Il pensiero contro l'eclissi
Elémire Zolla a vent'anni dalla morte
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Beati i poveri di fiato — coloro che nella vita hanno molto riso e molto pianto e molto si sono affannati a conoscere — perché loro è il regno dei cieli. Così Elémire Zolla amava interpretare la frase di Matteo 5.3 sui poveri di spirito. Il 29 maggio di vent’anni fa l'ultimo fiato abbandonava il massimo pensatore italiano del secondo Novecento. Una crisi cardiaca lo aveva colto nel suo letto all'inizio della notte. Aveva rifiutato il ricovero, respinto le cure, si era misurato per ore, interamente lucido, col respiro che si assottigliava, esalando l'ultimo dopo una leggera tazza di tè. Era morto nella condizione alla quale aspirava e che aveva descritto in anticipo nei Mistici dell'Occidente, testimoniava allora Grazia Marchianò, sua compagna di vita e di pensiero, che non si era scostata un istante dal suo fianco. “E' morto come aveva immaginato una morte perfetta: prestando un'attenzione ridotta all'io sofferente, attuando una resa alla forza delle cose”. Nei vent’anni esatti che ora ci separano da allora, Marchianò, con la stessa abnegazione, ha ricostruito, curato, commentato e annotato il corpus degli opera omnia di Zolla, di cui è uscito in questi giorni l’ultimo volume (E. Zolla, L’umana nostalgia della completezza. L’Androgino e altri testi ritrovati, Marsilio, 381 pp., 24 €). Compaiono, accanto al formidabile saggio sull'androgino, originariamente scritto in inglese, decine di importanti testi inediti o poco noti prodotti tra la metà e la fine del Novecento, che nella molteplicità dei temi e dei soggetti — da Kafka a Adorno, da Tolkien a Pletone — testimoniano una volta di più la grandezza di un intellettuale che in vita era ritenuto aristocratico, eppure ha intercettato con decenni di anticipo la sensibilità delle masse, o additato come reazionario, quando ha segnato invece l’avanguardia del mainstream di pensiero del secolo a venire, di cui oggi è riconosciuto ispiratore e maestro. Le sue antenne sensibili avvertivano il crollo delle ideologie pervasive, la caduta degli eidola delle utopie collettive le cui promesse di riscatto avevano ispirato le società occidentali dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, ma erano state deluse. Intercettando quella disillusione, si era fatto araldo di una ricerca individuale e interiore, ma non per questo meno sociale, più simile a quella dei filosofi della tarda antichità che alle dottrine delle chiese, anticipatrice di quella spiritualità laica, sincretistica, indipendente da ogni setta o credo, che avrebbe pervaso le generazioni del secolo a venire. Già nel 1959 Eugenio Montale lo aveva definito “uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene. Un uomo che non si mette ‘al di sopra’ della mischia, ma che vuole restare ad occhi aperti. E finché esisteranno uomini così fatti la partita non sarà del tutto perduta”. Zolla aveva capito che la gravitazione del mondo stava inclinando verso un oriente che aveva sempre fatto parte della civiltà dell’occidente, e di quest’unica civiltà aveva investigato i tratti. Aveva preso a raccogliere ciò che della tradizione culturale era stato rimosso, ma che fin dall’antichità classica congiungeva l’est e l’ovest in un unico bacino di civiltà. Era un “conoscitore di segreti”, un mistico bene addentro alle strutture e alla storia, oggi collettivamente rivisitate, della spiritualità d’oriente e d’occidente; uno studioso che voleva “definire l’anatomia spirituale dell’uomo nell’insieme delle civiltà religiose della terra”. Ma, nello stesso tempo, un seguace di Schopenhauer e di Nietzsche, un erede perfettamente laico del pensiero esistenzialista: “Non sono credente. Non credo a nulla. So alcune cose, altre le so meno, altre non le so, ma se dovessi dire che so qualcosa perché ci credo direi una menzogna. Non credo