Immagini vere e false, femminilità di Ravenna, centralità di Bisanzio
27/05/2022
Iacopo Gardelli
https://www.ravennanotizie.it
Bentornati all’Ombelico d’Oro, rubrica culturale diafana per tempi torbidi. Risale a qualche mese fa, precisamente allo scorso ottobre, l’uscita di un libro destinato a lasciare un segno nella storia culturale di Ravenna. Parlo de L’ultima immagine, edito da Rizzoli, un saggio a due voci fra James Hillman, tra i più importanti psicanalisti e filosofi americani del ‘900 e Silvia Ronchey, la più affermata bizantinista italiana.
Correva l’anno 2008. A pochi giorni dal fallimento della Lehman Brothers, a cui seguirà da lì a poco lo scoppio della più grande recessione economica dei tempi moderni, Hillman arriva a Ravenna per osservare e riflettere su quelle stesse immagini che, fra il 1913 e il 1933 affascinarono profondamente il maestro Carl Gustav Jung. L’obiettivo è ambizioso: capire quali immagini creò la psiche collettiva per far fronte al crollo dell’Impero romano d’Occidente, proprio oggi che l’Occidente sta entrando in un’altra fase acuta di crollo, fra recessione economica, cambiamenti climatici e (ma ancora non si poteva prevedere) lo scoppio di una guerra europea. Ma, più radicalmente, si tratta in fondo di capire che cos’è un’immagine e qual è il suo effetto sulla nostra interiorità.
In quella tarda estate del 2008 Hillman è accompagnato dalla moglie e da Silvia Ronchey, a cui lo legano una profonda amicizia e alcuni libri scritti in precedenza, sempre a partire da dialoghi liberi. I due si lasciano con il progetto di riprendere la conversazione una volta finita la prima sbobinatura ma, improvvisamente, Hillman
si ammala. Passa qualche anno di inutili cure mediche: Hillman sente avvicinarsi la fine e decide di riprendere quel progetto su Ravenna che considerava essenziale per il suo pensiero. Nel 2011, in America, Silvia Ronchey raccoglie le sue ultime testimonianze filosofiche, che dovranno essere pubblicate, secondo l’intenzione dell’autore, solo 10 anni dopo la sua morte.
L’ultima immagine è un testo complesso, per certi versi aporetico, proprio come i primi dialoghi platonici. Attraversato da oscurità e improvvisi lampi di illuminazioni filosofiche, intriso di una cultura alta ma vissuta, contiene alcune fra le più sorprendenti interpretazioni dei nostri mosaici che mi sia capitato di leggere.
L’INTERVISTA
Partiamo dalla forma di questo saggio: signora Ronchey, perché scegliere il dialogo? È una forma antica – basti pensare ai dialoghi platonici – ma poco esplorata nella saggistica contemporanea. Da dove viene questa necessità?
«Hai evocato giustamente Platone, e non dobbiamo dimenticare che Hillman si è sempre professato platonico. La sua filosofia ha moltissimi tratti in comune col pensiero platonico e in particolare neoplatonico. I suoi primi e più importanti scritti sono quelli su Plotino e Marsilio Ficino, che riguardano la definizione del concetto di “anima del mondo”, centrale per il suo progetto di terapia collettiva dell’umanità. Non dimentichiamoci anche che Hillman era uno psicanalista, il migliore e prediletto allievo di Jung; dopo la sua morte, sostituì il maestro alla direzione dello Jung-Institute di Zurigo. Il meccanismo del dialogo è maieutico: induce a partorire, a
creare concetti. Hillman non era uno scribacchino. Ha scritto libri importantissimi, ma sempre legati a una necessità comunicativa. I suoi libri nascono da scambi, conferenze, colloqui, lezioni. Il dialogo a due, o in assemblea, è sempre stato lo stimolo principale del suo pensiero».
Come ha conosciuto Hillman?
