Cantami o Diva...la nuova Iliade
La nostra civiltà comincia con Omero che canta di
Articolo disponibile in PDF
Nel settembre del 1904, su una nave diretta in Grecia che solcava il tratto di mare fra Brindisi e Corfù, si incontrarono due passeggeri eminenti. Uno era uno psicologo, Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi; l’altro un archeologo, Wilhelm Dörpfeld, “l’assistente di Schliemann”, come Freud riferì, emozionato, intimidito, forse un po’ invidioso, nella lettera che subito scrisse alla moglie Martha. Per lui, come per tutta la sua generazione, Heinrich Schliemann era un eroe leggendario. Aveva seguito avidamente, fin da studente, l’avventura degli scavi che avevano portato quel dilettante ossessionato dalla poesia omerica e fiducioso nella sua lettera a portare alla luce il sito dell’antica città di Troia. O, meglio, a disseppellire, in cima alla collina di Hissarlik, sulla sponda asiatica dei Dardanelli, all’ingresso dell’Ellesponto, una pluralità di città diverse, costruite l’una sulle rovine dell’altra: una stratigrafia, per usare il termine che Freud avrebbe usato più e più volte nella sua opera, per descrivere la scoperta parallela che a quello scavo fu forse direttamente ispirata, senz’altro accostata dal suo artefice stesso: la scoperta dell’inconscio.
Freud vedeva nel sottomondo della coscienza una Piccola Ilio da scoprire intatta e pietrificata in più livelli sovrapposti. Paragonò il lavoro dell’analisi a quello di un esploratore (Forscher) che “giunga in una regione poco nota, in cui una zona archeologica abbia suscitato il suo interesse, […] e porti con sé zappe, pale e vanghe, e munisca di tali strumenti gli abitanti del luogo, per rimuovere con loro dalla zona archeologica le rovine superficiali e scoprire gli altri resti sepolti”.
L’elaborazione del concetto di inconscio, forse la più straordinaria rivoluzione nel pensiero del Novecento, è quindi non solo metaforicamente ma anche storicamente e direttamente legata a quel primo colpo di vanga inferto da Schliemann centocinquant’anni fa alle aride zolle della collina di Hissarlik. Nel paragone con lo scavo di Troia la definizione di psiche — in greco “anima” — si stratifica, si approfondisce, cambia statuto e significato. Lo scavo che il Puro Folle Schliemann intraprese a partire dal 1870 è anche un anniversario di questo cambiamento.
Ma cos’era, concretamente, Troia? cos’era e tra chi fu combattuta quella grande e distruttiva guerra “che addusse infiniti lutti” a coloro che Omero chiama “gli Achei” (le fonti ittite parlano di un popolo Ahhijawa) e con la cui narrazione comincia, nell’Iliade e negli altri testi del ciclo troiano, la nostra letteratura? Non sappiamo chi fosse Omero, o se un Omero unico ci sia mai stato. Anche se, reagendo alle teorie “pluraliste” che ne negavano l'esistenza e leggevano nell'Iliade e nell'Odissea il patchwork (rapsodo è, letteralmente, “il cucitore”) di più canti sparsi, variamente connessi e interpolati, la critica omerica più recente è tornata, dopo Vico e Wolf, alla visione unitaria degli antichi grammatici ellenistici: la coerenza architettonica, la nervatura di echi e richiami a distanza di quella narrazione epica presuppone l'intelletto unificatore di un grande poeta; richiede che un “Omero”, chiunque fosse, sia esistito, a ricomporre e riscrivere poemi anteriori e minori, esito, a loro volta, della lunga tradizione rapsodica.
Ciò che sappiamo per certo è che quella dell’Iliade e dell’Odissea non è soltanto la prima poesia ma è poesia prima: materia sempre viva, incandescente, che tocca ciascuno di noi perché ha la forza del mito. Ma se vogliamo capire quella forza e decifrare quel mito dobbiamo anche appurare da quale mondo sia nato. I personaggi eroici che vi guerreggiano, tra loro, come Achille, o con la sventura e la morte come Odisseo, e quell’Agamennone il cui nome Schliemann diede a suo figlio, quel Menelao, quel Diomede, quegli anaktes, quei signori devastatori che banchettavano nelle aule dei palazzi dalle sonanti porte di bronzo, chi erano? Si diceva: i micenei.
