Grazia Marchianò conoscitrice di segreti
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Ieri, nella sua casa di Montepulciano gremita di calligrafie su carta di riso e legni profumati d’Asia, Grazia Marchianò è stata ritrovata senza vita dai carabinieri, morta da giorni o forse settimane; morta sola, come sola era sempre stata, nel senso buono del greco monachòs: solitaria, isolata; ascetica, austera; ma di natura mite e generosa e di intelligenza aperta e molto amabile. Aveva 83 anni, negli ultimi si era fatta monaca buddhista e del monachesimo conosceva e praticava la durezza, del buddhismo non solo le dottrine, ma quella disciplina di distacco interiore che dominava, nella pratica, con cognizione stupefacente, dopo averla studiata per tutta la vita così a fondo da esserne una delle maggiori conoscitrici al mondo; sempre che mondo possa definirsi, nel suo caso, il luogo che abitava.
Era di carattere forte quanto schivo. Se è luogo comune, ma non per questo meno vero, che dietro ogni grande uomo sta una grande donna, dietro uno dei massimi pensatori contemporanei, Elémire Zolla, più di chiunque altro è stata lei. Sua compagna da subito dopo la morte di Vittoria Guerrini, nom de plûme Cristina Campo, aveva iniziato Elémire a quegli orienti, che avrebbero dalla fine degli anni 70 del Novecento ispirato sempre più fortemente il suo pensiero. Lei, formidabile erudita e studiosa, cattedratica a Siena di estetica comparata e di filosofie orientali, lei, minuta e fragile quanto temeraria e avventurosa, lo aveva trasportato fisicamente e intellettualmente in una sfera sapienziale ed esistenziale che Elémire aveva in giovinezza intuito, ma alla quale solo per mano di Grazia era compiutamente, seriamente approdato. Aliena agli snobismi, alle mondanità, ai salotti editoriali, quella compagna lo aveva condotto altrove, con infinito amore.
Un amore che l’aveva portata, se non certo a trascurare i propri studi, gli scambi accademici, le pubblicazioni scientifiche, le ricerche più specialistiche, a votarsi comunque a lui più che a se stessa, a farsi schermo, come in un teatro d’ombre, degli scritti di lui; non ad annullarsi — troppo forte la sua personalità, troppo grande il suo dominio del sapere — ma certo ad assecondare un’innata tendenza, genuinamente orientale, a disfarsi dell’ego, se non dell’io.
Alla morte di Zolla si era dedicata al suo lascito letteralmente anima e corpo, investendo ogni energia morale e fisica nella pubblicazione dei suoi opera omnia, criticamente editati, rigorosamente prefati e commentati; di lui aveva scritto una perfetta biografia, Il conoscitore di segreti (Marsilio); intorno alla sua memoria aveva costruito una cattedrale di carta di inespugnabile autorevolezza, così come sulle sue spoglie aveva eretto, nel cimitero storico di Montepulciano, di fronte al tempio di San Biagio, un sacro recinto, una tomba che era una sofisticata teca di simboli celesti, un esoterico temenon terrestre.
Da poco terminato questo suo ventennale compito, si era risolta a pagare il debito che doveva a se stessa, al suo daimon: un libro, Interiorità e finitudine: la coscienza in cammino (Rosenberg & Sellier), al quale aveva consegnato le sue riflessioni più recenti. Vi esaminava i punti di tangenza tra le implicazioni della rivoluzione scientifica contemporeanea e le tradizioni orientali, ma forniva anche, di queste ultime, un’esposizione magistrale, tanto sintetica quanto sistematica, scritta peraltro in una prosa magnifica. La sua analisi teorica delle implicazioni della “nuova”, in realtà antichissima, convergenza tra oriente e occidente, ravvivata dagli sviluppi del pensiero scientifico novecentesco, si faceva istanza pratica, toccava la questione ecologica, l’urgenza attuale di una spiritualità ecologica capace di costruire una cosmologia vivente e vitale, simile forse alla “mente naturale” dell’antica ecosofia confuciana. Nell’individuare il principio d’interconnessione tra mondo animale, vegetale, minerale, di indistinzione tra soggetto e oggetto, di fusione tra coscienza e materia, il pensiero originale di Grazia Marchianò, tessuto di esperienza mistica e padronanza filosofica, ci ha consegnato, nel suo ultimo libro, ma non solo, una visione della filosofia naturale che è anche una meditazione sulla natura della filosofia.
Nell’antico monastero di Koyasan, il Monte Koya, in Giappone, dove si era iniziata alla meditazione shingon, Grazia Marchianò aveva preso il nome di Shogen, doppio ideogramma che significa “ricongiunzione con le origini”. Shogen si è ricongiunta con le origini in un giorno imprecisato del mese più crudele forse, aprile, e anche questa imprecisione, questo dissolversi discreto, inosservato, è amabile parte di quella che era stata ed è ancora, se pur rifusa nella natura del tutto, la sua indimenticabile natura personale.