«Tutto è nato da una serie di interviste che realizzai per Rai 2 in collaborazione con Giuseppe Scaraffia, alla fine del secolo scorso. Si chiamavano “Interviste di fine millennio”. L’idea era quella di intervistare i grandi pensatori dell’epoca; incontrammo Lévy-Strauss, Ernst Jünger… Per prepararci facevamo scalette precise, che venivano sottoposte agli ospiti e al regista, che così sapeva cosa aspettarsi. Poi intervistammo Hillman. Eravamo all’Istituto di Cultura Italiana a Londra, era una giornata piovosa d’agosto; Hillman era vestito elegantissimo, con un completo di lino bianco e una cravatta azzurra. Non appena iniziò l’intervista, Hillman scardinò la scaletta. Il regista era disperato, ma l’incontro è stato bellissimo. È questo in fondo lo scopo socratico di un dialogo: far cambiare il punto di vista, creare un pensiero nuovo. Quell’intervista fu poi trasformata in un primo libro, L’anima del mondo, uscito per Rizzoli. Naturalmente fu rimaneggiata per mesi e mesi: all’epoca ci scambiavamo continuamente fax da una parte all’altra dell’Atlantico, spesso ci scrivevamo in greco! Questo metodo di lavoro soddisfò molto Hillman, e così ripetemmo l’esperimento con un secondo libro, Il piacere di pensare».
Un rapporto che si andava quindi approfondendo.
«Sì. Hillman veniva spesso in Italia. Era nato un rapporto di discepolato, un dialogo non limitato alla sola scrittura. È stato forse per questo che Hillman mi chiese di venire a Ravenna assieme a lui e a sua moglie Margot. Fu un viaggio organizzato interamente da lui, a sue spese. Diceva di voler pagare il suo debito a Jung sul tema dell’immagine, che riteneva di non avere esaurito con sufficiente chiarezza. Voleva realizzare un libro monografico sull’immagine, e riteneva che Ravenna fosse il luogo perfetto per farlo. Non c’era mai stato, e insisteva nel non voler assolutamente studiare o leggere niente sui mosaici della città prima della partenza. Cercava un impatto psichico diretto e improvviso con le immagini bizantine. Non voleva nemmeno vederle in fotografia, e nelle chiese mi zittiva quando cercavo di spiegargliele. Voleva sentire con le sue antenne il genius loci della città. Così abbiamo iniziato questo terzo libro, che per lui era molto importante, perché trattava di un tema di cui voleva assolutamente parlare entro la fine della sua vita, che nessuno però immaginava sarebbe stata così vicina».
Come ogni libro postumo anche questo è carico di una qualità particolare, tipica di tutte le ultime testimonianze. Partiamo, come nel libro, dal concetto di “crollo” dell’Occidente, che definite anche come “il fallimento universale dell’immaginazione”. Come lo spieghiamo? Si
potrebbe ribattere che viviamo in un’epoca satura di immagini. Dunque com’è possibile non immaginare più? E perché Ravenna è importante per ricominciare a immaginare?
«È il nucleo centrale del libro. Hillman ha trovato a Ravenna la chiave per risolvere una contraddizione che riteneva sussistere nei suoi scritti precedenti. Da un lato i suoi scritti erano a favore dell’immagine: da seguace di Jung pensava che l’anima fosse fatta di immagini. L’immagine è il medium per raggiungere la profondità dell’inconscio. Lui si professava “iconodulo”, ovvero servo delle immagini. Nello stesso tempo, però, negli ultimi libri, avanzava una critica molto forte a questo bombardamento di immagini pubblicitarie, giornalistiche e propagandistiche. Immagini fatte per sollecitarci, immagini mercificate, che lui chiamava pornografiche, e non necessariamente alla lettera: è pornografico tutto ciò che ci viene inviato in forma di immagine per sollecitarci a un’azione mercificata o consumistica. A Ravenna, rifacendosi alla famosa querelle bizantina sull’immagine, ovvero al dibattito sull’iconoclastia del VII e VIII secolo, ha trovato questa formula per distinguere le vere immagini dalle false: le immagini false sono quelle fatte per sollecitarci a un’azione. Ad esempio: le immagini che vediamo in questi giorni, piene degli orrori della guerra, sono false. Non in quanto tali, ma nella loro funzione, che è quella di portarci, a torto o a ragione, a schierarci politicamente. L’immagine vera è invece quella che ci ferma, che non ci sospinge. L’immagine ferma lo spazio e il tempo, ci porta a guardare qualcosa che è dentro di noi e che in questa immagine si proietta fuori di noi. Sembra astruso ma non è così: se guardiamo un’icona bizantina ci accorgiamo che la stilizzazione dei tratti, chiaramente voluta dall’artista, è fatta per far sì che l’immagine non sia realistica, ma piuttosto un’interfaccia fra la nostra psiche e la rappresentazione che la psiche si fa di una realtà esterna. La verità viene soltanto da dentro di noi. Quello che vediamo del mondo è vero nel momento in cui è passato attraverso la nostra psiche, attraverso la nostra capacità di visione delle cose».
