Quel bosco è il gran teatro del mondo
Erme e Sfingi, mitologia greca e culti egizi Oriente e Occidente si fondono nel programma iconografico che fu ispirato dall’umanista cinquecentesco Giulio Camillo
Articolo disponibile in PDF
All’inizio del Seicento un grande filosofo inglese, Francis Bacon, scrisse un’opera intitolata Novum Organum nella quale elencò le false nozioni che impediscono alla mente umana di vedere le cose come sono. Seguendo Platone, immaginò questi errori come sorta di statue che ingombrano l’intelletto e si frappongono alla retta visione, simulacri collettivi da abbattere per sgombrare la prospettiva a ogni ricerca di verità. Li chiamò idola, idoli. Agli idoli della tribù, della spelonca, e del foro, ossia ai pregiudizi degli antenati, a quelli individuali e a quelli creati dalla convenzione del linguaggio, aggiungeva, ultimi ma non meno importanti, gli idola theatri. Dove quest’ultima parola era usata nell’accezione propria del tempo: era “teatro” l’esposizione sistematica di una visione del mondo; per Bacone sempre fittizia, ossia non corrispondente alla verifica empirica, ma “rappresentata su una scena al modo di una fabula”. Come osserva Antonio Rocca nell’esile quanto epocale guida al Sacro Bosco di Bomarzo (Bomarzo. Guida al Sacro Bosco, premessa di C. Strinati, Gangemi, 94 pp., 14 €) in cui ne accerta l’attribuzione e ne rivoluziona l’interpretazione svelandone una volta per tutte i segreti, lungo il Rinascimento e ancora in età barocca theatro era spesso un libro, un manuale scientifico o filosofico o anche mistico-esoterico, destinato a esporre con ricco corredo di immagini una visione del mondo. Ma naturalmente poteva essere anche un luogo fisico, in cui la visione in oggetto venisse dispiegata in modo, per l’appunto, concretamente visivo.
Come il Sacro Bosco di Bomarzo (questo il suo vero nome, come le fonti cinquecentesche indicano, da sostituire una volta per tutte alla denominazione vulgata “Parco dei Mostri”): una visione del mondo, gremita di concreti idola, statue di peperino, la pietra locale, derivate da massi erratici preesistenti e scolpiti in loco a raffigurare divinità e simboli pagani, segni zodiacali, figure che spaziano negli universi esoterici, dall’olimpo allo zodiaco, dalla non-lingua dei geroglifici, primo e ultimo dei misteri egizi, al linguaggio segreto dei tarocchi, eredità del dualismo manicheo; visione ficta, se non fittizia, che il colto e disilluso nobiluomo Vicino Orsini per tutta una vita si dedicò a creare scavando ed edificando la sua terra argillosa, ai margini delle tenute cardinalizie del viterbese ricche di frivoli onori e corruttibili allori; un theatro simbolico e cosmico che esibisce al suo ingresso, per l’appunto, un teatro di pietra, volutamente impraticabile se non in quanto simbolo ed effigie del più vasto teatro del bosco; “sacro” come il lucus che gli antichi dedicavano al culto delle divinità e in cui queste si manifestavano, e insieme perché tale è l’idea dalla quale scaturisce. Perché l’esoterica topografia del Sacro Bosco di Vicino Orsini, che può ad alcuni ricordare le analoghe rêveries architettoniche dell’esoterismo neopagano rinascimentale o i coevi artifici manieristi di certe ville aristocratiche, dalle une e dagli altri si differenzia per un preciso motivo: quello che scenograficamente allestisce e dispiega nella scoscesa piramide mistica del giardino è un vero e proprio, coerente manuale di neoplatonismo, una trattazione metafisica trasferita nella realtà fisica direttamente dalle pagine di un libro.
