L’autore misterioso e il suo mosaico
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“Non dirò nulla di mio”, scrive Giovanni Damasceno, il grande padre della chiesa, nella sua Dialettica. E’ un principio che può applicarsi a questa fiaba da almeno due punti di vista. Anzitutto, perché il suo contenuto aspira a dare voce a un sentire collettivo diffuso fin dall’inizio della pandemia del coronavirus: l’impulso a mettersi dalla parte degli animali, ad ascoltare la natura; il senso di una nemesi, di una sua legittima reazione al peccato di hybris che l’umanità ha commesso nei suoi confronti. Del resto la tradizione letteraria degli animali parlanti è all’origine del genere della fiaba, da Esopo e Fedro a La Fontaine fino a Italo Calvino, citato quasi alla lettera nel titolo: Ultimo venne il corvo. Un’allusione esplicita, che ci porta a un secondo “non dirò nulla di mio”. La tecnica della citazione, che in gergo viene chiamata “centone” (dal greco kentéo, “tessere”, “intarsiare a mosaico”), caratterizza il testo che, arrivato via mail alla redazione di Robinson, proprio per questo è stato affidato a chi scrive, con l’incarico di condurne una revisione editoriale — che si è ridotta a poco più di una correzione di bozze — e soprattutto di estrarne, usando gli strumenti della filologia, quello che in termini tecnici è l’apparatus fontium: individuare le fonti, i paralleli e le parafrasi che l’autore accumula nel suo dettato. D’altronde l’uso di attingere a una o più fonti antiche è proprio della fiaba, se pensiamo alla più celebre della letteratura italiana, Pinocchio, cui peraltro sembra di scorgere, già nel secondo capitolo, una velata allusione. Altre sono più evidenti: da Poe a Lewis Carroll, da Aristofane a Shakespeare, da Blake a Eliot, da Omero all’Antico Testamento, fino all’immaginario pop dei cartoni animati, a Walt Disney, a Miyazaki — e in effetti, questo “racconto morale” per grandi e piccoli sembra concepito meno per ostentare erudizione che per essere trasformato in cartone.
Passando dalla forma al contenuto, ricorre nella fiaba l’idea di un’anima mundi, dell’“anima del mondo” di cui parlano gli antichi filosofi neoplatonici, gli umanisti, i romantici, ma anche pensatori contemporanei come Hillman, che la collega al disagio della psiche umana causato dalla rimozione antropocentrica della natura, dalla sofferenza del pianeta, dall’estinzione delle specie animali, e si rifà esplicitamente a Plotino e a Ficino.
Questo ci porta a considerare, dopo il titolo e il testo, il nome, o meglio il nom de plûme dell’autore. All’orecchio contemporaneo lo pseudonimo Filelfo rinvia agli elfi delle fiabe celtiche, creature fantastiche, ambivalenti verso gli umani, trasformate da Tolkien in forze benefiche, custodi della natura, evocatrici della sua armonia e bellezza. Filelfo “amante degli elfi”, dunque? oppure contrazione di “filadelfo”, “che ama il proprio fratello”, con allusione alla fratellanza tra genere umano e animale? Non possiamo neanche escludere una pur labile memoria di Francesco Filelfo, colto umanista fluentissimo in greco, vissuto tra le signorie italiane e le élite intellettuali di Costantinopoli nell’epoca in cui l’ultimo platonismo bizantino, passando a occidente, diede vita al Rinascimento. Tuttavia il richiamo appare forzato storicamente e filologicamente poco calzante.
A questo proposito, un’ultima osservazione. Se dietro alle non poche opere scritte con l’espediente del manoscritto ritrovato si cela in genere un unico autore, dietro quelle firmate sotto pseudonimo può nascondersene più d’uno. Fin dall’antichità e dal medioevo più testi di quanti immaginiamo furono composti non da un singolo ma da un circolo, per divertimento letterario. Considerando gli usi che si sono instaurati in questa recente quarantena, le piccole accademie che si sono formate in rete, non possiamo escludere, considerata anche la pluralità e difformità dei rimandi alle fonti, che Filelfo sia in realtà un nome collettivo. Ma questo, come quasi tutto riguardo all’autore, resta una mera congettura, di quelle in cui sono specializzati i filologi.