La Stampa. Mio figlio, tua figlia: due giornaliste si scontrano sulle pagine di Io donna
14/10/2006
Marina Terragni
La Stampa
L'ombelico a vista è sintomo di "pornizzazione" o un modo di dire qualcosa agli adulti? Due giornaliste si scontrano sulle pagine di Io donna. Poi scoprono che, ragionando di pance nude, si arriva lontano
Pancia fuori. Intimi a giorno. Madre di una diciottenne trendy, Silvia Ronchey si interroga (“Io donna” n.37) sull’abbigliamento delle ragazze occidentali. “Pornizzazione”, lei dice “che induce le nostre figlie ad andare a scuola travestite da meretrici e troppe ragazze ad apparire a torto tali agli occhi di immigrati violenti”. Madre di un diciassettenne non meno trendy –cavallo basso, mutanda a vista- Marina Terragni le risponde (“Io donna” n. 38): “ Io le trovo carine, le ragazze messe così: stanno dicendo qualcosa di loro, noi l’abbiamo detto in altri modi”.
Stanno dicendo che cosa? E il multiculturalismo, la libertà femminile, il jihad, l’Islam e l’Occidente, cos’hanno a che fare con la moda raunch? Ronchey e Terragni hanno provato a capirlo insieme.
Silvia Ronchey : Mia figlia aveva 11 anni quando una notte l'ho caricata in macchina e l'ho portata a vedere viados e prostitute. Volevo farle capire che il modo in cui lei voleva vestirsi era quello lì. Gli armadi delle ragazze occidentali sembrano l'armamentario di una pornostar, reggiseni imbottiti e perizomi, dallo sportivo al leopardato. E guai se la biancheria non è a vista.
Marina Terragni : Pance nude e conformiste. I maschi no, la pancia è coperta. A vista c'è mezzo sedere, o almeno l'elastico delle mutande. Firmate. Anche sotto il costume. Ho cercato di farmi spiegare il perché, ma niente. E tu? Se imitano le pornostar, come dici, bisogna capire perché lo fanno.
S. R. : Per conformismo, appunto: sono tutte uguali, dappertutto. Come in tv, come nella pubblicità: una pornizzazione generale.
M. T. : Il senso di quello che hai scritto è che certi eccessi non favoriscono il dialogo con una cultura che alle donne nega i diritti più elementari. Che forse è il caso di ripensare certi nostri comportamenti.
S. R. : Io sono una liberale. Non direi mai a nessuno cosa fare o non fare. Ma credo che si debba capire cosa ci sta accadendo. E' come quando si è in analisi: dire "non fare questo o quello" non serve, l'importante è capire perché lo si fa. Bisogna che lo capiamo prima noi, se vogliamo farlo capire agli immigrati. Perché le figlie del femminismo vogliono proporsi come donne-oggetto, come oggetto di consumo sessuale?
M. T. : Forse stanno dicendo qualcosa di cruciale. E cioè: io gioco con il mio corpo proprio come ci giocherebbe un uomo. Sono talmente uguale agli uomini, talmente pari, che mi tratto come mi tratterebbero loro. Mi uso. Mi travesto da preda, ma poi sono io a prendere l'iniziativa. E' il massimo della parità, il massimo dell'emancipazione immaginabile, e forse anche il suo punto di crisi, il suo capolinea.
S. R. : Il suo delirio, mi dirai. Perché a me invece viene da fare un parallelo tra il cieco conformismo delle nostre ragazze e quello delle francesi islamiche con il chador.
M. T. : Sono tutti e due sogni maschili sulla donna, sia il chador che il porno.
S. R. : Ma qui c'è un'autodistruzione del femminile. Del resto gli adolescenti occidentali hanno comportamenti suicidi: l'abuso di sostanze, le sbronze del sabato sera, il non dormire mai.
M. T. : I giovani sono i terminali sensibili di quello che capita intorno a loro. Captano. Forse queste ragazze sentono la stanchezza delle loro madri emancipate, sentono che si sono stufate di fare i maschi, di fare carriera, che stanno "cedendo" alla loro differenza femminile. Noi siamo figlie di donne che volevano emanciparsi. Loro sono figlie di emancipate stanche. Soprattutto stanche di essere lontane da se stesse. Forse la loro è una reazione spaventata, un colpo di coda dell'emancipazione.
S. R. : Sì, per mia figlia io sono una poveraccia che si ammazza al tavolino per due soldi, una che ha sbagliato tutto.
M. T. : Un lettore mi ha citato un sociologo algerino, Abdemalek Sayad, secondo il quale l'immigrazione esercita una "funzione specchio" nei confronti della società in cui arriva. Tu che cosa vedi, se ti guardi in questo specchio?
S. R. : Un mondo messo male, con al centro l’apparire e il consumare. Con un ecosistema distrutto. Con una malintesa rivoluzione sessuale. Con una condizione femminile insostenibile.
M. T. : Oltre a questa cosa dell'emancipazione alle corde io vedo una grande povertà di relazioni, un eccesso di individuo, un individuo irto di diritti, incapace di accettare l'altro a meno di non ridurlo a una copia di se stesso, a un "uguale". Ma fuori da una relazione, questo individuo è nulla.
