L’icona dopo l’icona
Al Palazzo della Cancelleria una mostra sull’arte greca contemporanea racconta la persistenza di un modello pittorico che dai ritratti del Fayyum passa per Bisanzio
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“La rappresentazione della figura umana. Dall’arte post-bizantina alla pittura greca contemporanea” è il titolo della mostra che si aprirà l’8 novembre al Palazzo della Cancelleria, in collaborazione tra l’Ambasciata di Grecia presso la Santa Sede e la Santa Sede stessa, che ne ha fornito, appunto, la sede: vicino a Campo de’ Fiori, in quel palazzo dai molti segreti, costruito su un mitreo, che è tra le fondazioni più antiche e tra le più dense di storia culturale (e politica) della chiesa romana. La mostra è importante per almeno due ragioni. Da un lato è la prima esposizione sistematica di pittura greca moderna e contemporanea allestita in Italia, nell’anno del bicentenario della rivoluzione del 1821 che segnò l’indipendenza della Grecia dall’impero ottomano. D’altro lato è un percorso perturbante e illusionistico, che affiancando icone sacre e opere d’arte profane e ponendole a confronto traccia una ‘storia dell’icona dopo l’icona’ che ne illustra la persistenza e presenza anche dove apparentemente non è.
Anzitutto il titolo, la “figura” umana. La parola viene direttamente dalla lingua latina, in cui significa “effigie”, “simulacro”. Figura, in latino, è spesso il fantasma, l’”apparizione” di qualcosa di non vivo, di assolto dalla realtà sensibile. Oppure è un’entità astratta, il latino figura essendo il corrispettivo del greco idea, nel senso di immagine originaria, di modello. La figura non è la realtà ma una cifra per interpretarla. Sono figure le forme convenzionali del piano e dello spazio che chiamiamo geometriche; sono figure i numeri (ancora oggi, in inglese, “figures”). Nel linguaggio letterario, chiamiamo figure del discorso (figurae orationis, figurae dicendi) le allusioni, le metafore, le allegorie: immagini letterarie antiletterali, che dicono una cosa per evocarne un’altra.
Quando evochiamo la “figura” di un essere umano, quindi, non intendiamo ciò che la rappresenta nel modo che spesso impropriamente chiamiamo “figurativo”, ossia secondo l’apparenza fisica. Piuttosto, intendiamo la metafora che quei tratti fisici costituiscono — alla lettera il trasferimento da un piano di realtà a un altro. Intendiamo l’idea della quale la “persona” (in latino “maschera”) è manifestazione, la rivelazione di una verità non percepibile agli occhi ma all’intelletto, o alla psiche, all’anima. Un’entita’ evanescente, simulacro di un’altra realta’ interiore sia all’oggetto della raffigurazione sia al soggetto che la osserva.
E’ una consapevolezza che si afferma fin da Platone nell’universo intellettuale greco, che si sviluppa nel neoplatonismo di Plotino e che approda al millennio di Bisanzio e alla sua teoria dell’immagine. Nell’arte sacra tipica del mondo ortodosso l’irrappresentabilita’ non solo del divino, ma di ogni realtà ‘vera’, che secondo l’opinione platonica è sempre e solo quella delle idee, viene teorizzata dai teologi bizantini ed espressa da un’arte apparentemente semplice, primitiva. Ed ecco, arriviamo all’icona: un’immagine fisica che può venire aperta solo da un’immagine dell’anima; il veicolo sensibile, ma non naturalistico, di un’essenza psichica, il cui fine è l’astrazione.
Attraverso le progressive intuizioni dei filosofi e dei teologi, formulate definitivamente a Bisanzio durante il cosiddetto iconoclasmo dell’VIII e IX secolo, questa visione si trasmetterà al mondo ortodosso russo, verrà esplicitata dai teorici dell’inizio del XX secolo (Trubeckoji, Florenskij) e raccolta dagli artisti loro contemporanei, come Kandinskij, che fonderanno, a partire dalla filosofia bizantina dell’immagine, quella che chiamiamo arte astratta. Questo nel mondo russo. Ma nel mondo greco, patria originaria dell’arte dell’icona, che cosa è accaduto nel frattempo? E’ quello che la mostra della Cancelleria ci racconta.
