Ipazia, la donna a cui nessuno ha chiesto scusa
Filosofa, scienziata e intellettuale fu assassinata per ordine di un vescovo È diventata il simbolo di ogni ingiustizia, ma la Chiesa ancora tace
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Nella primavera del quinto secolo della nostra era, quando il cristianesimo era stato appena proclamato religione di stato, una donna fu brutalmente assassinata ad Alessandria d’Egitto per mandato di uno dei più potenti vescovi dell’allora giovane Chiesa. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa cattedrale e qui dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi, poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono chierici cristiani al servizio di Cirillo di Alessandria, che allora, della megalopoli d’Egitto, era bellicoso e potentissimo patriarca. Anche per questo l’assassinio rimase impunito. L’inchiesta imperiale fu insabbiata, il magistrato incaricato fu corrotto e Cirillo è tuttora un santo del calendario cristiano.
La donna si chiamava Ipazia ed è da molti, anche in ambito ecclesiastico, considerata una santa laica. Era una filosofa e una scienziata di immensa fama, che insegnava su una pubblica cattedra non solo le materie di cui era specialista ma anche la tolleranza intellettuale e religiosa, la resistenza a ogni integralismo, la tutela delle minoranze, la separazione del potere spirituale da quello secolare. La sua posizione rigorosa e l’ascendente che esercitava sui governanti contrastavano, per il vescovo e i suoi seguaci, con l’essere donna. Fu questo a valerle il martirio. C’è chi considera il rogo di Ipazia il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. Definizione necessaria ma non sufficiente. Il suo fu un omicidio politico e un vero e proprio femminicidio, tinto di sadismo e odio di genere.
Accanto alle materie specifiche delle scuole platoniche, Ipazia impartiva un insegnamento sommesso particolarmente utile alla transizione religiosadal paganesimo al cristianesimo. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Della cerchia dei suoi discepoli, che includeva la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana ed ebraica, faceva parte anche il prefetto augustale Oreste, massimo rappresentante del governo centrale dell’impero, che da quasi un secolo aveva sede a Costantinopoli e non più a Roma.
Ma Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici laici, tallonati dalla gerarchia ecclesiastica capitanata dal vescovo. Era una politica lei stessa. Difendeva i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal terribile pogrom ordinato da Cirillo. Il fatto di essere la sola donna ammessa in discussioni politiche riservate agli uomini non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. “Non aveva remore ad apparire alle riunioni degli uomini. Anzi”, ricordano le fonti ecclesiastiche cristiane di parte moderata, “per la sua straordinaria saggezza tutti i maschi le erano deferenti e la guardavano, se mai, con stupore e timore reverenziale”.
Diversa la versione della fazione fondamentalista, secondo cui Ipazia era una strega “che dedicava tutto il suo tempo alla magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone con i suoi inganni satanici. E il governatore della città”, il prefetto augustale Oreste, “la onorava esageratamente, perché aveva sedotto anche lui con i suoi incantesimi”. Per questo “una moltitudine di credenti in Dio si mise in marcia per andare a punirla e dopo averla scaraventata giù dalla sua cattedra la trascinò nella chiesa grande. Qui le strapparono le vesti, la scannarono e portarono i resti del suo corpo a bruciare sul rogo. E tutto il popolo cristiano circondò il patriarca Cirillo e lo acclamò perché aveva liberato la città”.
Fu “una non piccola infamia questa compiuta da Cirillo e dalla Chiesa di Alessandria”, affermano invece le fonti cristiane di parte moderata. “Poiché assassini e guerriglie e cose simili sono qualcosa di totalmente estraneo allo spirito di Cristo”. Sarà il giudizio della chiesa bizantina per circa un millennio. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313. Il fatto è che Cirillo mirava a “erodere e condizionare il potere dello stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale”: aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dallo stato bizantino.
Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma su Ipazia, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio, è sempre rimasta ambigua. Solo l’ala modernista del cattolicesimo ha celebrato la sua figura, riaprendo gli atti di quel mai compiuto processo; così com’è avvenuto da parte laica, dove la sua memoria è stata coltivata e rinnovata nei secoli e Ipazia è diventata icona della libertà di pensiero e di ogni martirio subito in suo nome.
Ma da almeno due decenni l’icona di Ipazia ha acquistato una nuova fortuna mediatica. Non si tratta più del transfert degli intellettuali illuministi, che in lei vedevano l’effigie della tolleranza e della libertà di pensiero; o dei letterati romantici, che di lei acclamavano la purezza eroica; o dei sostenitori del laicismo anticlericale, o del razionalismo scientifico contrapposto ai dogmi della religione e della fede; o dei cultori dell’esoterismo neopagano. Tutto questo fa parte della fortuna di Ipazia lungo i secoli che vanno dall’età dei lumi al ventesimo, un oltrevita che appartiene a un passato in cui a riconoscersi nel suo personaggio, nella sua tolleranza, indipendenza, inappartenenza, nel suo martirio laico erano sostanzialmente le élite intellettuali.
Oggi, da icona che era, Ipazia è diventata un simbolo, perché in lei si sono identificate tante e diverse categorie di individui. Oggi il simbolo Ipazia non è più di élite ma di massa. Perché Ipazia, per citare l’epigramma di Pallada che le è dedicato nell’Antologia Palatina, è un astro che i secoli non solo non hanno sbiadito, ma hanno al contrario reso più vivido, più visibile, più condivisibile, più universale, man mano che l’istruzione, la lettura, la cultura, la conoscenza del passato si sono estese dalle élite alle masse. La storia di Ipazia parla a queste ultime perché è disegnata da una costellazione di simboli impressa nell’esperienza dei più. La sconfitta, la discriminazione, la violenza, l’ingiustizia apparentemente senza appello, senza riscatto nel mondo in cui viviamo, ma che riceve la sua retribuzione da una sempre più folta assemblea di posteri, costruiscono uno dei miti più universali della condizione umana. In questa donna assassinata da un potere tanto fanatico e brutale quanto nei secoli impunito sembrano riconoscersi tutti coloro che hanno subito un torto: chiunque sia stato perseguitato per fedeltà a un ideale; o sia caduto vittima del fanatismo e delle intolleranze riemerse nel terzo millennio, delle discriminazioni religiose, ideologiche, razziali, o ne sia semplicemente turbato.
Soprattutto, da ogni parte e per una massa crescente di persone, il nome di Ipazia è divenuto il più popolare simbolo di un’ingiustizia millenaria: quella che la Chiesa cristiana ha inflitto al genere femminile, maltrattato, soggiogato, perseguitato, quando non bruciato sul rogo dietro accusa di stregoneria.
Molte scuse sono state chieste negli ultimi decenni dalla Chiesa per colpe perpetrate nel corso della sua storia, ma non ancora per quelle commesse contro le donne. In tempi in cui si moltiplicano i femminicidi, in cui il genere femminile resta tuttora vittima di ingiustizia, discriminazione, violenza fisica, una richiesta di perdono per Ipazia, o quanto meno un pronunciamento autorevole e consapevole sul suo caso, avrebbe il senso storico e attuale, preciso e universale, di una scusa rivolta, mediante questa figura esemplare, a tutto il genere femminile, e di una chiara condanna della violenza contro le donne.