Uno sguardo da diva
Storia e metamorfosi della Donna Fatale. Dalla corte di Bisanzio ai fasti del cinema, attraverso il decadentismo, la formazione di un modello femminile che ha fatto scuola
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Nel 26 dicembre 1884 - proprio sul cadere dell'anno fatale del decadentismo, l'anno in cui Joris-Karl Huysmans pubblicò A rébours, l'anno in cui Verlaine fece uscire in un volume destinato a una relativamente alta circolazione presso il pubblico la raccolta Jadis et Naguère, con la poesia Langueur e con il famoso verso: "Je suis l'empire à la fin de la décadence" - quel 26 dicembre, nel grande teatro della Porte St. -Martin, fu rappresentata per la prima volta a Parigi una pièce storica improbabile e sublime ambientata a Costantinopoli nel VI secolo, durante il regno di Giustiniano: Théodora, dramma "in cinque atti e sette quadri" di Victorien Sardou, con musica di scena di Jules Massenet. La massa degli spettatori fu letteralmente stregata dalla figura di femme fatale che Sardou aveva saputo trarre, molto liberamente e, in fondo, anche castigatamente, dalle narrazioni "segrete" di Procopio, e cioè dai suoi Anekdota (in greco "fatti inediti", "dossier segreti"), da poco tradotti sulla base dell'edizione data nel Corpus Bonnense da Wilhelm Dindorf nel 1833. Della reazione estasiata del pubblico testimonia la dettagliata recensione che apparve pochi giorni più tardi, durante quelle vacanze natalizie parigine fin-de-siècle, nell'lllustration Théàtrale del 3 gennaio 1885, con i disegni di Emile Bayard, che testimoniano fedelmente i costumi e la scenografia del teatro della Porte St.-Martin. Da questa prima rappresentazione, replicata molte altre volte in quel teatro, derivano sia la messa in scena, celeberrima, del gennaio 1902 al teatro Sarah Bernhardt, in cui nei panni di Teodora recitava, appunto, la divina, l'incarnazione vivente della femme fatale di fine secolo; sia la versione cinematografica di Leopoldo Cariucci, realizzata a Torino nel 1922, vero classico del "muto liberty".
Di fatto il mito della Femme Fatale Bizantina prende le mosse dagli arabeschi liberty della pièce di Sardou, per poi modificarsi, ma di fatto consolidarsi - come vedremo - negli scritti di un potente e famoso accademico, Charles Diehl, che il giorno della prima della Porte St.-Martin era ancora solo un giovane e indignato spettatore, ma che avrebbe giocato in seguito un ruolo determinante. La diretta polemica, ventiquattro anni dopo, fra il glorioso commediografo un po' grossier e il bizantinista autorevole e prude darà forma definitiva all'immagine stereotipa della corte di Bisanzio come regno di intrighi femminili o effeminati e dunque vacui e insensati. Da quest'immagine, fantasticata dalla cultura decadente tardottocentesca e tuttavia accreditata nell'esegesi delle fonti degli storici borghesi di inizio secolo, è derivata non solo la nostra opinione comune, ma la letteratura critica e storiografica del Novecento.
Ancora oggi l'irragionevole percezione di Bisanzio come "decadenza indefinitamente protratta" appare debitrice della sensibilità mortifera, asfodelica della letteratura decadente con cui alla fine dell'Ottocento si era incontrata. E se la Théodora di Sardou obbediva agli stereotipi della donna fatale, tuttavia questi stessi tratti, che vengono in genere ritenuti autoctoni della fantasia tardoromantica, decadente e simbolista, in parte attingono, e con una precisione impressionante, alla tradizione iconografica, letteraria e storiografica di Bisanzio, che proprio in quegli anni cominciava a essere divulgata e ad entrare nelle biblioteche degli scrittori, con il concludersi dell'opera ecdotica del Corpus Bonnense e con le sue sia pure imperfette traduzioni latine e moderne. In altre parole, la contaminazione Bisanzio/Decadentismo è reciproca e speculare. Nell'una estetica si rispecchia l'altra, in un flou che confonde i margini del tempo. Anche per questo, probabilmente, la cifra impressa a Bisanzio dall'immaginazione letteraria fin-de- siècle è così difficile da cancellare.