Dopo il ritrovamento di Schliemann la cosiddetta questione omerica è stata rivoluzionata. Agli storici, e principalmente ai micenologi, è toccato rovesciare le attese e le teorie dell'archeologia romantica e mostrare che i poemi omerici non provengono in realtà dal fiorire della civiltà micenea, ma dalla sua caduta. L’analisi delle varie stratigrafie delle dieci città sovrapposte individuate alla fine dagli archeologi hanno mostrato che la Ilio “omerica” non era la cosiddetta Troia II, molto più antica (terzo millennio avanti Cristo), in cui Schliemann disse di avere ritrovato quel leggendario tesoro di Priamo i cui gioielli, indossati dalla moglie Sofia, ancora si affacciano per la nostra meraviglia dai dagherrotipi del tempo, ma la Troia VIIa, molto più modesta per proporzioni e ricchezza, fiorita fra il 1300 e il 1200 a.C. e perita, dopo una breve vita, in un incendio.
La conclusione degli storici è che la Ilio omerica, intorno al 1184 avanti Cristo, non fu assediata dai carri da guerra dei Signori dei Palazzi, da una coalizione di micenei provenienti dal continente greco per assicurarsi il controllo di una cruciale testa di ponte microasiatica, ma piuttosto incendiata da nuove e incalzanti etnie — note in seguito sotto il nome misterioso di Popoli del Mare (che desumiamo dai testi egizi), o Figli di Eracle (usato nella tradizione greca), o Dori — in uno o più occasionali attacchi scaglionati nel loro movimento da nord a sud, lungo la direttrice dell’Asia Minore. Scontri la cui memoria potrebbe ritrovarsi in quanto narrato da Nestore nell'undicesimo canto dell'Iliade, o da Ulisse stesso nel nono dell'Odissea; riflesso del grande sommovimento etnico che agitò il bacino del Mediterraneo orientale fra il XIII e il XII secolo avanti Cristo, alla cesura fra età del bronzo e età del ferro.
La guerra di Troia, a giudicare dai risultati delle ricerche sulla questione omerica rese possibili dal ritrovamento di Schliemann e dalle sue successive, meticolose continuazioni, potrebbe essere stata in realtà, allora, una successione di guerre etniche. La dizione epica, l'esametro greco potrebbero non essere stati inventati in tempi di splendore. Nella prosperità economica, nella pace sociale achea la scrittura serviva, più sobriamente, a amministrare: registrazioni contabili, liste di persone e oggetti sono tutto quanto le tavolette di Micene e Pilo hanno serbato. E' invece nella contestazione dei poteri (Achille contro Agamennone), nel conflitto delle classi (i Proci contro Odisseo), nel crollo delle corti che la lingua si plasmò in letteratura: l'uso poetico della scrittura si deve ai secoli bui, all'allarmante età del ferro e non all'abbagliante età del bronzo.
Anche questo ha raccontato al Novecento la scoperta di Schliemann, di cui ricorre l’anniversario. E anche questo è stato un grande cambiamento. Noto però a pochi, e che forse non si è sedimentato abbastanza. Il mito fondatore della nostra cultura, che identifichiamo con la narrazione omerica, si incardina in una storia mediterranea di incessanti movimenti, sofferenze e scontri di popoli, che oggi vediamo rinnovarsi proprio vicino alla Propontide, tra le sponde dell’Asia Minore e quelle della Grecia, sulle coste dell’isola di Lesbo, che vede approdare fra mille traversie, accolti non da nugoli di frecce ma da raffiche di mitraglia, nuovi “popoli del mare”, genti accomunate, nella varietà di provenienze, vicissitudini, etnie, da un viaggio marino, da una storia di approdi e naufragi simile a quella che Omero raccontò nell’Odissea.
L’avventura di Schliemann, lo scavo di Troia, la scoperta della sua stratigrafia complessa come quella della psiche hanno cambiato, negli studi, la concezione del nostro passato remoto al confine tra l’era dell’oralità e quella della scrittura. Hanno lasciato così emergere dagli strati profondi, dall’inconscio stesso, per così dire, della nostra storia, un grande rimosso. La civiltà mediterranea (e probabilmente ogni altra) è fatta di migrazioni di popoli, alcune violente, altre pacifiche (ma sta spesso a noi renderle tali). E’ stratificata in molti livelli sovrapposti quante sono le culture che in successivi scaglioni e ondate ne formano l’archeologia, e che insieme, tuttavia, contribuiscono a identificarla come ‘nostra’ con la certezza e l’immediatezza della lingua del mito. E’ una civiltà unica, le cui guerre di Troia non sono una, tuttavia, ma molte guerre, come non una ma molte è la città di Troia. Guerre non di signori ma di popoli, di molti popoli che solcano il mare, e di cui la musa canta i lutti infiniti.
Questo articolo, disponibile a pagamento sul sito di Repubblica e accessibile solo agli abbonati, è stato concesso in lettura gratuita agli utenti di silviaronchey.it
Per abbonarsi a Repubblica:
http://quotidiano.repubblica.