Adelphi. Le origini perdute
Un saggio di Anna Fernando ricostruisce l'impronta della casa editrice ideata da Babi Bazlen, Alberto Zevi e Luciano Foà. Fino ai contrasti di quest'ultimo con Roberto Calasso diventato nel 1994 unica guida
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Nel paese in cui un pensiero indipendente da chiese o ideologie è tenuto in vita da minoranze esigue e quasi mai destinato a raggiungere gli strati più ampi della società, l’ultimo secolo ha visto almeno una grande eccezione: una casa editrice dietro il cui nome quasi in codice di Chimera, poi di Adelphi, si celavano in principio due intellettuali “fratelli” (in greco adelphoi), Roberto “Bobi” Bazlen e Luciano Foà, che fin dal ventennio fascista avevano cercato sotterraneamente di portare alla luce autori censurati dal potere di allora. Lo sarebbero curiosamente stati ancora, quando, rovesciata la dittatura fascista, un antitetico e certamente a loro, antifascisti, più consono, ma non per questo meno ideologico canone avrebbe dominato l’editoria del dopoguerra. La Chimera sarebbe però rimasta tale senza un terzo fratello, Alberto Zevi, che con Bazlen e Foà aveva condiviso non solo la passione letteraria ma anche l’espatrio a Ginevra durante le persecuzioni razziali. Fu questa la circostanza storica che nel 1962 avrebbe fatto nascere la casa editrice Adelphi; furono le discussioni di Bazlen, Foà e Zevi la sua scatola nera.
Un libro di Anna Ferrando ne ricostruisce oggi le origini (Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), Carocci, 447 pp., 39 €) documentando il cammino di cui Bobi Bazlen vide solo un breve tratto, ma che non avrebbe avuto inizio senza il suo intuito, gusto, intelletto, senza il dolore, le contraddizioni, il senso interiore e reale di esilio tipici insieme dell’animo giudaico e della Mitteleuropa.
Se Bazlen fu l’Idea, Foà e Zevi ne furono i demiurghi. In quanto editore, Foà interpreta il volere di Bazlen, sia quando questi è in vita, sia a partire dalla sua precoce scomparsa nel ‘65. La figura di Zevi è altrettanto essenziale, non solo nel sodalizio intellettuale (“l’uomo più intelligente che abbia conosciuto”, lo descrive Foà) ma anche nei sistematici esami dei costi e nel concreto sostegno finanziario. Senza l’aiuto di Zevi, che nel ‘62 garantisce un finanziamento a fondo perduto, gli adelphoi non riuscirebbero a trasformare l’Adelphi in una vera e propria struttura economica. E’ Zevi a permettere a Foà di mantenere l’autonomia nel CdA rispetto al figlio di un altro compagno di esilio, Adriano Olivetti; e quando nel ’64 Roberto Olivetti ritira le azioni, Zevi ne acquista le quote ed entra nel consiglio.
Si è sempre pensato che Adelphi fosse una casa editrice completamente apolitica, e questo era in effetti dichiarato esplicitamente fin dall’inizio. Ma era permeata in realtà da un forte spirito di liberalismo azionista. Il nucleo originario dei consulenti e collaboratori oscillava tra il Pri e l’ambiente dei transfughi dal Pci dopo i fatti di Ungheria, ruotava intorno al Mondo di Pannunzio e alla Comit di Mattioli, che pure intervenne, insieme alla più illuminata borghesia lombarda, a sostenere un’impresa visionaria, dai conti ancora in rosso. Era così ambizioso, il progetto, che molti si accollarono il rischio pur di perseguirlo: farlo accadere era un sogno senza prezzo, senza perdita.
E’ così che dalle trincee sotterranee scavate dagli adelphoi emergono schiere di scrittori tanto grandi quanto all’epoca emarginati se non ostracizzati. Il pittogramma della luna nuova, in cui si autorappresentano sulle iconiche copertine, è il sigillo di un lasciapassare. Leggere Nietzsche torna possibile senza timore, grazie a una delle più prestigiose operazioni editoriali della storia italiana. Tornano in folgoranti edizioni i pensatori greci, a partire dai presocratici di Colli. A libri capitali per la storia della scienza, della psicoanalisi, delle religioni e della mistica si affiancano i capisaldi delle filosofie orientali che tra la metà e la fine del XX secolo Adelphi contribuisce in modo decisivo a introdurre nella cultura popolare italiana anche grazie a titoli che vi si ispirano e che da passaparola di pochi diventano bestseller. Uno per tutti, a riunire le due anime di Adelphi — l’orientale e la mitteleuropea — il Siddharta di Hesse.