Il libro è L’idea del theatro di Giulio Camillo, detto il Delminio, pubblicato postumo nel 1550, sei anni dopo la sua morte, ed è noto agli studiosi degli ambienti magici del neoplatonismo rinascimentale di cui Camillo, intellettuale di ambigua quanto vasta fama, interlocutore di Erasmo, esaltato dagli adepti della vague egizia rinascimentale, amato da Ariosto e Tasso, Lorenzo Lotto e Tiziano, era esponente. Il fatto è che il platonismo, “ideologia dell'eversione europea” nelle parole di Eugenio Garin, rinasce col rinascimento a cominciare dal trasferirsi armi e bagagli nella Firenze medicea, durante il Concilio d’Unione del 1438-39, dei grandi platonici bizantini e in particolare di Giorgio Gemisto Pletone, scolarca dell’Accademia platonica di Mistrà nonché di fatto caposcuola di quella che sarà l’Accademia di Ficino e probabile primo ‘gran maestro’ di quella sorta di massoneria o protomassoneria italiana, che continuando l’antico “ordine pitagorico” trasmesso dai platonici bizantini si salderà in seguito, secondo le ricostruzioni di Jean-Baptiste Ragon, a quella inglese e scozzese. Anche per questo, da lì in avanti, non solo l’autentica filosofia di Plotino e dei suoi seguaci conquisterà i veri e propri filosofi, da Cusano a Bruno, ma una versione vulgata, esoterica e sincretistica, ibrida e credula, diciamo un po’ new age del cammino di purificazione dell’anima e del suo accesso a un livello superiore di coscienza affascinerà un ambiente vasto e vagamente sottoculturale di poeti e prelati, artisti e mecenati, studiosi squattrinati e ricchi amateur, che vi scorsero la possibilità di trasporla, per dirla con Bacone, in fabulae visivamente illustrabili, facili da comprendere, capaci di mettere d’accordo devoti cristiani e liberi pensatori, uomini di chiesa e d’arme, cultori della neonata editoria a stampa e architetti di giardini, nella complicità iniziatica di un insegnamento metafisico ‘segreto’ dalle immediate, ben condivisibili in quanto universali e tutto sommato elementari implicazioni etiche. Appunto un theatrum in senso baconiano.
Divinità e pianeti e divinità come pianeti, Giove, Nettuno, Venere. Figure egizie e olimpiche, etrusche e italiche, con vibrazioni misteriche e risonanze indoiraniche: Erme e Sfingi, Furie e Arpie, Sirene e Gorgoni; Iside e una madre Cibele quasi indù, con il suo carro trainato dai leoni; il simulacro di Pan, ora illeggibile e riverso, con cui doveva aprirsi, nella Colonna del Sole, il grado della Deificazione. Loci che sono topoi letterari e insieme veri luoghi: l’Antro delle Ninfe, La Bocca del Tartaro, il Vello d’Oro, il Vaso di Pandora; o che ricordano i tarocchi: la Diga, il Tempio, la Casa Pendente. E sempre più, salendo, le bestie (“l’uomo tiene assieme il mondo perché in lui coesistono il divino e l’animale”): Cerbero e Pegaso, il Drago e l’Elefante, una Tartaruga medicea (festina lente) quasi taoista. La perfetta corrispondenza di immagini e simboli dell’Idea teosofica del Theatro di Camillo con quella architettonica del giardino di Orsini non stupisce chi, come Rocca, ha ricostruito minutamente la biografia del secondo, a partire dalla probabile frequentazione giovanile del primo nella cerchia veneziana di una potenza culturale come Gabriele Giolito, uno dei primi grandi stampatori italiani, che dalla laboriosa Tridinum, Trino Vercellese, sul Po, aveva portato la sua attività in laguna, a Rialto, e aperto librerie nelle maggiori capitali italiane. Il mondo che ruotava attorno al colto, eterodosso, carismatico Giolito a Venezia, così come nelle accademie cardinalizie romane, era costituito anche dai curatori di quei testi sacri in più sensi all’esoterismo rinascimentale, di cui l’editore forniva prime edizioni in lingua italiana (come quella dei Geroglifici di Orapollo, del 1547) e naturalmente dai suoi autori: una giolitina del Theatro di Camillo uscì nel 1552, nel 1561 Giolito pubblicò, tradotto da Girolamo Muzio, il suo Avalos, che si chiude, per l’appunto, con la menzione di un parlante, eterno Sacro Bosco.
