Le ultime crociate/2: Guerra santa all'Islam
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Quando nel 2001, pochi giorni dopo l’11 settembre, Osama Bin Laden lanciò attraverso al-Jazeera il suo storico appello “contro i crociati americani”, definendo l’allora presidente George W. Bush “il crociato più importante sotto la bandiera della Croce”, l’occidentale medio fu preso leggermente in contropiede. Le crociate, sui libri di scuola, venivano presentate come una cosa buona, i “crociati più importanti ” — Goffredo di Buglione, Riccardo Cuor di Leone — come gente dal cuore d’oro. Pochi conoscevano le posizioni inaugurate dall’illuminismo e sviluppate poi da storici novecenteschi come Steven Runciman, che aveva definito le crociate “le ultime invasioni barbariche”. Poco si parlava della violenza armata degli eserciti che portavano nel nome di dio — “Dieu le veult” — devastazione e massacri di massa. Ancora meno si ricordava la Quarta Crociata, che ai luoghi santi nemmeno si era avvicinata, ma nel 1204 aveva “deviato” su Costantinopoli, scagliando sul ricco impero di Bisanzio una razzia ben più vandalica e rovinosa di quella portata due secoli e mezzo dopo dalla conquista turca. Ma all’indomani dell’11 settembre neppure ci si ricordava bene contro chi fossero state combattute le crociate. Molti sostenevano, in buona fede, “contro gli arabi”, il termine designando correntemente, ancorché astoricamente, tutto l’islam. L’accezione negativa era estranea anche all’ambito laico, dall’Ottocento risorgimentale in poi la parola servendo anzi a caricare di un’automatica valenza positiva campagne genericamente progressiste, dalla ‘crociata contro la prostituzione’ di mazziniana memoria a quelle più attuali contro l’alcool o il fumo.
In poco più di un decennio, dopo la torsione semantica propalata urbi et orbi dal sanguinario leader del terrorismo internazionale, i medievisti di tutto il mondo hanno dovuto dare conto all’opinione pubblica di cosa fossero veramente le crociate, con una chiarezza mai adoperata prima. Studi storici e testi divulgativi si sono moltiplicati, l’antica omertà papalina degli europei e l’affabulazione epica degli anglosassoni, ibridata di esoterismi new age, si sono squarciate, lasciando per la prima volta trapelare dati esatti sulla cruenta jihad cristiana medievale, i suoi moventi politico-economici, la sua brutale ideologia. Fortuna che il fenomeno apparteneva al medioevo. Questo confinamento cronologico delle crociate serviva a corroborare quella lettura dominante del cosiddetto scontro di civiltà, la cui causa era da scorgersi nel ritardo civile e culturale del mondo islamico, ancora immerso nel buio medioevo jihadista da cui il mondo cristiano era invece da tempo emerso, trainato dal carro trionfale della storia.
A scardinare anche quest’ultimo appiglio degli storici, vanificando l’appello alla medievalità delle crociate, arriva oggi il ponderoso libro di uno storico del cristianesimo e studioso della prima età moderna, Marco Pellegrini. Le crociate dopo le crociate (Il Mulino, 384 pp., 25 €) colma un vuoto storiografico parlandoci delle non meno numerose e non meno rilevanti ‘Crociate del Rinascimento’: quelle che per tre secoli, dal XV al XVII, opposero iniziative belliche a conduzione compatta, insieme imperiale e papale, al nemico islamico nel frattempo divenuto, nel segno dell’unificazione ottomana, grande e strutturata potenza demografico-militare.
Molto più delle crociate medievali, il cui afflato ideologico e la cui affabulazione collettiva Pellegrini colloca nella “sfera della fantasia applicata alla geopolitica”, continuamente ribadendo “connaturato alla crociata fin dal suo nascere l’elemento irrealistico e talora delirante della fantapolitica”, possono accostarsi alle crociate odierne queste crociate rinascimentali — in cui peraltro le caratteristiche formali di “guerra santa cristiana” furono ben chiare sul piano giuridico-istituzionale, regolate dal diritto canonico e meticolosamente codificate nelle procedure dell’autorità ecclesiastica.
Il Medio Oriente vi diventa teatro secondario, l’azione militare vera e propria coinvolge due nuovi scenari geostrategici, quello balcanico e quello asiatico-caucasico-mesopotamico, su cui vediamo esercitarsi la prassi occidentale della ‘guerra preventiva’ (chiamata dall’autore alternativamente e un po’ incongruamente “guerra di contenimento” e “di riscossa”) contro il blocco islamico, incendiato allora dalla costruzione oggi dalla dissoluzione dell’impero ottomano in modo quasi egualmente minaccioso.
Come scrive Pellegrini, il tema della crociata fu coltivato con particolare fervore da molti dei maggiori esponenti dell’umanesimo quattro-cinquecentesco; il che non fece che dare nuova carica ideologica e emotiva all’”atavica contrapposizione tra oriente e occidente”: anzi, così “l’antropocentrismo umanistico si rivelò essere l’altra faccia dell’eurocentrismo”. Il problema vero infatti “non era rappresentato dall’impero ottomano: il problema era l’Europa, un’Europa malata”; era “la cittadella cristiana disgregata”, e in generale la decadenza dell’occidente, dinanzi alla quale “la guerra santa fu l’unica procedura percepita come legittima per una mobilitazione”. Il mezzo per giustificarla è ciò che Pellegrini chiama “l’esotizzazione del tremendo nemico”, che “viene ridotto a categorie di giudizio imprecise e emotive”, letteralmente demonizzato, se si pensa alle raffigurazioni del mostruoso demone islamico dalle sembianze di drago tipiche di tutta l’iconografica di quell’età tutt’altro che buia, ma di luminoso progresso che fu, secondo i manuali in contrapposizione al Medioevo, il Rinascimento.