Per Franco che voleva vederci danzare
Viaggio per gli orizzonti perduti di Battiato. Un unico poema musicale, mistico e sensuale
Articolo disponibile in PDF
Franco Battiato era certamente caro a più di un dio. Probabilmente a tutti, perché tutti onorava.
Come Empedocle, suo conterraneo, aveva vissuto molte vite. Era stato donna e prete di campagna, mercenario e padre di famiglia. E ragazzo e ragazza, pesce muto che guizza dal mare, uccello che vola nello spazio tra le nuvole con le regole assegnate a questa parte di universo. Poggiati sull’orlo del suo vulcano come i calzari di Empedocle ci ha lasciato i frammenti di un unico grande poema fisico e lustrale. Il corpus di parole e musica che resterà del suo transito terrestre narra, dell’inclinazione mistica avuta in sorte, anzitutto la capacità di fluttuare in più anime e di evocare in dettaglio le impressioni avute da ciascuna in questa vita. Non importa come e dove le raccogliesse, quale riferimento o immagine o spunto letterario accendesse la reminiscenza: importa sapere leggere le labbra della musa che è inabissata nella profonda memoria del mondo.
Viveva da millenni, veniva dritto dalla civiltà più alta dei sumeri, dall'arte cuneiforme degli scribi. Aveva percorso le strade dell’est, gli immensi orizzonti, le città nascoste di lingua persiana, la valle tra i due fiumi della Mesopotamia che vide alle sue rive Isacco di Ninive. Aveva camminato coi profughi afgani che dal confine si spostavano nell’Iran, scortato i mercanti punici su sentieri di montagna per evitare i doganieri e arrivare in Abissinia. Aveva pedalato sulle biciclette delle operaie di Shangai, a Tunisi aveva aspirato profumi indescrivibili nell’aria della sera, aveva fatto scalo a Grado una domenica di Pasqua. Era stato gesuita nella Cina dei Ming, travestito da bonzo per entrare alla corte degli imperatori, e allievo di Gurdjeff a Pietrogrado nel 1913, quando sulla Nevskij gelata si poteva incontrare l’antico allievo di Rimskij Korsakov, Stravinskij. Ricordava l’occupazione italiana della Libia, la lussuria dell’autunno di Bengasi. La luce grigia di un appartamento di Berlino Est subito dopo il calare della Cortina di Ferro. La littorina della Circumetnea, i saggi ginnici, il Nabucco, il rombo degli aerei da caccia stonare con il ritmo delle piante al sole sui balconi di un’adolescenza in Sicilia durante la guerra — pur essendo nato quando era appena finita.
L’estasi lo aveva còlto più volte, non solo nella pace di certi monasteri o nell’ebbrezza dei sensi in reciproca intesa, ma nei luoghi e nelle circostanze più semplici, come spesso ai mistici accade, quando luoghi sconosciuti si riconoscono come familiari e restano i nomi e cambiano le facce, o anche l’inverso, e tutto può accadere, e il cielo è contagioso e nuovo e c’è qualche cosa in più nell'aria. Al tavolino di un caffè di Parigi, sorseggiando un tè. O in una periferia urbana, percependo segnali di vita levarsi dai cortili e dalle strade all’imbrunire, l’accendersi progressivo delle luci che ricorda le meccaniche celesti. O in una casa tunisina nel deserto, presso la ferrovia, intravedendo i treni passare ancora lenti verso l’oasi di Tozeur. O dopo pranzo, osservando gli spiragli di luce contro il soffitto delle finestre un po' socchiuse. O su una spiaggia solitaria, dove di tanto in tanto un grido copriva le distanze e l'aria delle cose diventava irreale, e l’io annegava trascinato lontano a naufragare tra le onde.
Aveva attraversato tempeste, e superato prove antiche e dure, ma dagli dèi aveva più volte avuto un chiaro aiuto. Che si trattasse dei dio dei sufi, che con lenti movimenti delle mani tentava di placare nel concerto del ‘92 a Baghdad, ai tempi dell’embargo occidentale, o di quello cui più volte aveva concesso un’esibizione in Vaticano, o dell’Uno dei neoplatonici, che cercava al di sopra del bene e del male, o dell’Inviolato dei mistici, al quale andava sempre e comunque la sua lode, da qualunque delle emanazioni divine fosse stata inviata, aveva spesso sentito posarsi su di sé l'invisibile carezza di un custode. In quei momenti sprofondava in un oceano di silenzio, senza tempo né principio, che scorreva lento, segnando il tempo di altre leggi, di un'altra dimensione. Cosa avrebbe visto del mondo, si domandava, senza quella luce?
Dioniso sul suo carro guidato da tigri lo aveva portato a viaggiare nello spirito della musica e della danza, ad ammirare la grazia innaturale di Nijinskij, i balletti russi, il teatro indiano del kathakali, con le sue percussioni e i suoi sonagli. Era stato zingaro tra gli zingari del deserto, aveva sorretto sul capo i candelabri delle danzatrici balinesi, aveva ballato al ritmo di sette ottavi tra le coppie di anziani nelle balere estive dell’Irlanda del nord. Voleva vederci danzare e ci induceva a farlo. Al concerto dell’ottobre del ’99 nell’Aula Paolo VI, religiosi e porporati ondeggiavano a ritmo sgranando come un rosario le parole che avrebbero scandito, nell’anno del Giubileo, il trapasso del Millennio: “Questo secolo oramai alla fine, saturo di parassiti senza dignità, mi spinge solo ad essere migliore, con più volontà”.
Non avevano a che fare se non incidentalmente con la spiritualità New Age, alla quale la natura profetica di Battiato era estranea, perché si dipanava negli abissi del passato e non c’era nulla di nuovo nell’era del Cinghiale Bianco, che si augurava tornasse presto. Era all’età ancestrale del cosmo che attingeva parole e preghiere, attraverso qualunque intuizione o sogno o racconto le avesse indovinate e trasmesse, e poiché guardare il passato significa vedere il futuro, la sua mano levata andava a tempo con lo spirito del tempo.
La voce che alla molteplice e immanente anima collettiva la sua anima ora di nuovo pellegrina ha prestato intonava una pluralità di esortazioni. Se oggi se ne dovesse ricordare una, sarebbe: che torni in noi la voglia di vivere a un’altra velocità. Chissà come Battiato, se fosse stato cosciente, avrebbe interpretato la possibilità di farlo, nei lunghi attimi di silenzio di quest’anno e mezzo di pandemia in cui tutto si è fermato. Chissà se oggi, nuovamente immersi nel troppo traffico che ci sfianca, innervositi dai semafori e dagli stop, insensibili a tranquillanti e terapie, riusciamo a sentire la sua voce pacata sussurrarci: ci vuole un’altra vita.