Dell'amore e di altri demoni
Per Platone è il sentimento che determina tutte le azioni e aspirazioni degli esseri umani. Diventa malattia nei versi di Saffo, che ne descrive i sintomi uno ad uno. E' insana per Lucrezio, ossessione per Cole Porter. Infelicità secondo Aragon.
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In un dipinto di Tiziano, tradizionalmente conosciuto come L’amor sacro e l’amor profano, sono raffigurate due donne quasi identiche, salvo che una è vestita di tutto punto e l’altra è nuda. Sono sedute ai due bordi di un sarcofago classico adibito a fontana, i cui bassorilievi mostrano i simboli della morte e della vita. Controintuitivamente, la donna nuda come un’Afrodite greca è l’amor sacro, ossia l’eros intellettuale e ideale della filosofia classica. Mentre l’amor profano è la donna vestita alla moda del suo tempo: l’amore reale, calato nel mondo, agito, vissuto. Al centro un bambino alato, Eros, mescola le acque, a significare che tra i due amori non c’è differenza. Se non si mescolano, l’amore non è amore. Il desiderio verso una persona e quello verso la conoscenza, la fusione con il corpo amato e quella con la parte profonda del proprio sé, lo slancio dell’innamoramento e quello dell’automiglioramento sono le due facce dell’eros secondo il neoplatonismo rinascimentale al quale si ispirava Tiziano, a sua volta ispirato all’idea che ne aveva Platone, espressa da Diotima, la maestra d’amore di Socrate, nel Simposio: quella tensione che porta “a vivere in modo bello” e a “creare nel bello, col corpo ma soprattutto con l’anima”(209c). E’ questo intelletto d’amore l’essenza della filosofia, e Socrate stesso dichiara “di non conoscere nient’altro se non ciò che riguarda l’amore” (177d).
Se secondo Platone l’amore è ciò che determina tutte le azioni e aspirazioni degli esseri umani, fin dagli inizi della riflessione greca sull’origine del mondo — dalla Teogonia di Esiodo alle cosmogonie orfiche a quella degli Uccelli di Aristofane, beffarda ma, come sempre in questo allievo di Socrate, non del tutto — Eros si identifica con l’energia cosmica: emerge direttamente dal Caos, dallo sconfinato spazio primordiale, dalla materia indistinta, la quale genera “un uovo pieno di vento” da cui esce “amore dalle ali d’oro splendenti”. Già per i presocratici Eros promuove la nascita di ogni cosa. Per Empedocle tutte le cose viventi — alberi, fiere, uccelli, pesci — nascono dal travaglio dell'amore, in cui tutto si riunisce, perché ogni cosa muore di desiderio per l'altra.
“L’amor che move il sole e l’altre stelle” di Dante: è sacro? è profano? Ed è sacro o profano l’amore che nel Cantico dei cantici muove la Sulamita alla ricerca di quello che mai trova (Quaesivi illum, et non inveni)? “L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato”, scriveva san Bernardo. “La mia anima si disfa. / Lo cerco e non lo trovo, / lo chiamo e non risponde” (5, 6), lamenta la sposa, vagando in cerca. “Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo braccio, / perché forte come la morte è l’amore, / duro come l’Ade il desiderio” (8, 6). L’amore è forte come la morte: vuol dire che l’amore può vincere la morte? o che l’eros è la morte dell’io e ci fa uscire dai suoi confini portando all’insania, come già segnalato da Lucrezio? Che scrive, nel quarto libro del De rerum natura: “Non vedi come soffrono le coppie legate dal piacere? Anche quando l’amore è felice e i corpi si congiungono e sono vicini a godere e Venere inonda la femmina, i due si avviluppano, mescolano la saliva con la lingua, premono le labbra contro i denti, ma è inutile: non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere”.
“Amor che a nullo amato amar perdona”, scrive ancora Dante. Magari. Davvero l’amore porta ogni amato a riamare chi lo ama? Non proprio, spiegava Platone nel Simposio. Ci sono sempre un amante e un amato. E l’amante, che sempre soffre, è più caro al dio e più divino dell’amato (180b). Perché questa forza che muove tutta la natura provoca una sofferenza insita nella natura rerum, nella natura delle cose. “Ogni cosa nella natura muore di desiderio per l'altra”, diceva Empedocle. “Ahimé o infelici, o lacerati mortali, da quali spasmi, da quali singhiozzi siete nati!”.