Una delle parti più affascinanti del libro è il vostro commento al volto di Teodora. Partiamo da qui: forse la distinzione fra vera e falsa immagine sta nell’intenzione di chi guarda. Quelle stesse immagini “vere”, che oggi vediamo rappresentate a San Vitale e che ci muovono alla riflessione, al tempo erano forme di propaganda bizantina. Non è così?
«È verissimo, certamente. Qui si tratta però del modo bizantino di raffigurare più che della funzione di quell’immagine specifica. La Cappella Sistina è un modo di fare propaganda alla visione cristiana dei papi; ma Michelangelo ci comunica, attraverso la sua arte, qualcos’altro. Le immagini “vere” sono capaci di suscitare in noi determinati stati psichici, anche se sono state fatte con una committenza o un obiettivo politico. Anche le icone bizantine sono nate per propagandare le idee monastiche nelle campagne e per plagiare i contadini ignoranti. Il discorso è piuttosto come, e secondo quali regole, l’artista riesce a fornire un’immagine della realtà che non sia esposta alla condanna platonica, ovvero a essere “copia di copia”. Come dice Plotino, l’artista riesce a estrarre da sé degli elementi interiori che riscattano e innalzano l’immagine esteriore verso l’idea, verso l’astrazione pura. L’icona si basa su questi principi: è una forma di verità perché, nella sua stilizzazione, nella sua non-
volontà rappresentativa del fenomeno, suscita una costruzione psichica dentro di noi. E questa costruzione modifica ciò che vediamo; e poiché non c’è una realtà oggettiva, né per Platone né per uno psicanalista, ma c’è solo ciò che la nostra psiche vede, ecco che l’icona, o l’arte bizantina, fornisce una capacità di astrazione che ci salva, ci cura, e ci mette in contatto con l’inconscio – compito che oggi viene raccolto dall’arte astratta contemporanea. Le immagini possono avere diverse funzioni: quello che conta è se sono vere o false. Pensiamo all’immagine del Papa, da solo, durante il lockdown, in piazza San Pietro. Non era lo scatto di un grande autore, ma aveva in sé qualcosa che ha mosso dentro di noi una grande immagine, più profonda. Lo stesso potrebbe dirsi di quell’immagine della guerra in Ucraina, in cui si vede il Cristo della cattedrale armena di Leopoli in braccio a degli uomini che lo mettono in salvo dalle bombe: una sorta di Passione traslata. Certamente ha uno scopo di propaganda; ma c’è anche qualcosa in più. Tutte le vere immagini possono nascere da istanze contingenti. L’esercizio che Hillman vuole insegnarci è proprio riuscire a distinguere le immagini vere da quelle false; immagini che creano un canale di comunicazione fra noi e la nostra anima, che a sua volta è una particella dell’anima del mondo, e portarci a un effetto terapeutico collettivo».
Anche quello di “anima del mondo” è concetto molto antico, viene dal Timeo platonico; ma oggi potrebbe sembrare un po’ new age.
«Hillman infatti aveva l’incubo di essere accomunato ai movimenti new age. Hillman proveniva dall’esistenzialismo e aveva una formazione filosofica assolutamente rigorosa, per nulla incline alla religiosità o alla spiritualità intesa in modo magico. L’anima del mondo deve intendersi in senso psicanalitico, come psiche oggettiva, come manifestazione dello spirito del tempo».
Ed è forse lo spirito del tempo quello che, guardando l’abside di Sant’Apollinare in Classe, suggerisce a Hillman un collegamento con l’ecologia contemporanea.
