La Repubblica di Pletone (non Platone)
Grande maestro della scuola di Mistrà , iniziatore del Rinascimento. Ora ecco gli scritti politici e utopici
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Nella prima metà del millequattrocento, alla vigilia della caduta di Costantinopoli e di quegli altri eventi che seguirono e con i quali di solito facciamo cominciare l’età moderna — l’invenzione della stampa, la scoperta dell’America, la diffusione delle novantacinque tesi di Lutero —, sulla parete scoscesa del monte Taigeto, a ovest delle rovine dell’antica Sparta, c’era, e c’è ancora, una città di nome Mistrà. L’architettura di questa città mostrava allora, e mostra ancora, una combinazione di elementi in apparenza incompatibili: il cuore nordico del mondo gotico, l’anima orientale del mondo greco. Non a caso Goethe, nel Faust secondo, avrebbe ambientato lì, sullo sfondo del palazzo dei Paleologhi, l’incontro tra Faust ed Elena.
Coi suoi antichissimi blocchi di pietra e i suoi nuovi intarsi di stemmi, le sue finestre a sesto acuto e le sue cupole bizantine, Mistrà era, ed è ancora, il simbolo visibile dell’utopia di una nuova Bisanzio orientale-occidentale. Perché Mistrà, secondo i piani dell’intelligencija bizantina del tempo, si candidava ad essere l’erede politica di Costantinopoli, se questa fosse caduta in mano ai turchi osmani. Perché mentre Costantinopoli era ormai un'enclave al centro del grande impero dei Signori degli Orizzonti (“Per la sua bellezza, era come una donna sensuale”, scrive Tursun Beg, il biografo di Mehmet II il Conquistatore, “con un neo sulla guancia, adagiata nel bel mezzo dei paesi ottomani”), la Morea, con Mistrà capitale nel cuore dell’entroterra, lontana dalla costa ma ben collegata alle vie marittime grazie al porto imperiale di Monemvasia, era un caposaldo ben difendibile, dove si intersecavano possedimenti bizantini e occidentali, dove avevano le loro teste di ponte i veneziani e dove il papato aveva il suo principale centro ecclesiastico, a Patrasso. Se la Morea, che nella prima metà del Quattrocento era solo un despotato cadetto, fosse stata riformata come stato a sé, se si fossero in caso di emergenza spostati lì il titolo imperiale e il governo centrale di Bisanzio, il Peloponneso sarebbe divenuto la roccaforte strategica del Mediterraneo, il presidio che avrebbe prevenuto la sua turchizzazione, e islamizzazione.
Ora, a Mistrà esisteva una scuola molto particolare, filosofica ma non solo, perfettamente attrezzata a elaborare quelle riforme. Si diceva che il suo maestro Pletone fosse la reincarnazione di Platone: «Quasi Platonem alterum», quasi un secondo Platone, come lo definì Marsilio Ficino. Si chiamava in realtà Gemisto. Nel greco del Quattrocento gemistos significava «colmo». Il suo eteronimo, plethon, che avrebbe assunto durante il concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439, significava «traboccante» nel greco classico del filosofo ateniese per cui traboccava d’amore. Gemisto Pletone era un filosofo neoplatonico, un teologo neopagano, un utopista, un eretico. In un’epoca in cui, come avrebbe scritto Enea Silvio Piccolomini, nessuno poteva dirsi colto senza avere studiato a Costantinopoli, Gemisto vi era stato in cattedra fino a cinquant’anni. Sconfitto dai suoi nemici aristotelici, era stato inviato a Mistrà e lì aveva rifondato la sua confraternita accademica, che chiamava fratrìa.
«Gemisto era tanto superiore al suo tempo quanto l’antichità era superiore a quel suo triste tempo e quanto quella triste epoca era nondimeno superiore a questo indeterminabile tempo attuale», ha scritto un grande letterato greco ottocentesco, Alexandros Papadiamantis. All’accademia di Mistrà si coltivavano idee politiche precise. Il nazionalismo greco si univa al progetto di una nuova forma statale ellenica, in teoria di stampo platonico, ispirata cioè al comunismo aristocratico e alla scansione in classi della Repubblica, ma in pratica riveduta in base allo studio delle moderne esperienze statali dell’occidente. La formula politica di questa Nuova Bisanzio avrebbe dovuto essere ben diversa da quella della basileia multietnica e plurinazionale fondata mille anni prima da Costantino. Doveva essere una specie di città-stato, a metà tra la polis ellenica e la signoria rinascimentale italiana.
Lo schema elaborato negli scritti politici di Gemisto (e poi dei suoi allievi, tra cui Bessarione), era solo apparentemente utopistico. Ogni particolare, alla sua scuola, veniva studiato in modo concreto, avendo sotto gli occhi non solo o non tanto i dialoghi di Platone, quanto l’economia, la strategia e la legislazione bizantina. L’accademia di Mistrà era un laboratorio di analisi politica in cui operavano i migliori cervelli di Bisanzio e i documenti operativi inviati ai governanti proponevano riforme concrete e in alcuni casi autenticamente illuminate. Un grande storico russo, Aleksandr Vasilev, è arrivato a paragonare le opinioni politiche della scuola di Mistrà a quelle di Rousseau e di Saint-Simon.
Il pensiero di Pletone «realizza il primo tentativo moderno di sviluppare una politica basata su princìpi filosofici», spiega oggi Moreno Neri, suo massimo studioso vivente, nel consegnarci per la prima volta i testi che Gemisto scrisse di suo pugno e indirizzò ai sovrani suoi interlocutori — il lungimirante basileus di Costantinopoli Manuele II Paleologo, suo figlio, il despota di Mistrà Teodoro II, il di lui fratello e successore Demetrio (Giorgio Gemisto Pletone, Siamo Elleni. Scritti politici. Testo greco a fronte. Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Moreno Neri, Mimesis, 623 pp., € 36,10). L’impeccabile traduzione italiana e il monumentale commento sono preceduti da una monografia di quasi duecentocinquanta pagine che non solo illustra con metodo e limpidezza il Pletone politico, ma delinea anche l’intera, vertiginosa personalità del pensatore «più venerato e più esecrato della sua epoca», che fu maestro di Ficino e gran maestro del platonismo globale (ellenico, giudaico-cristiano, islamico), che ne importò gli insegnamenti in occidente e ne sparse i semi perché fiorisse in quello che chiamiamo “il” rinascimento — ultima, in realtà, delle rinascenze bizantine. Neri colma una lacuna aperta almeno dai tempi in cui a tradurre il tardissimo, arcaizzante e tempestoso greco di Pletone si cimentò il primo bizantinista italiano: Giacomo Leopardi.