Silvia Ronchey

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Noi e Bisanzio

Costantinopoli ultima fermata.

Fermor l’uomo che non riuscì a raccontare come va a finire

25/07/2015 Silvia Ronchey

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La Repubblica

Una notte del 1965 a Pucioasa, una piccola città del distretto di Dambovita in Romania, ebbe luogo un incontro clandestino ed emozio­nante. Un giovane inglese, un grande artista della vita che aveva da poco e tutto sommato casualmente deciso di dedicarsi alla scrittura, penetrò i confini della cortina di ferro per incontrare la donna che era stata il suo primo e grande amore: una principes­sa, all'epoca in cui nel suo castel­lo, meno che ventenne, aveva vissuto per ben quattro anni, dal '35 al fatale '39, quando ave­va dovuto lasciarla per lo scop­pio della guerra. Dieci anni do­po, nel '49, la donna era stata sfrattata dalla tenuta di fami­glia, espropriata di tutti i suoi beni e mandata al confino. Il gio­vane inglese non l'aveva mai ri­vista. Ma ora il regime rumeno aveva leggermente allentato la sua chiusura agli stranieri. Ab­bastanza da permettere a quell'uomo da sempre avventu­roso di tentare di raggiungerla.
L'uomo era Patrick Leigh Fermor, bello, ricco e felice allo scoc­care dei suoi quarant'anni, e quello che voleva dall'ormai sfiorita e diseredata erede dell'antichissima dinastia bi­zantina dei Cantacuzeni, ora confinata in una mansarda in­sieme alla sorella e al cognato, non era né amore né ospitalità. Era lì per recuperare un quader­no abbandonato vent'anni pri­ma nel castello, che la donna, pur nella fretta convulsa dello sgombero, aveva gettato nell'u­nica valigia portata con sé: il Dia­rio Verde.
Quel quaderno era un tali­smano: il quarto e ultimo dei dia­ri su cui Fermor aveva annotato il mitico viaggio di formazione della sua adolescenza, che lo aveva condotto a piedi, diciot­tenne, dall'Olanda a Costantino­poli. Un viaggio breve, nel com­plesso, durato poco più di un an­no, dal '33 alla fine del '34, che a partire dal '65 avrebbe dedica­to tutto il resto della vita a tenta­re di ricostruire e descrivere. I primi due volumi, Tempo di re­gali e Fra i boschi e l'acqua, ri­spettivamente del '77 e dell'86, lo avrebbero reso famoso. Il ter­zo e ultimo, se l'autore avesse compiuto la trilogia, ne avrebbe probabilmente fatto il vertice della letteratura inglese di viag­gio di tutti i tempi. Non è acca­duto.
Il libro che ora esce in tradu­zione italiana (La strada inter­rotta, Adelphi) evidenzia fin dal titolo l'impossibilità che lo osteggia, ma ne fa anche un uni­cum forse ancora più prezioso: la testimonianza di uno scritto­re che nella scelta tra vita e scrit­tura non ha mai optato intera­mente per l'una o per l'altra, ma le ha alternate con avidità, lasciando in bianco la parte di vi­ta talmente vissuta da non po­ter essere, né durante né dopo, descritta.
Costantinopoli, la città delle città, la capitale bizantina, poi ottomana ma sempre erede del­la tradizione millenaria della rhomaiosyne, era la meta fin dall'inizio tracciata sulla tabula rasa del mondo da quell'adole­scente approdato al culto di Bi­sanzio per virtuosismo ed eccen­tricità. Il conflitto con una lonta­na e inarrivabile figura paterna lo rendeva insieme depresso e insicuro, irrequieto e avventuro­so fino alla mitomania. Oberato da un precoce dono per la scrit­tura, torturato da un temibile versatilità di talenti, diviso tra ambizioni contrastanti, ansia e perfezionismo avevano cristal­lizzato in lui «una pericolosa mi­scela di sofisticatezza e inco­scienza» secondo il direttore del King's College di Canterbury.
Approdato a Londra, insoffe­rente della folleggiante Bright Young People, recalcitrante al ruolo che la Ruling Class britan­nica gli destinava, afflitto da un «disprezzo per tutti che iniziava e finiva con un disprezzo per se stesso», aveva deciso di viaggia­re a piedi, in totale povertà, con un bastone, uno zaino e le poe­sie di Orazio.
In un anno aveva camminato per ottocento chilometri attra­verso le rovine di un mondo sul punto di disfarsi colto nel suo ul­timo miracoloso momento di stasi e di grazia, un percorso quasi da sonnambulo sul crina­le della storia, sull'orlo del precipitare dei grandi imperi che fi­no all'inizio del Novecento ave­vano presidiato, nel privilegio e nel sangue, la tradizione bizan­tina. Di quel viaggio attraverso Germania, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bul­garia, Turchia, Monte Athos, animato da quell'insieme di vocazione letteraria, ascetismo, estetismo, coraggio fisico, amo­re per la High Life e attrazione romantica per il popolo che avrebbe sempre caratterizzato la sua esistenza, il Diario Verde recuperato nel cuore della guer­ra fredda, nel fondo della buia provincia comunista, racconta­va l'ultimo e più importante seg­mento: l'approdo.

