Siamo tutti in cerca della nostra Itaca
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All’inizio della storia della nostra letteratura, a regnare su quella terra di nessuno che sono i canti dei rapsodi, isolotti coperti di alghe che affiorano scivolosi, lucenti come smeraldi, nel vasto pelago dell’oralità primigenia, c’è un eroe diverso da tutti gli altri mai formati dal caleidoscopio dell’epica d’oriente e d’occidente: Gilgamesh o Arjuna, Perceval o Artù.
Il suo nome è Nessuno: Oudèis, così risuonò tra le pareti di una grotta quando lo pronunciò. O meglio Odìsseo. E’ un re, ma non vuole andare in guerra: per sottrarsene si finge pazzo, calza un berretto da contadino, ara un campo aggiogando all’aratro un asino e seminando manciate di sale. La sorte per contrappasso gli imporrà di solcare all’infinito le distese del mare non arabile.
Delle forze numinose che si contendono il governo della mente e dell’anima umana e sovrintendono al suo grande dissidio, lassù in vetta all’Olimpo o giù tra le gole dell’inconscio, una sola lo muove: la ragione. E seguendo il suo filo si spinge nel labirinto iniziatico di un interminabile viaggio, che lo addentra nelle sue anse così simili, a guardare i tracciati minoici, ai lobi di un cervello umano. Ogni prova che affronta lo allontana dall’approdo che si prefigge, nonché, via via, da ogni traguardo l’esperienza possa fargli conseguire. La lucidità dell’intelletto gli rivela fallace ogni possibile aspirazione: come all’inizio la guerra — che comunque è il suo ingegno a far vincere ai generali al comando, usando l’inganno del cavallo, nel disprezzo dei loro princìpi d’onore — così l’immortalità, che gli sarà offerta e che rifiuterà. E l’amore, in sé insensato, abisso più smisurato di quello marino che le sue vele sfiorano, sulla nave ricurva che lo vedrà avvinto all’albero maestro, le orecchie sigillate dalla cera per non sentire il richiamo di qualsiasi illusione possa soverchiare, come il canto delle Sirene, l’acutezza della ragione. E l’oblio della droga, offerta dai mangiatori di loto, e le promesse della magia, il dissolversi della distinzione tra uomo e bestia, il bisbigliare, ombra tra ombre, ai morti e udirne le profezie.
Della varietà di chi abita il mondo conosce tutte le inclinazioni: l’ospitalità gentile delle corti (i Feaci), la mostruosità di chi respinge i profughi all’approdo (i Lestrigoni), pari alla cecità dei mangiatori di uomini (Polifemo). La superiore intelligenza delle donne (Penelope, Circe, Calipso, Nausicaa). La profonda stupidità di chi comanda, l’inevitabile tragedia cui portano l’ambizione, la brama di possesso, la sete di conquista di ogni Agamennone. Ma anche la stoltezza di chi obbedisce al comando del più forte, procurando infiniti lutti agli umani.
La forza della ragione è anche quella della disobbedienza a ogni altra forza, umana o sovrumana, inclusa quella di ciò che i mortali chiamano destino. L’astuzia dell’uomo dal multiforme ingegno imbroglia il filo delle Parche, tiene sospesa la fine sinché non arriva a quello che è il suo fine. Ma anche quel luogo di riposo dello spirito, che un poeta alessandrino, Kavafis, chiamò Itaca, è illusione. Una volta raggiunta la vita che ogni essere umano crede di volere, anche questo traguardo è solo apparente. Odìsseo, Oudèis, Nessuno, capirà che non è la destinazione, ma il transito, il viaggio, l’unico scopo, se mai uno ne ha, dell’esistenza: le prove che all’eroe riservano i meandri del caso, e il suo modo, volta per volta, di affrontarle.
Quando ci mettiamo in viaggio per Itaca, dice il vecchio poeta alessandrino, dobbiamo augurarci che la strada sia lunga, piena di conoscenza e piena di naufragi. Se il pensiero resta alto e lo spirito e il corpo procedono affiatati, non c’è da temere l’ira di Poseidone, né i Ciclopi o i Lestrigoni: non incontreremo mostri, se non li portiamo dentro, se l’anima non ce li mette contro. Che dall’otre dei venti si scateni una tempesta, dall’ira della terra o dalla calamità del caso una pestilenza, che la ragione ci incateni all’albero della nave o a una sedia della nostra stanza, che ci obblighi a legare anche i nostri confusi compagni e a trascinarli a bordo a forza, dobbiamo continuare il viaggio. Che ci troviamo a navigare gemendo nella nebbia, stretti fra Scilla, il morbo che ci punta, e Cariddi, la povertà che ci inabissa, che il naufragio della scelta ci lasci laceri, feriti, arsi dalla salsedine, così affamati da cibarci degli animali sacri al sole ed essere di nuovo gettati tra le onde, dobbiamo augurarci che la strada sia ancora lunga.
Il viaggio ci ha fatto immedesimare nelle bestie e vedere il mondo coi loro occhi, scendere all’Ade e parlare coi nostri cari morti senza che gli fossimo accanto. Durerà ancora anni. Dobbiamo avere sempre in mente Itaca — raggiungerla dev’essere il pensiero dominante — ma anche visitare gli antichi porti della sapienza dei dotti, quei libri che sanno farci toccare terra — con che sollievo, con che gioia — in mattine d’estate, indugiare in empori fenici, scegliere madreperle e coralli, ebano e ambra. Quando arriveremo a Itaca la scopriremo povera, ma saremo ricchi dei tesori acquistati lungo la rotta. Questo sostiene il vecchio poeta alessandrino
Cosa sostenga Omero non è chiaro, anche perché forse non è mai esistito. L’Odissea è uno dei tanti Nostoi, o poemi del ritorno, scoglio emergente di un’Atlantide mitografica sommersa nell’abbagliante scenario marino della nostra memoria letteraria collettiva. Ma ciò che esiste, e sempre si rinnova, è la persuasione del mito. Quell’eroe singolare, Odìsseo dal molto errare, dai molti errores, l'uomo razionale e quindi l'uomo che si perde e non sa tornare, ha molto parlato ai posteri, da Sofocle a Virgilio, da Dante a Joyce. Quello che ci comunica qui e ora, nel frangente dell’oggi, è che la vita autentica non è mai quiete o normalità, ma inquieta, imponderata anomalia. E non è neppure in ciò che sperimentiamo, ma nel come, con quale forza interiore, astuzia, intelligenza, resistenza, perseveranza. Non è Itaca, non è l’isola, la pace promessa e mai ottenuta dal tronco d’olivo di un talamo, l’inerte quotidianità domestica disegnata da Tennyson — sedere in ozio davanti a un focolare immobile, accanto a un’anziana moglie, tra queste nude rocce —, la vita è il viaggio per raggiungerla. E Ulisse è uno e Nessuno e siamo tutti, quando messi alla prova.