S. R. : Appunto: un individuo pensato essenzialmente come un consumatore, un eterno bambino viziato.
M. T. : Il paradigma di tutte le nostre libertà è la libertà di consumare.
S. R. : A diciott'anni noi eravamo contenti perché potevamo finalmente partire con lo zaino, in autostop, fare quello che ci pareva. Questi ragazzi invece si sentono liberi solo se hanno soldi in tasca. Quello che fa la loro individualità va comprato.
M. T. : Però altre intellettuali musulmane, come Irshad Manji o Ayaan Hirsi Ali, mettono in guardia l'Occidente dall'eccesso di autocritica: attenti, dicono, perché per l'Islam fondamentalista ogni concessione è segno di debolezza.
S. R. : Non si tratta di concedere. Si tratta di vedere la relatività delle cose. Di voltarci indietro a guardare il nostro passato. Per molti aspetti la cultura islamica di oggi è simile alla nostra di un tempo. E anche l'Islam dovrebbe voltarsi indietro: il loro monoteismo è stato un tempo più tollerante del nostro. Non costringevano nessuno a convertirsi, mentre i crociati facevano la guerra santa.
M. T. : Temo però che riflettere non basti. Temo che dovremo abbassare la cresta, e lo dico con estrema infelicità. Credo che l'umiliazione di cui l'Islam si sente vittima chieda una riparazione importante. Su tante cose si tratterà di vere e proprie rinunce, e non solo a livello dialettico. Temo che si tratterà di abbassare il nostro livello di consumi, di rinunciare a un po' di ricchezza. Non credo che se ne uscirà senza un riequilibrio.
S. R. : Questo elemento è già nella nostra coscienza. Pensa a certi nostri eroi, celebrati dalla letteratura e dal cinema, come Lawrence d'Arabia, Isabelle Eberhardt, che avevano capito la complessità e la ricchezza della civiltà islamica, ma anche la terribile umiliazione imposta dall'Occidente.
M. T. : Su che cosa invece non faresti nessun passo indietro? Che cosa è irrinunciabile per te?
S. R. : La tolleranza. La cognizione critica della libertà da cui nasce la cultura occidentale. Sebbene a volte mi sembri che anche noi ci siamo dimenticati che cosa sia, questa nostra libertà. Non è certo la pancia fuori.
M. T. : Il mio irrinunciabile, in una parola, è Gesù, è tutto quello che nasce da quest'idea di un Dio amoroso, che perdona. Non rinuncerei a quella parte della nostra cultura che ha messo l'amore al centro. A proposito di amore, mi pare che le donne molta politica sull'immigrazione la facciano già. Siamo noi le vicine di casa di questi stranieri, quelle che trattano con l'idraulico marocchino o con la colf rumena. Una mediazione quotidiana che fa tessuto civile. Però poi, a parte le grandi emancipate tipo Condi, la sapienza femminile non passa quando si tratta di decidere sull'Afghanistan, o sull'Iraq.
S. R. : Che ci voglia un ricambio della nostra classe politica è un fatto. Le quote rosa sarebbero forse un modo per assicurarlo. Allora forse la capacità femminile di accogliere, di accudire e di mediare, di cui tu parli, peserebbe di più.
M. T. : Ma forse la rappresentanza non basta. Forse bisognerebbe fare uno sforzo di invenzione politica per moltiplicare le occasioni in cui questa mediazione è praticata nel concreto. Non credi che ci si potrebbe intendere perfino con le più oppresse e "autosessiste" tra le donne islamiche, come la madre di Hina? Che abbiamo dei fondamentali in comune? Che saremmo più brave a sistemare le cose?
S. R. : Il velo non vuol dire essere prive di libertà interiore. Le matrone romane erano condizionate, vivevano nei ginecei, eppure esercitavano una forte influenza nella politica. Se mia figlia e le sue compagne incontrassero le loro coetanee islamiche, forse dopo un po' gli parrebbe meno "fico" mettersi con la pancia fuori. E magari alle altre meno indispensabile il foulard.
M. T. : Anche se a quell'età, è fisiologico, la mediazione non si sa nemmeno che cosa sia, è tutto bianco o tutto nero. A te non pare che questi ragazzi siano dei veri militanti dell'Occidente, pronti a difenderlo contro tutto e tutti? Noi non eravamo così entusiasti del nostro mondo.
S. R. : Sì, è così. Una venerazione generazionale per il modello americano, un'adesione completa anche se a volte inconsapevole. Però quando due anni fa mia figlia è andata con suo padre in Senegal mi ha parlato di una civiltà superiore, della gentilezza e dell'eleganza delle persone, del senso dei valori, dell'armonia che aveva sentito.
M. T. : Il problema è riuscire a portarceli, in Senegal. Loro vogliono andare solo a New York e a Miami. Il rischio è che, crescendo, quando diventeranno cittadini a pieno titolo, diventino dei soldati d'Occidente, omologhi dei giovani jihadisti. Che la logica dello scontro diventi prevalente.
S. R. : Per questo dico: non lasciamoli in balia della propaganda mediatica e facciamogli vedere le differenze. Il nostro modello non è perfetto e immutabile, si può trovarne uno nuovo, voltandosi a guardare le nostre radici. E le nostre radici, nel bene e nel male, a volte si vedono meglio nell'Islam di oggi che in un qualunque libro di storia.