Piero e l'11 settembre di Costantinopoli
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La Flagellazione di Piero della Francesca è tra i dipinti più noti della storia dell’arte, sebbene la sua scoperta e rivalutazione risalgano solo a metà Ottocento. Ma questa tavola detiene per così dire il primato dell’enigma, poiché fino ad oggi ci si è arrovellati nel decifrarne il significato. Sullo sfondo si riconosce facilmente un Cristo flagellato. A suo fianco un impassibile Ponzio Pilato guarda la scena con aria depressa, mentre di fronte e con le spalle volte all’osservatore si staglia un testimone vestito alla turca. Tutto questo in una sorta di porticato dalla prospettiva calibratissima. In primo piano, lontano da quella scena, tre personaggi sembrano discorrere in una serenità quasi triste.
A sciogliere il nodo arriva ora il libro della bizantinista Silvia Ronchey, L’enigma di Piero. Otto anni di ricerca, viaggi, confronti, interviste, sono state necessarie per compilare questa summa sul dipinto e ben si può dire che, dopo l’appassionata interpretazione di Adolfo Venturi nel 1911, costituisca il più alto tributo al quadro e forse anche a Piero come interprete del suo tempo.
Per l’autrice questo è un dipinto luttuoso che riesce a comunicare (verissimo!) un senso di paralisi, di incapacità all’azione, di ineluttabilità degli eventi. Il motivo del cordoglio va cercato nella caduta di Costantinopoli il 29 maggio 1453. Oggi non riusciamo a comprendere l’effetto devastante di quella perdita su tutto il mondo cristiano, ben di più di un 11 settembre.
La cultura occidentale ha rimosso il triste evento rendendosi però con questo incapace a comprendere se stessa, perché non si può prescindere dalla millenaria storia bizantina. Il libro chiarisce che la causa della rimozione non va cercata nella Chiesa cattolica, se fu proprio papa Pio II insieme al convertito cardinale Bessarione a volere non solo la memoria ma la riconquista di Costantinopoli. A questo scopo si tentò di organizzare una crociata per riportare sul trono di Costantinopoli Tommaso Paleologo, l’ultimo erede di Costantino arrivato esule in Italia. Siamo al Congresso di Mantova del 1459. Ma ad Ancona, nel 1464, i Gonzaga, gli Sforza, i Montefeltro arrivarono con poche truppe. A Ferragosto morì Pio II. Salpò soltanto Sigismondo Pandolfo Malatesta, che sarebbe riuscito a fare una incursione più ardita che efficace entro le mura di Mistrà. La rimozione dipenderebbe da questo fallimento collettivo. E a tale congiuntura storica si riferisce, secondo l’autrice, la tavola pierfrancescana. Il Ponzio Pilato del portico sarebbe Giovanni VIII Paleologo, che nel 1438 guidava la delegazione orientale al Concilio di Ferrara; sotto la sua guida l’impero si indebolì. Il Cristo flagellato è la Chiesa d’Oriente minacciata e colpita dall’avanzare islamico. Di spalle, il sultano assiste alla sconfitta dei cristiani. I personaggi in primo piano sarebbero, da sinistra, il cardinal Bessarione, che aprì il concilio nel ’38 con la prospettiva dell’unificazione delle due Chiese. Al centro il giovane Tommaso Paleologo, fratello di Giovanni VIII, attende dall’Occidente un aiuto per difendere Bisanzio. Infine Niccolò III d’Este, che ospitò il concilio. Una scritta persa in un restauro recitava: «Convenerunt in unum», riferendosi certamente al Concilio di Ferrara ma anche all’assise di Mantova in vista della crociata indetta da Pio II. All’epoca l’aiuto a Tommaso Paleologo non arrivò. Vent’anni dopo, nel 1459-1460, Piero o il suo committente invitano a non ripetere lo stesso errore.
Ma l’errore, se errore fu, si fece.