Bizantini. L’impero colpisce ancora
Al Mann di Napoli un percorso espositivo ricostruisce attraverso tessere sparse l’immenso mosaico culturale di una civiltà. Dove la sapienza ellenica si saldò con la tradizione amministrativa e giuridica romana
Articolo disponibile in PDF
Secondo un antico racconto persiano, riportato anche nei Cinque tesori di Nizami, un sovrano orientale che regnava in un magnifico palazzo indisse una gara tra pittori. Dai due grandi imperi le cui civiltà allora dominavano il mondo conosciuto furono selezionate due squadre: una era di artisti bizantini, l’altra di artisti cinesi. Le due botteghe avrebbero dovuto sfidarsi a decorare due pareti antistanti. I bizantini dipinsero un affresco di così sublime bellezza, per armonia di forma, impasto di colore, maestria di esecuzione, che apparve insuperabile al sovrano e alla sua corte. Ma i cinesi lo superarono. Levigarono tanto perfettamente la superficie della parete a loro assegnata che l’immagine dipinta dai loro rivali vi si rifletté con effetto prodigioso. E fu così che vinsero la gara. Il messaggio dell’apologo — sostanzialmente platonico: l’arte come riflesso dell’ideale — indusse il Mevlānā Jalāl al-Dīn Rūmī a citarlo nel suo Masnavi, paragonando all’opera di quegli artisti la disciplina del mistico sūfī, che deve realizzare un’attenta politura del suo cuore perché l’effigie divina possa riverberarvisi. Ma, al di là del senso filosofico, sul piano artistico la storia conteneva l’indubbio riconoscimento di un fatto: nessuno al mondo dipingeva meglio dei maestri bizantini.
Il traguardo artistico, proverbiale in ogni angolo dell’era che chiamiamo medievale, è solo un aspetto dell’eminenza della civiltà che chiamiamo bizantina, ma che non fu se non il perpetuarsi spaziotemporale della romanità, che prolungò l’evo antico in un’ellissi orientale destinata a ricongiungersi direttamente al Rinascimento escludendo la nozione stessa di Medioevo. La cosiddetta rhomaiosyne per secoli definirà il sentimento d’identità dei suoi cittadini, i quali chiamavano se stessi rhomaioi, ovvero romani o romèi. Nozione centrale al concetto della mostra I bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un Impero millenario, appena aperta al MANN di Napoli fino al 13 febbraio (ma probabilmente anche oltre) a cura di Federico Marazzi. Il quale, nell’esordio della felice Guida breve pubblicata a fianco del tradizionale e più dettagliato catalogo (quest’ultimo, disponibile a fine mese, firmato dai massimi storici italiani dell’arte e della cultura materiale bizantina tra cui Alessandra Guiglia, Antonio Iacobini, Silvia Pedone, Enrico Zanini, Andrea Paribeni, Livia Bevilacqua, Salvatore Cosentino, Cristina Rognoni, Gioacchino Strano), chiarisce che “l’impero bizantino, per i suoi abitanti, era molto semplicemente l’impero romano che continuava a vivere” e che “dal punto di vista giuridico-istituzionale altro non era se non la continuazione della sua pars orientis”: quella metà orientale che ne sussunse il titolo dopo che Odoacre, capo delle milizie barbariche stanziate in Italia, depose l’ultimo cesare d’occidente, Romolo Augustolo, ma contestualmente ne inviò le insegne imperiali a Costantinopoli “a significare che l’imperatore che lì risiedeva rappresentava perfettamente l’impero nella sua interezza, di cui Odoacre si dichiarava il rappresentante pro tempore in Italia”.
