discussione c'era. Le lezioni cominciavano alle otto e noi ci vedevamo alle sette, per giocare a scacchi. Buio e nebbia, un freddo cane, e noi, coi nostri eskimo, a giocare a scacchi, parlare di politica, litigare come matti. Forse, se fossi rimasta a Torino, sarebbe stato meglio. Invece andammo a Roma, dove al Visconti c'era il pecoronismo più totale».
Chi erano i leader a Roma?
«Ricordo De Angelis, Novelli, il figlio di Pio La Torre, il figlio di Bernardo Valli. Erano i più bravi. Poi c'erano tutti i figli dei funzionari del Pci».
Sai che potresti sembrare — come si diceva una volta — un'anticomunista viscerale?
«Eppure frequento tantissimi sovietici. Il mio maestro, Kazdhan, era un sovietico marxista fino al midollo. Il mio primo fidanzato era un poeta sovietico. Io sembro più anticomunista di quanto non sia. I miei amici sono quasi tutti di sinistra. Come Luciano Canfora, Elvira Sellerio, Maurizio Bettini, Ginevra Bompiani. O Giuseppe Conte, un bravissimo poeta cinquantenne che segue la sua strada e se ne frega se non ha legami, connivenze, se non ha mafia o partito. Non è schierato a sinistra, ma è un vero libertario, un vero spirito indipendente. Forse per questo è stato osteggiato dal partito. Maurizio Bettini è uno che riesce a spiegare a queste generazioni che nascono dalla negazione bolscevica del passato l'importanza del mondo antico, radice di ogni nostro comportamento. Luciano Canfora è coraggioso e non sarà mai vecchio perché va contro i conformismi. Sta sempre con le minoranze, difende sempre le cause impossibili, non quelle facili. È un uomo coltissimo e un vero stalinista. Nel senso che crede nel totalitarismo e anche in quel necessario contrappeso nel totalitarismo che è la figura dell'intellettuale che si oppone fortissimamente. Elvira Sellerio è l'unico editore italiano che si sta mantenendo indipendente, che scopre talenti, li lancia, vivendo in una condizione di assoluta precarietà e facendosi rispettare con una grinta straordinaria. Ginevra Bompiani ha fatto una scelta minoritaria. È una che scrive cose bellissime ma sta appartata, non vede nessuno, non scrive sui giornali. Ma non è uno di quegli intellettuali appartati di professione».
Chi sono gli intellettuali appartati di professione?
«Quei filosofi che fan finta di stare nella torre d'avorio ma alla fine sono sempre lì che intervengono a moraleggiare sui giornali o alla radio».
Il tuo grande sodalizio, comunque, mi sembra quello con Guido Ceronetti.
«Un vero sovvertitore. Lui sì. Non quelli del Sessantotto. Io sono sempre d'accordo con lui. Anche quando ha tutti contro. Ceronetti è un vero gnostico, un vero pessimista. Uno che pensa che il male non sia mai veramente male e il bene non sia mai veramente bene. È il nostro miglior scrittore e poeta. Mi diceva che fosse stato per lui avrebbe messo un cinquantenne sessantottino alla presidenza della Repubblica. Io gli ho detto per scherzo: chi vorresti? Ezio Mauro, il tuo ex direttore? Sì, mi ha risposto, io vedrei benissimo Ezio Mauro presidente della Repubblica».
Non sono tuoi coetanei.
«Io vado d'accordo quasi esclusivamente con quelli che hanno da settant'anni in su. Anche quando facevo la trasmissione in televisione mi accorgevo che le uniche persone alle quali avevo voglia di chiedere qualcosa erano Claude Levi Strauss, Jean Pierre Vernant, Ernst Junger, James Hillman. Grandi vecchi molto giovani».
Chi ti è piaciuto di più fra coloro che ti hanno preceduto in questa inchiesta?
«Giuliano Ferrara. È molto intelligente. È il più leninista di tutti. Continua a essere un sovietico, ma una sua particolare malinconia russa autodistruttiva gli fa fare strane scelte dovute a smarrimenti di ordine nichilistico».
Con Craxi quando era potente Craxi. Con Berlusconi quando è diventato potente Berlusconi. Dov'è il nichilismo?
«Questo è il côtè leninista. Lui ha chiaramente l'idea del potere, della politica. Lui è stato leninista. Ha vissuto da leninista. Sarà sempre leninista. È il più coerente».
Lidia Ravera sostiene che il Sessantotto è stato un movimento molto maschilista.
«C'era il maschio che faceva la politica e c'era l'angelo del ciclostile, che doveva fare anche le frittate e specializzarsi nella cucina povera. Ma era un'assunzione di ruolo che si erano scelte le donne. Maschilismo con connivenza delle donne. Del Sessantotto, il femminismo è stato la farsa più atroce».