L’amore è una manìa in senso tecnico, una forma di follia classificata come tale dalla medicina dei greci oltre che dalla loro filosofia. E dalla loro poesia. La prima voce individuale che si leva nella letteratura occidentale è il grido di una donna, espresso in un metro singhiozzante che chiamiamo strofe saffica minore: il frammento di un’ode di Saffo, il 31 West, che di questa manìa descrive i sintomi: “La voce sulla lingua si frantuma, / un fuoco mi corre sotto la pelle, / vedo nero, mi rombano le orecchie./ Sono tutta bagnata di sudore,/ rabbrividisco di orrore in tutto il corpo; / sono più verde dell’erba; / sono quasi morta”. In amore non possediamo, ma dall’amore siamo posseduti. Il dolore della gelosia, affezione inscindibile da quella dell’amore, si trasforma invariabilmente, spiegano gli antichi, in collera. Tanto da potere essere definita in se stessa, la gelosia, una collera erotica, orghé, in base alla classificazione delle passioni (pathemata) di Aristotele.
A volte, invece, è una sindrome bipolare: “Amo. Non amo. Sono pazzo. Non sono pazzo”, scriveva Anacreonte. O, peggio: “Odio e amo. Mi domandi come sia possibile. Non lo so, ma so che è così, ed è una tortura”, scriveva Catullo. Dell’odio-amore per Lesbia, dell’antica e universale condizione in cui la psiche non riesce più a distinguere l’uno dall’altro, ancora oggi sentiamo troppo spesso l’eco in certe parole terribili balbettate da maschi violenti (“la amavo troppo”) che, diversamente da Catullo, non l’hanno scolpita in poesia ma bestialmente scagliata sul corpo femminile, fino a trucidarlo.
L’amore è ossessione. “Come il bum-bum-bum del tam tam / quando calano le ombre nella giungla, / come il tic-tac dell’orologio a pendolo/ implacabile sul muro, / come il drip-drip-drip delle gocce di pioggia / quando finisce il temporale estivo”, cantava Cole Porter. L’amore è infelicità. “Non esistono amori felici”, scriveva Aragon (e cantava Brassens). Ma l’amore ritorna, sempre. E spaventa chi dopo anni e anni, in vecchiaia, riconosce il suo “sguardo struggente sotto le palpebre scure”, come Ibico: “Io tremo quando lo vedo venire / come un cavallo già vecchio / allenato a molte vittorie / controvoglia / si avvia alla gara dei carri veloci”. L’amore ritorna, e a volte salva la vita quando è più disperata: “Intorno il nulla, /fame e miseria, / il bisogno, il periglio… / Fu in quel dolore /
che a me venne l'amor: / ‘Vivi ancora! Io son la vita!
Tu non sei sola. /
Io sto sul tuo cammino e ti sorreggo. /
Tutto intorno è sangue e fango? /Io son divino. Io son l'oblio./
Io sono il dio’”, nell’aria dell’Andrea Chenier che Tom Hanks morente in Philadelphia ascolta cantare Maria Callas. Sacro? profano?
“La verità, vi prego, sull’amore”, invocava Auden in un’impagabile, ironica poesia. Una delle possibili verità per non soccombere all’amore è sapere che l’amore non è la cosa che due persone danno o ricevono, ma quella in cui sono. La lingua inglese lo fa capire meglio dell’italiana: due “innamorati” sono “in love”, ossia (insieme) “nell’amore”. In un acquerello di Watteau un uomo e una donna, fianco a fianco su quello che si direbbe essere un prato, si sfiorano la mano, guardando fissi davanti a sé verso qualcosa che l’uomo semisdraiato indica, l’altro braccio proteso, alla donna seduta; qualcosa di cui entrambi sono al ciglio, che sia un cielo stellato o un precipizio scosceso che magari dischiude una verdissima valle. Che cosa guardano? Guardano l’amore. Che si presenti come cielo o come abisso, è lo stesso.