Questa mostra storica, o storico-archeologica, più che convenzionalmente storico-artistica, si studia, con gli oggetti esposti nel salone d’ingresso e nel Gran Salone della Meridiana, di fornire tessere sparse ma coerenti al disegno dell’immenso mosaico culturale, politico, simbolico della basileia romano-bizantina in cui la sapienza filosofica ellenica si saldò con la tradizione giuridica e amministrativa romana, in una formidabile compagine che rese Bisanzio per undici secoli la superpotenza politica, economica, militare del Mediterraneo geografico e il soggetto culturale egemone di quello che Fernand Braudel ha chiamato il Mediterraneo Maggiore. Si propone di accompagnare in una “navigazione verso Bisanzio” dall’una all’altra data chiave della sua storia, lungo un percorso di “boe disseminate sull’acqua, poste a segnalare delle svolte o dei restringimenti o allargamenti di corsia”. Allinea allo scopo manufatti di estrema suggestione visiva oltre che di intenso e ben studiato valore rappresentativo, provenienti non solo dall’Italia e dal Vaticano, ma anche, e non pochi, dagli straordinari musei della Grecia: dall’icona di sant’Anastasia Pharmakolytria di Naxos al ritratto musivo di papa Giovanni VII, dall’affresco del Museo Bizantino di Atene al missorium argenteo di Aspar. E poi sculture, capitelli, epigrafi; avori, croci, enkolpia, gemme, gioielli (molti provenienti dallo scavo della stazione Venizelos della metropolitana di Salonicco); monete, sigilli; ceramiche; rotoli e codici miniati; cui si aggiungono oggetti, suppellettili e strumenti d’uso quotidiano o professionale, ad illustrare non solo i fondamenti della formula statale dell’impero, ma anche il suo sistema sociale, amministrativo, economico e finanziario, il suo spazio religioso, la sua vita materiale. Senza dimenticare il debito bizantino di intere regioni d’Italia: non solo dell’esarcato di Ravenna, non solo della Sicilia, ma di quel Meridione, tra Puglia, Basilicata e Calabria, la cui bizantinizzazione culturale, se non più politica, si mantenne per secoli; e svelando anche una Napoli bizantina, che per molti sarà sorprendente.
Ma la mostra racconta, naturalmente, anche e soprattutto Costantinopoli, la Polis, la Città per eccellenza, che fendeva con il suo alone di luce le tenebre dei secoli bui e i resoconti dei viaggiatori stranieri: dall’Anonimo cinese, che vide il palazzo imperiale “solido e lucente come la giada”, a Liutprando da Cremona, che vide e udì cantare e ruggire gli automi d’oro della sala del trono della Magnaura, a Ignazio di Smolensk e Stefano di Novgorod, che piansero per lo splendore di quel “Faro del Mondo che emanava la Luce del Giorno, dell’Arte e della Fede”, di quella “selva di prodigi”, di pitture e mosaici, di avori e ori, di gemme e smalti, di marmi e colonne e altari e sculture proliferate in edifici la cui sacralità coincideva con quella della bellezza e dell’arte.
L’ideazione della mostra reca anche la consapevolezza “che oggi una riflessione sull’impero bizantino è quanto mai importante alla luce della centralità geografica della sua capitale, che muta il nome — prima Bisanzio, poi Costantinopoli, oggi Istanbul — ma non la centralità strategica, posta com’è a controllo del Bosforo e dei Dardanelli, da dove transitavano e transitano le enormi partite di grano della Russia meridionale”. Allusione al contesto storico attuale, dove la guerra in Ucraina per il controllo del Mar Nero, con tutte le implicazioni strategiche ed economiche che comporta, si gioca su uno scacchiere pienamente bizantino e ripropone una partita a tre fra l’occidente europeo, e oggi atlantico, e i due imperi eredi di Bisanzio — quello russo e quello ottomano, oggi turco ma percorso da un febbrile brivido di neo-ottomanesimo — che dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 ha continuato a giocarsi ininterrottamente per mezzo millennio, in una lotta euroasiatica per il controllo dei grandi spazi estesi verso il terzo impero, quello cinese: capace di levigare a specchio una parete infrangibile, implacabile, contro cui ogni conflitto politico dello scenario del nuovo secolo si rifrange, accecante.