Università, i rischi del modello americano
Ogni riforma è destinata a fallire se non si tiene conto delle peculiarità italiane
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Nei concorsi a cattedra delle scuole filosofiche di Atene banditi da Marco Aurelio, scherzava Luciano di Samosata, la cosa più importante agli occhi della commissione era che il candidato avesse la barba. Molti hanno scorto nella legge-delega del ministro Moratti sull'università un atto di ostilità contro le barbe pensanti del conformismo postsessantottino, in base alla percezione, diffusa nella cosiddetta cultura di destra, che il mondo accademico italiano sia la sede storica in cui resta annidato il cosiddetto potere culturale della sinistra. Lunghe polemiche hanno visto i giornali filogovernativi arrivare a paragonare il ministro Moratti a Maria Teresa d'Austria, l'illuminata imperatrice riformatrice. Mentre quelli dell'opposizione hanno accusato la nuova riforma di voler colpire la libertà di ricerca attraverso la precarizzazione dei docenti universitari, rendendone instabile il ruolo e sminuendone con ciò non solo l'influenza ma anche l'indipendenza. Un attacco insomma alla casta intellettuale in sé, mai stata in Italia né amica né centro dell'interesse della destra. Le cose sono in realtà più complicate e molti esperti accademici, da Sebastiano Maffettone a Antonio Padoa-Schioppa, da Angelo Panebianco a Alessandro Figa Talamanca, da Dario Antiseri a Umberto Eco, sono intervenuti autorevolmente sull'argomento, dettagliando vantaggi e svantaggi, difetti e pregi del disegno di legge secondo l'una o l'altra ottica disciplinare. Ma, al di là delle opinioni tecniche sul riformabile, esiste un problema propriamente storico riguardo a ciò che si vorrebbe riformato. Quella dell'università come sede elettiva della sinistra è una percezione comune che nasce dalla politica di egemonia culturale del Pci e dalla sua metamorfosi demagogica - come l'ha definita Luciano Canfora - negli anni 70. Una demagogia non certo priva di responsabilità. Ma lo stato attuale dell'università italiana ha ben poco a che fare con Gramsci o Togliatti, molto di più con il ribellismo e l'antiautoritarismo sessantottino e con una certa cultura cattolica populista e egualitaria. Entrambi i filoni sono stati prontamente cavalcati, in Italia, dalla politica democristiana. Contrariamente al mondo anglosassone, dove la tradizione dell'insegnamento privato ha reso il Sessantotto una parentesi effimera, contrariamente alla Germania, dove ha resistito il numero chiuso, e contrariamente anche alla Francia, dove la tradizione napoleonica ha assecondato si l'apertura dell' università pubblica alle masse ma garantito anche la prosecuzione della ricerca e degli alti studi nel circuito delle Grandes Ecoles, l'Italia, tra la fine degli anni 60 e i 70, ha sacrificato l'invidiabile sistema accademico che aveva ereditato ai totem dell'utopia anti meritocratica. L'operato dei politici era, oggi possiamo dirlo, opportunista se non cinico, e andava bene al di là non solo dell'originaria, austera ideologia della sinistra, ma anche delle frange più avanzate della cultura cattolica. Eppure andò così, e il risultato fu da un lato la svalutazione degli studi universitari, con le competenze e i titoli che ne conseguivano, dall'altro l'ingorgo degli atenei e il blocco dell’accesso alla ricerca e alla carriera accademica per le generazioni successive. È a questo disastro che, quasi trent'anni dopo, sia nel '98 la sinistra, con la riforma Berlinguer, sia oggi la destra, con la riforma Moratti, hanno tentato di porre rimedio. Ma come riformare l'irriformabile? Se il danno maggiore, come anche molti autorevoli accademici di sinistra sostengono, è stato fatto da chi ha concesso l'autogoverno amministrativo alle università di un paese in larga parte assuefatto allo statalismo, la riforma della destra, come in un recente documento depositato al Cun ha argomentato il presidente della conferenza nazionale dei presidi di lettere Gianni Guastella, rischia di finire di affossare il merito e penalizzare, paradossalmente, proprio i più competitivi tra i giovani studiosi. La Moratti ha in mente il modello americano, delle università private. Ma tutti sanno che in quelle università vige la crudele regola del «publish or perish», pubblica o muori: e su editoria non finanziata non si richiederà ai docenti di rendere conto della loro produzione scientifica, ogni imitazione del modello americano sarà risibile e dannosa. E qui torniamo al problema iniziale: per avere un senso, la flessibilità perseguita dal progetto Moratti, richiederebbe giudizi di merito oggettivi e non ideologici. Ma l'Italia non è l'America ingenua e puritana e nel nostro paese esporre a giudizio ciò che scrivono gli studiosi li consegnerebbe alla logica dell'appartenenza a un partito: sarebbe un'arma di censura politica. Ogni riforma dell'università in Italia è quindi destinata a fallire, a meno che il riformatore non sia davvero disposto a studiare senza pregiudizi e a comprendere senza modelli preconcetti i meccanismi e le gerarchie, i bisogni e le idiosincrasie di quell'irrazionale e peculiare, brulicante e affascinante Nave dei Folli che l'università italiana ormai è - non di ciò che dovrebbe essere. Più che l'ottica imperiale dell'illuminista Maria Teresa, il ministro Moratti dovrebbe adottare quella di uno dei capofila dell'illuminismo: l'ottica delle Lettere persiane di Montesquieu, di chi è straniero in un mondo che solo apparentemente si lascia comprendere e di cui, senza conoscere minutamente le credenze e le convenienze, le passioni e i caratteri, i desideri e le gelosie, non si potrà mai venire a capo.