«Esatto. È incredibile, eppure incredibilmente vero. Di questo parliamo quando parliamo di immagine vera. Uno storico dell’arte bizantina ci direbbe: quel giardino è la Gerusalemme celeste, non c’entra niente il pianeta Terra. Quel mosaico rappresenta l’Eden, siamo fuori dal tempo e dallo spazio. Per Hillman no. Questa è una lettura didascalica, è quello che noi vogliamo far dire all’immagine. Una parola importante per Hillman era de-letteralizzazione: è importante de-letteralizzare le immagini di Ravenna. Se le leggiamo alla lettera, le leggiamo come storici dell’arte. Quello che conta, nell’approccio a un’immagine, è sempre togliere la lettera e vedere che cosa resta. L’inconscio lavora sempre, dentro gli artisti, dentro i committenti e dentro gli spettatori. Secondo Hillman lavorava già allora, proprio perché esistono degli archetipi, delle forme immutabili della psiche collettiva, e il “mondo verde” è una di queste. Alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, nel momento del crollo, s’imponeva una visione verde, nel senso di un ritorno alla natura. Proprio nel
momento del declino di una civiltà, a livello inconscio questo verde rappresenta un ritorno alla purezza della natura. Anche se davanti abbiamo la Gerusalemme celeste non la vediamo piena di gemme, tesori e baldacchini come avviene in altre iconografie. Vediamo tanto verde. Perché? Ravenna è stata scelta da Hillman proprio per questo, in quanto luogo spazio-temporale della memoria collettiva in cui si condensa quello che lui andava cercando: che cosa produce la psiche dell’uomo in un momento di intensa sofferenza collettiva? Cosa vediamo in un momento di sgomento e smarrimento, nel mezzo del crollo di un sistema a cui non sappiamo cosa seguirà? A Ravenna Hillman ha trovato il verde, la visione del globo azzurro, l’importanza dell’amore per il nostro pianeta. Non si aspettava di vedere tutto questo verde, che effettivamente è una caratteristica molto ravennate».
Un altro tema interessante è il genius femminile che Hillman avverte a Ravenna, che collega la città alla storia dell’Impero Bizantino. In che senso Ravenna può dirsi femminile?
«Questa idea di accoglienza, incontro e inclusione è un’idea che si lega, anche banalmente, alle caratteristiche femminili. La femmina nidifica e raccoglie, l’uomo distrugge e caccia. Ma la questione è più profonda. Hillman aveva presente le due declinazioni junghiane dell’anima: anima e animus. A Ravenna, in modo quasi rabdomantico, sente molta anima e poco animus. L’aspetto femminile di Ravenna è inevitabile per vari motivi: il primo è la personalità di Galla Placidia, che ha lasciato una sua impronta specifica. Prendiamo il suo Mausoleo – anche se non sappiamo per chi sia stato costruito, certamente la committenza era sua. È presente al suo interno una serie di elementi della “numinosità femminile”, diciamo così, esplicata da simbologie lunari e celesti. Hillman sente la presenza di Vesta e di Afrodite nelle colombe – che letteralmente sono gli apostoli che si abbeverano alla scrittura neo-testamentaria, ma dal punto di vista archetipico rappresentano gli animali sciamanici legati dalla divinità femminile di Venere. L’iconografia di Galla Placidia è un corredo di gentile accompagnamento verso il trapasso dall’uno all’altro mondo, che sia quello promesso dalla fede cristiana appena nata, o che sia quello da una dimensione all’altra della percezione psichica. Ciò è confermato da altre immagini femminili, come quelle di Teodora e del suo corteo, o delle vergini a Sant’Apollinare Nuovo. È sempre presente l’idea di una cerimonialità femminile che si lega all’antica ritualità pagana e misterica. E poi c’è “la dama che visitò Boezio”, nella sua celebre opera De consolatione philosophiae: quella che alla lettera rappresenta appunto la Filosofia che visita Boezio in carcere, prima dell’esecuzione, è per Hillman manifestazione dell’Anima».
In un punto del testo Hillman parla del movimento verso ovest della società occidentale, forse rifacendosi alla filosofia della storia hegeliana. L’Occidente, la società razionale e illuministica, si muove verso ovest; l’Oriente rappresenta invece l’ancestrale, l’infanzia mistica che ci siamo lasciati alle spalle, e che ha affascinato schiere di orientalisti e decadenti. Oggi l’Oriente minaccia apertamente l’Occidente: dall’ex oriente lux, all’ex oriente bellum. Più che attirarci, oggi l’Oriente vuole annientarci?