Fin dall'inizio Fermor sapeva che il tratto finale, dalle Porte di Ferro del Danubio a Costantino­poli, sarebbe stato il più difficile da narrare. Aveva tentato per la prima volta nel '65 e ne era emerso un testo insoddisfacente, accantonato con il titolo provvisorio di A Youthful Journey. All'inizio degli anni Settan­ta aveva ripreso a scrivere il viaggio cominciando dalla par­te meno importante. Solo la di­minuzione dell'oggetto esorciz­zava il demone della depressio­ne e del caos. Fermor temeva l'e­spressione diretta, la scrittura frontale, come lo sguardo di una gorgone. I suoi manoscritti erano tormentati da incessanti ripensamenti e correzioni. Avvi­cinarsi al cuore dell'esperienza rendeva la sua scrittura tortuo­sa, sghemba, come metallo che si deformi vicino al fuoco.
Fermor se ne teneva cauta­mente alla larga esercitando l'arte bizantina della digressio­ne e del dettaglio, giustappo­nendo tessere minute, aneddo­ti, descrizioni di caratteri e og­getti comuni, frammenti di ap­parente inessenzialità e frivo­lezza. Un mosaico contempora­neo, che fa l'eccezionalità della sua attentissima arte.
I curatori del volume postu­mo ci assicurano che Fermor non riuscì mai a collazionare il Diario Verde, il talismano che era andato a cercare fin nelle profondità dei Carpazi, con A Youthful Journey, la prima versione dell'ultima parte del viag­gio. Avrebbe potuto, avendoli entrambi, ma non ci provò nep­pure. Li esaminò separatamen­te, fino alla morte aggiunse con mano tremante note a margi­ne, in parte perentorie, in parte incomprensibili anche a chi lo conosceva bene. Non riuscì mai a descrivere Costantinopoli. La pagina e mezzo di fugaci appun­ti del Diario Verde è riportata nel libro con aperto imbarazzo e con una congettura: che a Fermor Istanbul non sia piaciuta.
Ci permettiamo di dissentire. Le mura di Costantinopoli sono state per Fermor «il punto più avanzato cui sia concesso spin­gersi» nel trasporre la vita in pa­role: il punto in cui la sua strada si è interrotta, come sempre quella di chi voglia, nella stessa vita, vivere e scrivere. Le pagi­ne costantinopolitane del Dia­rio Verde tracciano il contorno di una lacuna, significativa quanto il fluire denso e minuzio­so della grafia che riempie il re­sto del codice. Ci fanno capire che il nevrotico, depresso, tor­mentato, sofisticato giovane fuggitivo inglese almeno in quei giorni, nella bellezza inde­scrivibile della città delle città, deve avere talmente vissuto da negare qualsiasi spazio alla scrittura.
Lo spazio della vita, nella sua scrittura, è rimasto vuoto come quello del capodanno del '35: «Dopo la baldoria dell'ultimo dell'anno ho dormito fino alle sei di sera, poi, svegliandomi, ho pensato che fosse l'alba. Mi sono rigirato e ho dormito fino alla mattina del 2 gennaio. Quin­di il capodanno del 1935 per me sarà sempre uno spazio vuoto».


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