che esista un altro mondo oltre a questo. Esiste questo mondo, nei vari momenti in cui si rivela”. Antifascista da sempre, al contrario di molti suoi detrattori, era considerato politicamente sospetto. In Italia, scriveva già nel 1960, “si esclude la possibilità di un uomo sciolto da obbedienze confessionali o politiche, o si finge di non considerarla; chi non sia affiliato a una istituzione sarà considerato un’ombra, un demente”. Nel ‘67 era stato addirittura definito “una macchia nel nostro panorama di idee e di scritture”, in un articolo apparso sulla Rivista di Letteratura Italiana, in cui veniva contrapposto a Umberto Eco. Che la sua opera fosse “una negazione di tutto il sistema dell’industria culturale, destinata a non poter essere generalmente accettata” lo aveva ammesso, d’altronde, lui medesimo. Generalmente accettata non fu finché l’autore fu in vita, ma lo sarebbe stata con sempre maggiore entusiasmo, fin quando, a vent’anni dalla morte, le sue intuizioni solitarie, o elitarie, sono diventate evidenza condivisa. La necessità di guardare alla tradizione antica per redimere l’alienazione del modo di vita presente; la consapevolezza di trovarsi sul ciglio del secolo rivoluzionario in cui si sarebbe avverata, come pensava anche Arnold Toynbee, la definitiva conquista del pensiero orientale all’occidente: Zolla è stato un precursore. Nei Mistici dell’occidente accostava taumaturghi greci e padri della chiesa, cabalisti e francescani, gesuiti e protestanti. Nel corpus delle opere successive — da I letterati e lo sciamano a Che cos’è la tradizione, da Le meraviglie della natura ad Aure, da Verità segrete esposte in evidenza a Uscite dal mondo — tracciava una morfologia spirituale unitaria delle culture antiche, rifletteva sull’eredità speculativa offerta dall’oriente non cristiano al mondo moderno, ricapitolava la visione del mondo vivente prima della rivoluzione scientifica. Ma nello stesso tempo, negli ultimi anni, si interessava e anzi entusiasmava agli avanzamenti della fisica postrelativista, studiava le tecnologie informatiche, cominciava a riflettere sulle conseguenze della rivoluzione digitale. A questo proposito, qualcos’altro di importante ha da comunicarci oggi Elémire Zolla: sul ruolo, nella nuova era, dell’intellettuale. C’è un libro, L’eclissi dell’intellettuale, scritto nel 1959, che reca in exergo il detto di un asceta bizantino, san Nilo: “Colui che si disperde nella moltitudine ne torna crivellato di ferite”. La moltitudine alla quale la citazione alludeva non era certo per Zolla la massa, che invece il suo pensiero sul mondo contemporaneo, ispirato ad Adorno e alla scuola di Francoforte, si preoccupava di redimere dal “sonnambulismo coatto” dell’alienazione consumista — una massa di cui sarebbe, nel secolo a venire, diventato maestro. Era invece il coro del conformismo, il ronzio della propaganda semplificatoria, la censura intimidatoria rivolta alla complessità del pensiero e dunque alla figura stessa dell’intellettuale. Che secondo Zolla rischiava, nella macchina della comunicazione di massa, di scomparire. Quel libro, che gli inimicò a lungo — salvo rare eccezioni — l’intelligencija italiana, era già profetico di un mondo in cui l’alleanza tra neocapitalismo, tecnologia e demagogia avrebbe esalato dal falò delle vanità dei social media una cortina di fake news dietro cui sarebbe stato facile oscurare la competenza ed eclissare l’intelligenza, così da far svalutare, quando non apertamente denigrare, la complessità del pensiero e l’impegno critico, etico e politico, che ne deriva. A prevenire quell’obnubilamento e quell’eclissi Zolla aveva dedicato il resto della sua vita, insegnando ai lettori dei suoi libri a non perdersi nella moltitudine, ma a intraprendere il viaggio controcorrente, immune al mondo, trasversale al tempo, che lui stesso aveva seguito e che è il solo viaggio dell’eroe secondo ogni antico mito.