Del circolo adelphiano fanno parte fra gli altri Wilcock, Manganelli, Solmi; della letteratura italiana è trascelto il meglio. Il cosmopolitismo della scatola nera ginevrina è garantito e continuato dal lavoro di Eric Linder, agente all’Avana nell’internazionale delle lettere, la cui intesa privilegiata con quel circolo mette di malumore Arnoldo Mondadori e Giulio Einaudi. A poco a poco la casa editrice conquista il dono alchemico di Mida. Tutto ciò che porta impresso il punzone degli adelphoi si fa materia aurea. Tutto quanto Adelphi recupera diventa, o finalmente ridiventa, letteratura. Scrittori sconosciuti in Italia diventano di culto, alcuni sono consacrati dal Nobel.
Ma il libro di Ferrando, che attinge a un vasto bacino documentario (le carte Foà, l’archivio Zevi, il fondo Linder, una puntuale ricerca sui bilanci e sugli assetti societari condotta presso la camera di commercio di Milano), si ferma al 1994, e non a caso: si conclude nel momento in cui il nucleo originario si dissolve. Dal ‘94 in poi comincia la grande era calassiana, in cui di fatto Adelphi prende a identificarsi con Roberto Calasso, al quale già nel ’62 Bazlen, incontrandolo ventunenne nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, aveva illustrato il suo piano; che dal ’71 ne diviene direttore editoriale e dal ’75 azionista; e che dal ’94 in poi procederà solo alla sua testa, fino alla morte.
Giorgio Colli muore nel ’79, Sergio Solmi nell’81, Eric Linder nell’83. Pontiggia abbandona il gruppo nell’89 dopo una controversia con Calasso sul Premio Strega. Ma la data chiave è quella della morte di Alberto Zevi, nel ’93. Risale a quel momento il dissidio più lacerante della storia di Adelphi, generato dalla volontà di Calasso di pubblicare due autori di indiscutibile peso intellettuale ma altrettanto pesante connotazione politica: Léon Bloy e Carl Schmitt.
La pubblicazione del testo di Bloy, Dagli ebrei la salvezza, era stata messa in calendario subito dopo la morte di Zevi. Era “un documento dell’antisemitismo cattolico ottocentesco”, come dichiarò Susanna Zevi, figlia di Alberto e socia della casa editrice insieme alla sorella Elisabetta, “pubblicabile soltanto se corredato da commenti e apparati che lo presentino qual è”. Chiarisce Ferrando: “Chiedeva di storicizzare, di non astrarre le parole di Bloy, ma di ancorarle alla realtà in cui germinarono”.
Quanto a Schmitt, fu messo in calendario il Glossarium, con grande disappunto di Foà, che in una nota manoscritta indirizzata a Calasso chiarì la sua posizione: pubblicarlo, “per giunta a breve distanza dall’uscita del Bloy, servirebbe soltanto ad appesantire quei giudizi politici su di noi che circolano da qualche tempo sui giornali e che, senza alcun dubbio, finiscono per danneggiarci. Dopo essere riusciti brillantemente, soprattutto per tuo merito, a creare una larga base di lettori fedeli, non vorrei proprio che una parte di essi cominciasse a nutrire qualche dubbio sulla nostra apoliticità, che è stata una premessa di Bobi e mia al programma dell’Adelphi”.
Nelle carte Adelphi custodite dalla famiglia Zevi possono ritrovarsi i successivi scambi tra Foà e Calasso, con i moniti del primo sul ruolo e la responsabilità dell’editore e le argomentate repliche del secondo sull’inammissibilità di ogni censura, in una discussione che al di là del suo esito (il Glossarium non fu poi pubblicato, altri libri di Schmitt sì) era il segno di uno spostamento degli equilibri di potere nella casa editrice. Erano d’altronde tempi di grande turbamento in Italia, politico anzitutto, dal quale probabilmente non si può prescindere nel valutare quanto si stava profilando nell’Adelphi. Di certo, a leggere le sue parole, Foà non ne prescindeva.
Si ritirò, nel ‘94, dicendo a Calasso di volersi occupare dell’archivio Bobi Bazlen. Quasi non riconoscesse più, nella casa editrice che si stava avviando alla sua seconda, lunga e fausta vita, quel Dna originario, anche politico forse, per il quale aveva combattuto e nel quale si identificava. Morirà nel 2005. Nel frattempo la casa editrice avrà ormai una sola guida. La res publica adelphiana diverrà un principato, e come tale si espanderà. Una lunga pax calassiana traghetterà l’Adelphi all’età d’oro del suo successo e della sua prosperità. Fino alla morte del princeps, nel 2021, e alla disputa su una successione non dissimile da quella dell’Augusto storico.
Quando passò la mano per dedicarsi all’archivio Bazlen, Foà scrisse: “Forse potrà servire in futuro a qualcuno per conoscere meglio le qualità così rare, e così raramente congiunte, di Bobi”. Quasi un’esortazione a tornare alle origini. E non è un caso che dei molti libri pubblicati da Calasso per Adelphi l’ultimo, uscito il giorno della sua morte, Bobi, sia un malinconico, quasi esoterico dialogo con quell’altro Roberto, lontano, con cui il conto era sempre rimasto aperto.