I tormenti di Pilato, il potere non è mai giusto
La lacerazione dell'uomo e il dilemma della storia, il dramma religioso e quello politico
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Si è detto che il film di Gibson è bello perché è semplice, arcaico, tradizionale. Perché fa rivivere senza filtri, in modo diretto e quasi ingenuo, il carattere insostenibilmente sanguinario che nella religione cristiana ha sempre avuto la passione di Cristo, sofferenza assoluta e senza precedenti, rispetto a cui né il sacrificio di Mitra né Dioniso fatto a pezzi né Buddha che si offre in pasto alle tigri reggono il confronto. Una sofferenza capace di scatenare, già nel mondo antico in cui il dolore era di casa, un'adesione emotiva di forza incomparabile. Senza cui non capiremmo né il successo della religione cristiana primitiva né le sue manifestazioni nella storia, ma che una malintesa accezione buonista e modernista del mandato postconciliare, la stessa che ha eliminato dalla Messa il latino, ha da noi quasi completamente cancellato. Tutto questo è vero. Il film di Gibson è una sacra rappresentazione, genialmente simile a quelle che si sono sempre fatte il venerdì santo nei paesi cattolici e che in poche parti del mondo civilizzato ancora sì fanno e di cui il mondo civilizzato ha a quanto pare assolutamente bisogno, se non fa che attingere violenza, sangue e morte dalle rappresentazioni profane, quelle che la morbosità dei media spande senza possibile catarsi. Sì è anche detto che per la sua bellezza e tradizionalità, per il suo rifarsi alla narrazione evangelica letterale e dunque «vera», quello di Gibson è un film impolitico e anideologico. Non giudicabile, come qualcuno ha fatto, per l'interpretazione storica della vicenda processuale di Cristo e della sua condanna. Questo non è esatto. Nessuna lettura del processo di Cristo è mai stata immune dall’ideologia o estranea alla politica, e nessuna si sottrae al vaglio della storia. Se non altro perché è una vicenda sulla quale non possediamo fonti storiche, a parte il cenno di Tacito negli Annali e a parte i quattro vangeli canonici, riletture ideologiche - di giudei credenti nella resurrezione di Cristo - di quanto avvenne a Gerusalemme probabilmente agli inizi d'aprile dell'anno 30, basate su materiali di cui non conosciamo né gli autori né la lingua originale né l'epoca di composizione. Per questo motivo la narrazione evangelica è una materia incandescente e cangiante, fluida e malleabile alle epoche e alle idee come nessun'altra. E anche questo è un motivo del suo successo. Il problema storico al centro del film, così come dell'intero mito cristiano, è sempre stato chi fosse il responsabile della spaventosa morte del protagonista. Nella storia si sono alternate due visioni dei fatti. La prima, elaborata dal protocristianesimo dei martiri, fa del potere statale imperialista il carnefice di Cristo. La seconda incolpa il genus iudaicum o, nell'analisi storico-giuridica più aggiornata, la folla in maggior parte ebrea cui il governatore sì è appellato secondo la procedura della condanna per acclamazione popolare. La narrazione evangelica sembra avvalorare questa seconda versione. Ma nel I secolo il cristianesimo era solo una piccola eresia ebraica, non si distingueva ancora dal giudaismo, non poteva quindi individuare nel proprio genus il nemico. Lo identificò invece, mentre cresceva all'ombra delle sinagoghe, nel colonialismo romano. Nel II secolo l'esempio evangelico spingerà alla provocazione e quasi al suicidio collettivo una schiera di martiri, che esaspereranno i tolleranti magistrati imperiali contestando in modo radicale l'autorità dello stato da loro rappresentato. Solo nel III secolo, quando la cristianizzazione delle élites porterà a una nuova prospettiva universalistica e al «compromesso storico» dei quadri della chiesa con lo stato romano, il cristianesimo rimuoverà la sua primitiva impronta rivoluzionaria. Nella teorizzazione patristica affiorerà una solidarietà retrospettiva con Roma e un'esigenza di revisione dei crimini storici che le erano stati imputati. Sarà Tertulliano il primo a sollevare i romani da ogni possibile accusa di deicidio per farne carico interamente e pesantemente agli ebrei, e a riabilitare la figura di Pilato definendolo addirittura «già in cuor suo cristiano». Se la lunga tradizione ufficiale ecclesiastica scagiona Gibson dall'accusa di antisemitismo, lo allontana però dalle principali riletture moderne, in cui la passione di Cristo è divenuta metafora del martirio del popolo oppresso. E' propria del 900 la ripresa del racconto evangelico in chiave anticoloniale e anticapitalista, e chi ha amato il Cristo dichiaratamente rivoluzionario di Pasolini non ha potuto certo gradire il tradizionalismo che il film di Gibson adotta nell'assolvere l'imperialismo romano, «potere buono» contrapposto al fanatismo del sinedrio ebraico. In effetti per lo spettatore politicamente corretto il vero scandalo del film non è la violenza, non è il tema del sangue: è il tema di Pilato, ossia del rapporto tra un potere imperialista, per quanto laico e tollerante, e i conflitti interni delle regioni che sorveglia o presidia con la forza. Il Pilato di Gibson ha, forse fortuitamente, la rasatura, il portamento, la mentalità di un capo militare americano. Le complicate rivalità etnico-confessionali dell'antico territorio in cui è piombato gli sono incomprensibili. Alla diffidenza culturale e al timore di una guerra tra sette si sommano l'angoscia di una rivolta contro l'autorità che rappresenta e l'incapacità di controllare il sadismo dei suoi stessi soldati. Il successo di Gibson è forse dovuto anche a questo. Non solo al revival di un'emotività religiosa cristiana parallela al fondamentalismo islamico, ma anche all'esposizione di un problema politico irresolubile, l'impossibilità del potere di essere giusto. Non è proprio questo, in fondo, il motivo del successo di quel millenario bestseller che sono i vangeli? Il fatto cioè di mescolare in un'unica storia la lacerazione dell'uomo e il dilemma del potere, il dramma sacro e il dramma politico, la passione di Cristo e quella di Pilato?