Udito. Il nuovo rumore del mondo
Se è vero che non esiste il silenzio, sta a noi scegliere se prestare le orecchie all’esterno o alle voci dei dispositivi divenuti protesi dei nostri corpi
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Tra le facoltà sensibili quella dell’udito è sempre stata considerata la più spirituale, che più ci avvicina all’interiorità e dunque a una percezione veridica della realtà, oltre il velo di Maya dell’illusione ottica del mondo. Non stiamo parlando, o non solo, della musica. Il fatto è che, come spiegano i filosofi, gli elementi del simbolo visivo si manifestano in simultaneità, quelli del simbolo sonoro, invece, in successione. L’udito è legato alla dimensione del tempo, alla possibilità di una scansione del reale, che la vista invece agglomera e confonde — di qui la condanna platonica dell’immagine, di qui la convinzione antica che la vista inganni, l’udito riveli. Non a caso Omero, il più grande dei poeti, era cieco, non a caso lo era Tiresia, il veggente. Non a caso sui versi o canti o “discorsi” degli uccelli — la quota più rilevante di quella vocalità animale che dominava la sfera sonora degli antichi infinitamente più della nostra — si esercitavano la mantica, la divinazione, la traduzione dei presagi.
Intendiamoci, le città antiche erano piene di rumori quasi quanto le nostre. Alla colonna sonora dei versi animali si accompagnava il duro strepitus del lavoro umano: i colpi dei martelli, lo stridìo delle macine, iI cigolìo dei carri sulle strade accidentate, il rimbombo degli zoccoli, le grida dei venditori, quelle di incitamento dei sorveglianti, quelle di dolore degli schiavi. Non dobbiamo pensare che il silenzio, nella storia della civiltà, abbia mai realmente dominato la vita associata di noi umani. Ma è mutata, con le epoche e le contingenze, la sfera sonora che ci ha avvolti: quella che chiamiamo fonosfera, parola evocativa, che ci ricorda l’atmosfera, e propriamente ecologica, poiché definisce l’ambiente (oikos) in cui viviamo in base all’insieme di suoni che produce.
Qual è stata la nostra fonosfera nell’anno che è passato, anche se non ancora tutto, durante il tempo del lockdown primaverile che ci siamo lasciati alle spalle, anche se forse non del tutto? che cosa è rimasto di quel “colpo di silenzio” di tre mesi, in cui, come gli antichi, abbiamo udito quasi esclusivamente le voci degli uccelli, rotte però dallo strepito delle ambulanze, dalle sirene della polizia, dal rombo dei camion militari a Bergamo? che cosa, poi, ci ha rallegrato o afflitto del ritorno dei rumori, salutato da alcuni come un ritorno alla vita, identificato da altri col montare delle angosce che hanno accompagnato questa infinita fine del lockdown?
Si potrebbe sostenere che il mondo avvolto nel silenzio del primo lockdown abbia ascoltato la natura e l’anima del mondo e la propria. Ma si potrebbe controbattere che il tacere della vita associata, dei rumori delle auto, dei negotia, del vocìo delle aule scolastiche, abbia segnato un’ulteriore resa a quella comunicazione senza corpo, che la tecnologia aveva già prodotto, in cui orecchie, lingua, memoria sono finite fuori di noi. Che dunque silenzio non ci sia stato, ma anzi il lockdown abbia dimostrato che non possiamo più cercarlo, come facevano gli eremiti o i monaci esicasti, perché non esiste più. Viviamo comunque immersi in una fonosfera virtuale, emanata a distanza, nel crepitìo dei dispositivi: ronzii, fruscii, squilli, fanfare che annunciano la piena di voci e messaggi sui nostri cellulari, tablet, computer. Anche le mail fanno rumore: il rumore sinistro dell’eccesso di informazione unito al difetto di presenza fisica dell’informatore, uccello o uomo che sia, che ci permetta di elaborarla nei sensi.
Ma se anche questa seconda, meno fausta diagnosi fosse vera, non sarebbe forse potenzialmente terapeutica? Interroghiamoci seriamente sul nostro udito. L’improvviso mutamento della sfera sonora nei primi mesi del 2020 non può non avere cambiato, magari subliminalmente, la nostra cognizione di ciò che vogliamo o non vogliamo udire. Che cosa ci ha lasciato? cosa abbiamo imparato? com’erano le nostre orecchie nel gennaio scorso e come sono oggi? che cosa ci dà più fastidio, ora? cosa sentiamo non più in sintonia con noi? ci manca non sentire le voci, augurali o infauste, dei piccoli uccelli? cosa non ci manca, a parte le sirene delle ambulanze?
Se l’udito è il senso che più ci avvicina all’interiorità, essere in sintonia con la nostra fonosfera è importante. Perché se è vero che non esiste (e forse non è mai esistito) il silenzio, se è vero che viviamo comunque immersi in una sonorità continua dalla quale non possiamo difendere le nostre orecchie, sta a noi scegliere se prestarle al rumore esterno di cui abbiamo imparato la precarietà e dissolubilità dalle nostre vite, o alle voci dei dispositivi divenuti protesi dei nostri corpi e dei nostri sensi, o infine a quel rumore dentro di noi che schiude insieme, come a Omero, vista e udito.
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