L'estate dei giovani, con lo zaino e la voglia di crescere
Articolo disponibile in PDF
Cara Fiorenza,
una volta l’élite europea mandava i suoi figli, alla fine degli studi secondari, a fare quello che si chiamava “viaggio di formazione”. Dai castelli della Scozia e della Loira, della Prussia e della Castiglia, con bauli e cappelliere e talvolta qualche buon libro, una folla di ragazzi migrava verso sud. Era l’Italia, allora, la meta privilegiata di quello che le classi dirigenti consideravano un rito di passaggio verso l’integrazione nell’ordine dell’esistenza, nella griglia di diritti e doveri della propria classe sociale: il Grand Tour.
I secoli sono passati, i merletti appassiti, i castelli trasformati in alberghi. Una sempre più vasta moltitudine, con l’istruzione di massa, finisce quegli studi, più o meno svogliatamente di allora, conservandone alla fine lo stesso pugno di immagini destinate a sbiadirsi: Socrate che attende l’alba, la civetta di Minerva che arriva alla sera, Cartesio accanto alla stufa. Non serviranno a nulla ai futuri ingegneri, ospedalieri, bancari, pubblicitari, informatici, idraulici, garagisti, programmisti, stagisti, precari, disoccupati. Ma aleggeranno per un’estate sul mitico, indimenticabile viaggio che seguirà gli esami, quell’ultima stagione prima dell’ingresso nell’età adulta.
Il giovane Che Guevara aveva attraversato l’America in motocicletta. Ai nostri tempi si andava in autostop verso Capo Nord o Katmandu, si percorreva a piedi la Grecia con solo un libro di mitologia nello zaino. Oggi finiranno sulla spiaggia di Mykonos o Ibiza, i meno viziati nel Kerala o sui monti della Romania. Ma resterà intatto questo sabbatico dell’anima, dove la vita sembra lunga come i crepuscoli estivi e piena di avventure e di amici fidati. Che importa se poi si accorgeranno che non lo è? Quando accadrà, magari avranno un figlio che si prepara alla cosiddetta maturità, e a partire pieno di voglia di crescere e di illusioni di libertà.