E’ stato Rocca a scoprire e puntualmente dimostrare che la struttura del giardino di Vicino Orsini e quella del theatro di Giulio Camillo si corrispondono in ogni loro parte; che quindi, lungi dall’essere una bizzarria grottesca, un parco di monstra appunto, amabile magari proprio per la sua folle gratuità (come lo amarono i surrealisti, da Dalì a Duchamp a Breton, contribuendo con le loro visite alla notorietà e di qui alla rinascita del sito e porgendolo così a un barlume d’intuito di Elémire Zolla, che per primo, sia pur contraddittoriamente, ne divinò la chiave), è un luogo di precisione sacrale, un lucus oracolare dove la mappa del cosmo si dispiega mostrando l’emanarsi dell’energia divina dal mondo sovraceleste a quello sublunare attraverso le sette regioni celesti dei pianeti e i sei gradi di sviluppo dell’energia cosmica nel microcosmo umano, identificabili nei sei giorni della creazione, secondo il sincretismo tipico della voga teosofica e ricorrente nella tradizione ermetico-cabalistica rinascimentale studiata da Frances Yates.
Le sephirot della Cabala e la prisca theologia, la sapienza caldaico-zoroastriana, i Geroglifici di Orapollo, la rivelazione di Ermete Trismegisto si intrecciano con il bizantino “ordine pitagorico”, l’Uno di Plotino con il Dio cristiano, in un bric-à-brac dove astri e miti, figure zodiacali ed elementi alchemici, allegorie omeriche, misteri ellenici e arcani dei tarocchi si fondono e producono — cosa? Un giardino assurdo, dove l’exitus finale, contrapposto all’aditus teatrale, è tuttavia, come Rocca dimostra, il disincanto, la pietrificazione dello sguardo dinanzi alla crudeltà e follia della vita sublunare, il farsi statua del giardiniere-demiurgo, Vicino Orsini, che alla fine della vita e a margine della piramide si autorappresenta come Eracle, l’eroe dalle molte fatiche, colto nel momento in cui si strappa la camicia avvelenata di Nesso consegnata dall’ignaro Lica e sopporta l’agonia sradicando alberi, impotente dinanzi alla morte per la prima volta nella sua vita semidivina.
A Vicino Orsini, il giovane che per mostrare all’indolente e corrotta aristocrazia in cui era nato e al mondo cosmopolita in cui si era formato come si può “vivere in provincia senza diventare provinciali” aveva trasformato uno sperduto appezzamento fangoso in una topografia mistica del cosmo e ne era diventato statua, la “contemplazione delle cose inferiori e superiori” predicata dall’ambiguo quanto mitico maître à penser della sua giovinezza non basta più. Immerso — per citare le sue parole — in una vita melanchonicha in cui il solo piacere possibile è l’epicureo ‘carere di dolore’, di modo che, non havendo né piacere né dolore, l’homo diventerà una statua, termina la sua vita disincantato non più solo dalla politica, dalla religione o dalla guerra, ma dalla stessa cultura o quanto meno dalla stessa costruzione culturale — ennesimo theatrum baconiano — in cui ha creduto, ma alla quale infine non crede più, vedendola per quello che in fondo è stata: un gioco ingannevole dell’intelletto, impotente di fronte all’imperscrutabilità del mondo e alla messinscena della vita, palcoscenico in cui ci ritroviamo catapultati a recitare la nostra parte senza conoscere il copione e senza neanche una prova.