Se analizziamo gli stereotipi del mito della femme fatale decadente individuati dagli studiosi della letteratura tardoromantica francese, o anche ad esempio russa, non possiamo non citare un primo elemento: lo sguardo. Quello della femme fatale è sempre uno sguardo terribile e antico. Pietrifica gli uomini, li priva della volontà, della cognizione dello spazio e del tempo e di ogni altro senso. Come ci insegnano i miti greci, del resto, la passione è spesso l'inizio di una metamorfosi. Per la vittima della femme fatale, è l'anticamera del nulla. Sono moltissimi, nel film liberty di cui dicevo sopra, i primi piani sugli occhi bistrati della protagonista. O basta pensare agli occhi di Salomè descritti nell’Erodiade di Flaubert, terribili - scrive - nel loro carico di morte. In una lettera lo stesso scrittore ricorda così un personale incontro: "Emanava dagli occhi un fluido luminoso che sembrava ingrandirli; erano immobili e fissi. Tutta la terra era scomparsa. Vedevo solo la sua pupilla dilatarsi sempre più" (Corréspondance, 1846). La morte negli occhi è il titolo di un magnifico saggio di Jean-Pierre Vernant sul mito di Medusa e le sue implicazioni nella psicologia dell'antico uomo greco. Nel mito dello sguardo della femme fatale tardoromantica si cela sicuramente un'interpretazione simbolica dell'antica immagine della Gorgone. Fra l'altro, quella della Medusa è un'ossessione iconografica della pittura e della decorazione decadente, come capiterà di ricordare anche più avanti.
Vorrei citare, come parallelo antico, la descrizione che di una donna fatale fa un'altra donna bizantina: Anna Comnena, scrittrice "nata nella sua matrigna e rivale Maria d'Alania, imperatrice straniera, di nascita circassa, coltissima (fu lei a iniziare alle lettere Anna bambina), molto accorta in politica, amante di suo padre nonché madre del suo futuro amante, Costantino, assassinato tuttavia a vent'anni ancora prima di poter salire insieme con Anna al trono.
Anna Comnena, Alessiade, I 107-108 Leib
"Era altissima di statura e sottile come un cipresso. Aveva la pelle bianca come la neve, il viso perfettamente ovale, guance colore di myosotis o di rosa. Ma il lampo dei suoi occhi, quale essere umano può raccontarlo? Sotto le sopracciglia, che erano alte, sottili, arcuate e di colore rosso fuoco, lo sguardo era di un blu verde, da uccello rapace. |...| La bellezza fisica dell'imperatrice, la malìa che da lei irradiava, il fascino ipnotizzante dei suoi modi, nessun poeta potrebbe descriverli, nessun artista riprodurli. Una statua come quella, né Apelle, né Fidia, né alcuno dei grandi scultori l'ha mai scolpita. Si dice che il volto della Gorgone pietrificasse gli uomini che vi posavano lo sguardo. Ma chi avesse anche per un attimo veduto avanzare Maria, o all'improvviso se la fosse trovata immobile davanti, rimaneva lui stesso stupefatto, paralizzato nel gesto, svuotato, quasi avesse perso anima e senno. (...) E pareva si fosse animata in compenso una statua, per un sortilegio erotico agli occhi degli uomini sensibili al bello".
E' forse a causa di questo sguardo, è per esaltare o per mascherare questo sguardo che la femme fatale fa uso abbondante di trucco, in genere scuro, intorno agli occhi? Tutte le dame greche e orientali, per tutto il Millennio bizantino e fino al Quattrocento, usavano un trucco forte, teatrale (o, dovremmo dire, da cinema muto), con abbondanza di bistro e di kohl, come mostrano le raffigurazioni iconografiche. Il loro è sempre stato uno "sguardo oscuro", come è dimostrato da una serie di testimonianze, dai mosaici di Santa Sofia agli affreschi quattrocenteschi presenti sia nelle navate, sia negli arcosòli riservati alle sepolture imperiali all'interno della Karije Djami a Istanbul, già chiesa di San Salvatore in Chora.
Se vogliamo immaginare la donna di Bisanzio, una civiltà con alle spalle una teologia e una mistica essenzialmente e sostanzialmente gnostiche, dobbiamo immaginarla simile alla dama càtara e bogomìla: una sacerdotessa mistica e ascetica, ma insieme un'amante volubile e spregiudicata. E tali erano, in effetti, secondo il coro concorde delle fonti bizantine, le imperatrici. D'altra parte, il mescolarsi dei caratteri di vergine e libertina nello stereotipo della lemme fatale ottocentesca sta accanto a un altro suo tratto distintivo: non perde mai il suo potere.
Dopo la seduzione sessuale l'uomo è perduto: o muore o sopravvive a se stesso come un fantasma. Anche Giustiniano nella pièce di Sardou sembra essere stato reso così debole e inetto e ormai incapace di grandi passioni - oggi diremmo psicologicamente castrato - proprio dalle nozze con Teodora, come d'altronde le contesta esplicitamente il popolo in rivolta.
