Lepanto. Molto rumore per nulla
"La battaglia dei tre imperi" di Alessandro Barbero. La Lega Santa sbarrò davvero il passo agli ottomani nel 1571?
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Il 732, anno della battaglia di Poitiers, in cui Carlo Martello fermò l’esercito arabo-berbero che puntava al cuore dell’“Europa” medievale franca; e il 1571, anno in cui a Lepanto la Lega Santa federata sotto l’egida di papa Pio V sbarrò il passo alla penetrazione ottomana nell’occidente cristiano: i libri di scuola ci hanno insegnato a considerare queste due date gli estremi epocali di un immenso scampato pericolo. In particolare la battaglia di Lepanto, in cui le forze alleate guidate da Don Giovanni d’Austria distrussero la flotta del sultano in una carneficina in cui lo stesso comandante ottomano perse la vita, è stata vista come l’estremo salvataggio dell’occidente dall’islamizzazione, o comunque dall’egemonia islamica sul Mediterraneo, un secolo dopo la caduta di Costantinopoli e il conseguente controllo ottomano degli Stretti, chiave dei traffici mercantili e di una mediazione fra civiltà rimasta per tutto il Medioevo all’impero romano-bizantino.
E però già Voltaire, nel Saggio sui costumi, si mostrava scettico: “Quale fu il frutto della battaglia di Lepanto e della conquista di Tunisi? I veneziani non guadagnarono terreno sui turchi e l’ammiraglio di Selim II riprese senza difficoltà il regno di Tunisi (1574): tutti i cristiani vi furono sgozzati. Sembrava che i turchi avessero vinto la battaglia di Lepanto”.
Allo scetticismo di Voltaire fa eco la perplessità di Braudel, che analizzando la molteplicità di eventi culminati in quell’ultimo scontro fra flotte, e la sua scia nei territori della propaganda, si interroga: “Molto rumore per nulla, molta gloria, se si vuole, per nulla”? Aggiungendo però che prima di fare dell’ironia su Lepanto bisogna valutare non solo e non tanto l’evento militare, quanto il suo enorme effetto sulla frastagliata realtà “europea”.
E’ proprio questa l’impresa affrontata da Barbero nel suo Lepanto. Un libro stupefacente, monumentale, destinato a restare una pietra miliare. Pietra di strano tipo, però, percorsa da molte vene, e di insolita porosità. Non il liscio marmo della storia ufficiale, fatta dai vincitori e levigata dalle ideologie.
Nel confermare, con Voltaire e Braudel, che “ha ben poco senso ripetere che la battaglia salvò l’Occidente”, e nel sottolineare l’effetto di quell’orchestrazione propagandistica “a suon di Te Deum”, libri e committenze artistiche, Barbero, ad esempio, offre al lettore un’immagine viva: “A Padova, un pover’uomo ammalato ne rimase così impressionato che una notte, delirando per la febbre, prese un coltellaccio, devastò la casa e al mattino ripeteva attonito: ‘Gli ho ammazzati tutti ‘sti turchi’”.
Ma leggere Lepanto come costruzione propagandistica è solo una delle risorse della storiografia di Barbero. Congegnare l’intricata, appassionante esposizione dei fatti passati dall’uno all’altro capo del Mediterraneo fra il 1568 e il 1571 significa per lui entrare nella storia attraverso ogni possibile pertugio, inseguirla a tutti i suoi livelli. C’è la storia materiale e quella evenemenziale, la storia delle élites e quella delle classi subalterne, c’è la storia politica e quella militare, la storia ufficiale — spesso inedita, rovistata negli archivi — e la storia segreta delle spie.
C’è la realtà dei turchi — quasi mai recepita dagli storici occidentalisti in tutta la sua complessa sofisticatezza — e c’è la realtà degli occidentali — frastagliata, in guerra con se stessa, dove quasi ognuno dei soggetti in campo è portatore di interessi diversi e di una privata versione dei fatti.
E’ impressionante la naturalezza con cui Barbero si muove nella storia ottomana come in quella europea, tra oriente e occidente. La sua scrittura — in apparenza vieux jeu, in realtà senza tempo — asseconda la trasversalità dello sguardo e la pluralità delle voci, o dei sussurri. Mobilitando un arsenale di fonti e di metodologie e scavando trincee narrative distinte ma collegate, nella tattica letteraria, al punto da non far avvertire al lettore il minimo smottamento.
Dopo la sconfitta di Lepanto il sultano Selim dichiarò che “gli era stata solo bruciacchiata la barba” e ricostruì la sua flotta di galee, dando ragione alla famosa frase del gran visir Mehmet pascià: “Questo stato se volesse potrebbe fabbricare una flotta con le ancore d’argento, il sartiame di seta e le vele di raso”. Se oggi si analizzassero le analoghe “vittorie” occidentali negli stati emersi dalla dissoluzione dell’impero ottomano con la stessa imparzialità e lo stesso occhio a ciò che sorvolando gli scontri unisce i fronti e incrina ciascuno al suo interno, con sotto mano relazioni di intelligence e reazioni popolari, documenti diplomatici e finanziari, solo allora, forse, potremmo capire. Ma è una documentazione che non possiamo ancora avere. A conferma che solo il passato è, paradossalmente, disponibile al presente, e capace di fornirgli insegnamenti. E che la storia è fatta, sì, da singole battaglie, ma non sempre, anzi quasi mai, da quelle che ci vengono tramandate.
Alessandro Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Laterza, 769 pp., 21€