«Dall’Oriente è sempre venuto qualcosa che ci ha fatto paura, ma anche qualcosa di ancestrale che ci riguarda e ci pervade. Pensiamo alle origini del mondo greco. Cosa c’è? C’è un impero immenso, orientale, e dall’altra parte un mondo occidentale che cerca di districarsi dalla sua morsa. Nella storia ci sono stati corsi e ricorsi, periodi di gravitazione occidentale o orientale. Hillman condanna la gravitazione occidentale: tutto ciò che viene dopo il Rinascimento, ovvero la rivoluzione scientifica e l’età dei lumi, ha dimenticato l’eredità orientale bizantina. Ritorno a Bisanzio significa tornare a studiare una gravitazione orientale, ovvero il momento di spostamento a est del baricentro geopolitico e culturale, avvenuto proprio durante il crollo occidentale nel IV e V secolo. Hillman, così come Jung, si è molto occupato di Oriente, e ha forse intercettato quello che sta oggi capitando al nostro mondo: ovvero una nuova gravitazione orientale. Oggi è la Cina che ci fa paura. Il “mondo con gli occhi a mandorla”, per dirla come Puškin, che pensava alla Russia come all’ultimo baluardo di difesa contro le stirpi mongole. Questa guerra nasce dalla paura che l’Occidente
prova di fronte alla Cina, e mira a creare un fronte occidentale di contenimento per evitare un’alleanza fra Russia e Cina. Credo che la paura dell’Oriente persista, ma una gravitazione orientale è ormai già introdotta. Quante persone oggi lavorano nel mondo Orientale! Quanti aerei pieni di giovani manager si muovono ogni giorno verso Taiwan, Corea, India, Cina, che sono i nuovi centri non solo economici, ma anche di cultura e mecenatismo culturale. C’è una paura diffusa dell’Oriente e una sua minaccia, principalmente economica; ma c’è anche l’invito di Hillman a guardare a quegli elementi dell’Oriente che sono già dentro di noi e che possono elaborare queste paure».
Che cosa possiamo imparare, oggi, dalla storia dell’Impero Bizantino?
«Moltissimo. Bisanzio è stato il luogo della translatio imperii e continua a essere il luogo cardine di ogni mediazione fra Oriente e Occidente. Studiare quella storia significa capire le cause del presente. Senza conoscere il passaggio dalla prima Roma alla seconda, Bisanzio; e dalla seconda alla terza, Mosca, è difficile capire la mentalità imperiale e cesariana della Russia di Putin, che poi è la stessa mentalità della Russia zarista o staliniana. È difficile immedesimarsi nelle crudeli e inaccettabili giustificazioni russe, secondo cui la costruzione di un protettorato attorno al nucleo della Federazione, anche a costo dell’invasione di un paese sovrano, è un diritto storico; ma ci permetterebbero di non gridare ogni volta al mostro e al pazzo parlando di Putin. E forse ci aiuterebbe a trovare una soluzione alla guerra, che dovrà in ogni caso nascere da un negoziato, se non vogliamo veramente distruggere tutto e tutti».
Che cosa si porta dietro dell’incontro con Hillman?
«Un grande pensatore lascia sempre un’eredità collettiva. Ma se penso al mio incontro personale, devo dire che Hillman è stato per me un maestro dell’arte del vivere. Sapeva vivere, si godeva la vita. Pur venendo da una visione pessimistica e tormentata dell’esistenza, Hillman era approdato a una concezione non dico vitalistica, ma quasi epicurea della vita. Pagana, appunto. Lui si considerava tale, pagano in senso profondo, di una laicità estrema ma al tempo stesso cosciente del mistero e dell’insondabilità della nostra psiche. Era un maestro pagano dell’arte del vivere, che esercitava filosofando, scrivendo, parlando con gli amici; ma anche amando il buon vino, la buona cucina, i bei vestiti. È stato perciò tanto più precoce e doloroso il fatto che questa vita cessasse all’improvviso. Non era mai stato ammalato in vita sua. Ma anche il dolore e la morte le ha vissute con curiosità e con coraggio pagano. Queste sue doti etiche, nel senso originario del “come vivere”, queste forse sono le qualità che chi ha conosciuto Hillman tiene più vicine alla memoria».