Oscar Wilde. Una meravigliosa conversazione | Tito Livio. La Storia di Roma preferita da Macchiavelli | Thomas Mann. Altezza reale, tra fiaba e operetta
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"Molte persone si comportano bene, ma sono pochissime quelle che parlano bene, il che dimostra che parlare è fra le due la cosa più difficile, e anche di gran lunga la più preziosa", diceva Oscar Wilde. E infatti parlava benissimo. "Non avevo mai sentito prima", testimonia William Butler Yeats, "un uomo parlare con frasi perfette, come se le avesse tutte scritte faticosamente durante la notte, e tuttavia tutte spontanee". Il merito di questa raccolta di Detti e aforismi di Wilde, tradotta da Alberto Rossatti e ora ripubblicata nei Classici Superbur (190 pp., 4,99 euro), è di includere, accanto alle infinite battute tratte dalle commedie, dai racconti e dai romanzi, anche quelle profuse da Wilde direttamente nella conversazione, la più grande ed effimera delle sue opere, ricostruibile attraverso le testimonianze dei contemporanei.
"Non sappiamo sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi" scriveva Tito Livio, l'unico autore nella storiografia della Roma repubblicana, dovuta in genere a uomini politici, a non avere mai ricoperto cariche pubbliche. Aveva uno stile maestoso e scorrevole, venato di quella che Asinio Pollione chiamava "patavinitas", oggi si direbbe padanità: un colorito dialettale che oggi non cogliamo più, abituati a tradurre brani della sua Storia nelle versioni scolastiche, e spesso a irritarci del suo patriottismo reazionario, della sua religiosità apparentemente ingenua, della sua disinvoltura nel manipolare le fonti. Ma rileggere di seguito i due libri della quarta deca curati da Carlo Vitali per gli Oscar Classici (Storia di Roma XXV-XXXVI, 238 pp., 8,40 euro) ci farà apprezzare le virtù che di Livio amò Machiavelli: il fondamentale pessimismo sulla politica, il malcelato dubbio sui suoi tempi.
Negli anni 70 si leggeva Thomas Mann in base all'attestato di credibilità rilasciatogli da Lukács: era il grande storico della vita della borghesia, aveva il merito di "avere intuito che la società borghese non può essere la forma definitiva della società umana". Una valutazione autorizzata principalmente dai Buddenbrook. Ma quanto al secondo romanzo, scritto otto anni dopo, nel 1909, i critici marxisti restavano disorientati. Cosa voleva mai dire la bizzarra parabola di Altezza reale, ora ripubblicata da Garzanti nella classica traduzione di Lanfranco Brusotti e con l'introduzione anni 80 di Giorgio Cusatelli (281 pp., 7,50 euro), la storia del nevrotico principe di un piccolo regno immaginario in crisi economica, salvato dall'incontro con un emblema del moderno capitalismo, l'ereditiera americana di un impero delle ferrovie? Nella trama a lieto fine, intrisa delle antiche fiabe di Andersen e di Perrault, sigillata da un finale da operetta, il prefatore cercava messaggi politici, scomodava lo strutturalismo e Propp. Faceva bene?
Secondo Freud l'Edipo Re di Sofocle è uno dei tre massimi capolavori di tutti i tempi, insieme ai Fratelli Karamazov di Dostoëvskij e all'Amleto di Shakespeare. Freud aveva scoperto "una situazione cui tutti i bambini sono destinati essendo la necessaria conseguenza del fatto che hanno bisogno per molto tempo di essere accuditi da altre persone e dunque convivono con i loro genitori". E l'aveva chiamata "complesso edipico" "perché il suo contenuto essenziale ritorna nella leggenda greca del re Edipo, di cui per fortuna ci è stata conservata la rappresentazione ad opera di un grande drammaturgo". Quello di Edipo è dunque il mito fondatore della psicanalisi e non a caso è sotto il titolo Il mito di Edipo che la vecchia traduzione di Domenico Ricci dell'Edipo re e dell'Edipo a Colono è riproposta oggi nei Classici Superbur (271 pp., 4, 99 euro): una riedizione senza testo a fronte e non aggiornata, che guarda poco all'antichistica, alla filologia, ai grandi progressi compiuti dall'antropologia storica e dalla storia della letteratura.
Alexander Lernet-Holenia, rampollo fin-de-râce di una grande famiglia di origine francese, prolifico autore di racconti e romanzi alcuni dei quali da lui stesso definiti "militari", a lungo sottovalutato, a lungo considerato solo un narratore d'intrattenimento, è in realtà l'ultimo grande scrittore mitteleuropeo. "Un uomo di mondo non è una persona che frequenta il mondo ma una persona che ha un mondo", diceva Lernet-Holenia. Le Avventure di un giovane ufficiale in Polonia, ora accuratamente ritradotto da Elisabetta Dell'Anna Ciancia per Adelphi (146 pp., 14 euro), lo dimostrano. Alla trama geniale e divertentissima è sottesa una visione filosofica, ironica e appassionante della vita, del tutto originale: appunto, un mondo a sé. "Bisogna essere capaci di sfidare gli dèi se si vuole conservare il loro favore", e il giovane sottotenente Keller, che braccato dai cosacchi si traveste da donna come Achille a Sciro, lo fa innumerevoli volte.
Charles Yriarte aveva seguito Garibaldi nella spedizione dei Mille e conosceva i lati meno noti del suo finanziamento da parte di Alexandre Dumas, che aveva investito 70.000 franchi in pistole e camicie rosse. Con Dumas aveva fondato a Napoli un quotidiano mitico, l'Indipendente. Con le sue descrizioni di viaggi aveva ispirato a Jules Verne scenari di romanzi, con le sue conversazioni nei salotti aveva strappato ai Goncourt commenti affascinati. Solo nell'Ottocento un giornalista poteva essere anche un grande studioso. Nel suo Un condottiero del XV secolo (Raffaelli, 423 pp., 50 euro), il classico che ispirò Bernard Berenson ed Ezra Pound, ora per la prima volta tradotto in italiano da Moreno Neri e corredato dei 200 disegni dell'edizione originale, rivivono la vita violenta e la filosofia occulta del più intellettuale e maledetto dei principi del Rinascimento, Sigismondo Malatesta, e insieme i misteri e gli splendori di una Rimini prefelliniana e pretondelliana, capitale della cultura europea.