L'archetipo dell'imperatore- fantoccio, dell'imperatore- fantasma, vittima di un avvelenamento all'inizio solo psicologico e poi anche di un vero assassinio per volere dell'imperatrice, che pure lo ha innalzato al trono, ricorre ossessivamente nella narrazione della Cronografia di Psello, il principale testo storico dell'XI secolo bizantino, scritto e ambientato nell'epoca del cosiddetto Governo dei Filosofi.
In quell'epoca Psello stesso, filosofo di formazione - neoplatonico, grande demonologo, indimenticato interprete degli Oracoli Caldei - fu un insider, un testimone interno alla corte prima in quanto funzionario dei Sekreta, poi come segretario personale e consigliere politico di Costantino IX Monomaco, uno dei mariti di Zoe, infine con la carica di primo ministro nonché, probabilmente, nella posizione di amante della bellissima Eudocia, salita al trono dopo la morte della sorella di Zoe, Teodora.
Ecco i fatti. Nel 1025, vedendo avvicinarsi la morte, l'ozioso imperatore Costantino Vili si stacca un momento dal tavolo di backgammon, al quale è stato seduto tutta la vita, per scegliere come suo successore un membro del senato. Romano. Con la forza ne fa monacare la moglie per sposare Zoe "la più bella delle sue figlie" (Psello, Cronografìa, Il 10 = 1 68). Romano III, salito così al trono e divenuto molto presto - nella maligna descrizione dello storico - vanitosissimo sperperatore dei denari dello stato, "prese a trascurare completamente l'imperatrice Zoe, astenendosi dall'intimità con lei... Quanto a Zoe, fremeva di sdegno all'idea che a tal punto, nella sua persona, si disprezzasse il sangue imperiale, ma soprattutto di cupidigia amorosa" (Cronografìa III, 17 = 1 96). Zoe prende allora come amante Michele. "Quando per la prima volta lo vide, l'imperatrice, gli occhi accesi di un bagliore grande quanto la di lui bellezza, ne fu immediatamente posseduta e in quel segreto coito di sguardi si ingravidò di amore per lui" (Cronografia III 18 = 1 98). La narrazione che Psello fa della seduzione di Michele da parte di Zoe è delle più frequentate dai bizantinisti (Cronografia I 99-107 = III 19 23). Dopo le prime goffe avances, Michele "la prese a un tratto fra le braccia e la baciò, cercando con le labbra il collo e la spalla, all'arte rapidamente istruito dal fratello", il potente eunuco di corte Giovanni Orfanotrofo. Zoe lo ricambia "con la veemenza dei suoi baci" e si passa a scene di "congiungimento carnale", su un certo divano dove i cortigiani sempre li sorprendono adagiati insieme. "Il giovane in queste circostanze moriva di vergogna", dice Psello, "si faceva di porpora ed era tutto sgomento, mentre l'imperatrice non si scomponeva affatto: stringendoglisi contro lo baciava sotto gli occhi di tutti e si augurava ad alta voce di poter profittare assiduamente dei suoi servigi". "Un'imperatrice innamorata" - si domanda Psello - "che cosa negherebbe all'amato?". Nell'attribuire a Zoe i tratti che diverranno stereotipi della femme fatale, capace di qualunque sacrilegio in nome della passione, la feroce ironia di Psello ci regala scene bizantine caricaturali davvero degne del cinema muto. Zoe non solo "letteralmente copre d'oro come un idolo il giovane amante", ma arriva, di nascosto, "a farlo sedere sul trono, a mettergli in mano lo scettro, abbandonandogli fra le braccia". "L'imperatore", scrive Psello, "era ben lieto che qualcun altro appagasse le voglie di quella donna calda e ardente di passioni", ma ben presto comincia ad accusare i sintomi di "un morbo dei più singolari e incresciosi", che ha tutta l'aria del l'avvelenamento. Si arriva alla famosa scena del corteo imperiale in cui l'imperatore è ridotto proprio a un manichino, a una specie di mummia. Psello testimonia di avervi assistito, non ancora sedicenne, con i suoi occhi. Il già aitante e vitalissimo Romano “di poco differiva da un cadavere. Tutto il volto gli si era tumefatto come a una salma di tre giorni pronta alla sepoltura. Ansimava fittamente. Dei capelli, la maggior parte erano caduti come da un cadavere; poche ciocche, sfibrate, sopravvivevano" (Cronografia III 24-25 = I, 106-108).