Diceva Gombrich di ignorare se l’Auriga di Delfi somigliasse al modello umano su cui, nel profondo V secolo avanti Cristo, era stato scolpito; di presumere che non gli somigliasse affatto, non nel senso che noi attribuiamo all’idea di somiglianza, e da cui dobbiamo liberarci. Non doveva somigliare a un modello sensibile, quel giovane dalla postura e dallo sguardo immobili nella mobilità della corsa sul carro della vita e del tempo. Altrettanto statica, molti secoli dopo, nell’Egitto romano, è l’arte del fayyum, da cui si fa discendere l’icona bizantina. Il fayyum è, originariamente, un ritratto funebre: l’immagine di un morto che ci guarda da un’altra dimensione. La sua stilizzazione è voluta perché non è la rappresentazione di un essere vivente ma, appunto, della sua figura: è, letteralmente, un simulacro.
Nella Grecia moderna, verso la fine della turcocrazia, la nuova arte ‘borghese’ settecentesca, inclusa quella religiosa delle icone, si allontanò in un primo tempo dalla tradizione bizantina, non solo morfologicamente, abbandonando la tecnica della tempera a uovo e adottando in parte l’uso della prospettiva, ma anche ideologicamente, rinnegando lo “stile trascendentale” di Bisanzio e riaccostandosi all’occidente dei rapporti mercantili, alla voga di Venezia, Roma, Napoli. Ma presto il cosmopolitismo postrivoluzionario del secondo Ottocento portò i pittori formati a cavallo del secolo in Francia e in Germania a riconoscere prima e più di altri occidentali, nella rivoluzione dell’astrattismo, il ricrearsi dell’obiettivo principale dell’arte bizantina: la necessità di mostrare nella “figura” umana la proiezione di un’immagine interiore. Finché, nell’avanzare del Novecento, si produrranno un’esplicita rivendicazione d’identità e un ritorno alle fonti greche, platoniche, bizantine: la fissità dell’auriga di Delfi (che trova un’allusione diretta nell’Ephebos di Nikos Nikolaou) come quella del fayyum (che ipnotizza Giannis Tsarouchis, decalcata alla lettera nel suo Agori, elaborata nei kavafisiani volti maschili coronati, come già in quello femminile di Nikos Eggonopoulos) è colta ed espressa dagli artisti, che della tradizione riprendono e sperimentano di nuovo le tecniche: l’encausto, la tempera. Ma soprattutto, dell’icona, ritrovano gli occhi.
Di ciascuno dei dipinti novecenteschi esposti alla Cancelleria guardate lo sguardo (e confrontatelo con quello delle icone che i pittori greci continuano a dipingere, come il San Bartolomeo di Alexandros Soutsos o il San Giorgio di Stamatis Skliris): la sua intensità, la sua forza e nello stesso tempo la sua immersione ipnotica in una ricerca interiore che “invita l’osservatore a una riflessione esistenziale e rimanda a una trascendenza”, come scrive la curatrice della mostra e del catalogo Olga Mentzafou-Polyzou. Guardate il Ritratto di giovane di Pavlos Samios o le Madri di Kostas Soklis e di Eduardos Sakagian, o la fissità sospesa della Famiglia di Dimitrios Galanis, grande amico di Picasso e Matisse, di Braque e Chagall. Perfino un ritratto apparentemente tradizionale come quello che nel 1917 Nikolaos Lytras fa al grande pittore Periklis Vizantios, pur nell’allure dandystica alla Sargeant o alla Boldini ha, nei tratti del viso e nello sguardo, la staticità dell’icona: di un’immagine che non si guarda ma da cui si è guardati, e che ha la capacità di mostrare, nella forma visibile, la figura interiore.