La scena dell'assassinio dell'imperatore si svolge nella piscina sotterranea del palazzo e nella più bizantina delle circostanze, alla vigilia dei rituali della Settimana Santa. All'alba, per prepararsi al tour de force liturgico, l'imperatore si reca in piscina "a spalmarsi di unguenti e lavarsi e purificarsi". Dopo essersi "frizionato il corpo e la testa", si lascia andare nell'acqua, che è "più profonda nel mezzo". E' in quel momento che alcuni emissari dell'imperatrice Zoe si immergono con la scusa "di aiutarlo e sostenerlo" mentre nuota. "Dicono" - riferisce Psello - "che non appena l'imperatore si fu immerso col capo sott'acqua, cosa che in effetti era solito fare, quelli presero a pigiargli tutti insieme il collo e così lo tennero a lungo; poi lo lasciarono e uscirono dalla vasca". Il resto della scena, veramente degna di un noir, si può leggere direttamente nella Cronografia (III 26 = I 110-112).
La femme fatale Zoe trionfa. Anche Michele cadrà in disgrazia e soccomberà misteriosamente. Verranno uccisi suo fratello, salito al trono dopo di lui, e gli altri membri della sua famiglia; Zoe, dopo un periodo di regno interamente femminile condiviso con la sorella, sposerà ancora un Costantino Monomaco, di antica nobiltà senatoria, bello "come Achille e Nireo" (Cronografia VI 125-126 = Il 66-70).
Presto ne avvelenerà l'amante circassa, la sebasta Sclerena, celebrata, oltreché per gli obliqui occhi di smeraldo, perché conosceva a memoria tutto Omero. Solo la sua stessa morte, a quanto pare, le impedirà di sbarazzarsi anche dell'ultimo marito. Lo farà, forse seguendo un originario piano della sorella, l'altra porfirogenita, Teodora, prima armando un sicario che tenterà di assassinare Costantino IX nei penetrali del talamo, poi procurandogli, di nuovo nel corso di un bagno in piscina, questa volta nel nuovo e magnifico parco dei Mangani, un misterioso "male alla pleura che come un colpo di freccia diffuse il suo veleno all'interno" (Cronografia, VI 201 = Il 150). Così Teodora regnerà da sola, realizzando di nuovo la vocazione femminile e matriarcale del potere bizantino: "Assunse i pieni poteri apertamente, facendo con grande sicurezza di sé la parte dell'uomo, senza bisogno di alcuno schermo. La si poteva vedere riunire in assemblea i funzionari ed emettere responsi con voce perentoria dall'alto del trono, dispensare verdetti e arbitrati, pronunciandosi sia con sentenze scritte, sia a voce, ora in tono sommesso e ora con intimazioni assai precise" (Cronografia Via 2 = 11 155). Gestirà dunque il potere con legittima autorità e con pieno successo. Perché se ci atteniamo alle fonti bizantine il potere femminile non ha alcun carattere irrazionale né arbitrario. E' spregiudicato, crudele, sanguinario, tinto di erotismo, come in effetti generalmente ogni potere anche maschile. O come in ogni caso è la storia del potere nella letteratura di Bisanzio, secondo la definizione programmatica che ne diede nel IX secolo Fozio: politica, sangue, sesso. Ma nelle fonti antiche il carattere del potere femminile non è affatto quello che le deformazioni europee ottocentesche gli attribuiscono. Anzi. Zoe e sua sorella mirano con lucidità e con una spregiudicatezza realpolitiker a non delegare a mariti o ministri maschi il potere che appartiene loro per nascita e formazione. E alla fine, una volta che lo hanno ottenuto, lo impugnano saldamente, saggiamente ed equamente perfino agli occhi intransigenti del maligno Psello.
Una cosa è certa. La femme fatale ha sempre un rapporto stretto e diretto con il potere e con la politica. Può essere una regina come Cleopatra, una principessa di sangue imperiale come Turandot, la figlia di un potente o la sua amante o le due cose insieme come Salomè, o un'influente cortigiana quale fu Teodora, magari ascesa al trono. Anche la disinvoltura nel maneggiare veleni, filtri e altre droghe - essenziale all'intreccio della Théodora di Sardou - è ben nota e studiata. Discende dalla corte bizantina, come abbiamo visto, attraverso la tradizione rinascimentale alchemica: discende dalla sacerdotessa-maga di derivazione neoplatonica e gnostica, esemplificata dall'immaginazione popolare e dalla propaganda ecclesiale nella figura della strega; discende, molto prima ancora, dal prototipo stesso della donna fatale: Elena col suo nepente che "addormenta il cuore degli uomini".