E Mehmet lesse nel cielo l'eclissi di Bisanzio
Il taccuino del giovane sultano che nel 1453 espugnò la città: la sera prima dell’assalto finale, per scacciare l’inquietudine, vi disegnò quel che vedeva
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All’istmo tra Europa e Asia c’era, e c’è ancora, la Città delle Città, che un tempo si chiamava la Polis e ora è chiamata Istanbul: entrambi i nomi significano “la Città”. E al suo interno c’era, e c’è ancora, una Città nella Città, il Gran Palazzo del Topkapi. E nella sua Biblioteca c’era, e c’è ancora, un piccolo taccuino ingiallito, che contiene esempi di calligrafia e disegni, vergati da una mano insieme puerile ed esperta. E’ la mano di Mehmet II il Conquistatore, che quando lo vergò aveva vent’anni e stava conducendo un lungo assedio.
Nel maggio di cinquecentocinquantasette anni fa, quel giovane sultano nevrotico e ambizioso, dalle pupille scintillanti e dal naso rapace, aveva deciso di conquistare la Città delle Città. L’aveva circondata per mare e per terra, aveva riunito un esercito di centinaia di migliaia di uomini, mobilitato tutti gli esperti di tecniche d’assedio e tutti gli astronomi e gli esperti di divinazione, perché voleva a ogni costo espugnarla e fare di lei la sua sposa, e nel suo grembo rifondare il proprio impero.
Per mesi e mesi aveva sperimentato ogni innovazione, lanciato palle di cannone grandi come pianeti da bocche di fuoco immense come draghi; ma inutilmente. Aveva fatto accorrere i minatori delle miniere d’argento di Serbia, coi loro picconi traslucidi e aguzzi come becchi di aironi, per traforare lunghe gallerie sotto le Grandi Mura della Città; ma inutilmente. I pochi greci, annidati nelle nicchie delle Mura come gufi o civette, li avevano sterminati allagando i cunicoli o riempiendoli di fumo. La sera del 24 maggio 1453 c’era stata una strage. Tutti i serbi e molti turchi erano morti seppelliti dal crollo delle impalcature, cui i greci, astuti come Odisseo, avevano dato fuoco.
Il giovane sultano caracollava su e giù a cavallo lungo il fronte settentrionale dell’accampamento. Senza farsi riconoscere, sciogliendo le falde intrecciate del turbante per coprire il viso, scrutava i vari reggimenti. Migliaia di vivi, provenienti da tutto l’impero di Rumelia, si sostituivano alle migliaia di morti, i cui cadaveri si accumulavano sotto gli spalti. Al giovane sultano non importava, poiché nel nome del Profeta, che era anche il suo, riteneva che la vita individuale non valesse assolutamente a nulla, se non a portare a termine in Suo onore una grande impresa collettiva. Ma negli sguardi dei vivi vedeva ogni giorno di più uno sconforto che li faceva assomigliare a quelli spenti dei morti.
Fece arretrare il suo cavallo, che lo amava e lo capiva come fosse la sua anima uscita dal corpo. Le Grandi Mura non erano mai state espugnate. Non lo sarebbero state, aveva profetizzato qualcuno. Ma era troppo tardi per ripiegare. Già il Consiglio Supremo, e in persona il suo Gran Visir, il vecchio Chalil, erano contro di lui. Se non avesse espugnato la Città, a cadere non sarebbe stato solo il suo trono, ma anche la sua testa.
Quella sera tornò presto nella sua tenda grande come la luna, con intorno le tende dei suoi giannizzeri come tante stelle. Il gigantesco tamburo del capo del mehter risuonava cupamente a segnare il crepuscolo. Aveva talmente paura dei sicari che ormai faceva entrare solo un italiano, che era il suo medico ed era ebreo. Jacopo era un grande cabalista e lo aveva aiutato a costruire sulla riva europea del Bosforo una fortezza il cui perimetro formava la cifra del suo nome, che era poi anche quello del Profeta, come una formula magica disegnata proprio sotto la Città. Ogni giorno Jacopo lo aiutava a interpretare i segni del suo corpo mortale e quelli del grande corpo del cosmo, con i minuti corpi celesti che ricamavano nella notte messaggi complessi e accurati come gli esercizi di calligrafia che andava facendo nel suo taccuino.
Jacopo aveva i capelli corti come un antico romano. Non portava la barba, né corta e aguzza, come la sua, né divisa in due punte, come quella dei bizantini. Aveva il viso liscio e sembrava ancora giovane, malgrado le rughe agli angoli degli occhi e della bocca e il naso prominente, tipico della sua genia. La lieve mollezza del mento veniva messa in risalto dall’abito all’occidentale privo di colletto. Non aveva mai accettato di indossare i sinuosi caftani che Mehmet gli mandava in dono.
Il sultano si era accovacciato sui calcagni nel cerchio di luce che si allargava sull’ombra colorata e appassita delle sete. La mano ancora leggermente malferma disegnò sul taccuino ciò che i piccoli occhi febbrili avevano visto quella sera di maggio. Anzitutto la sua firma, il ghirigoro del nome del Profeta e suo. E il nemico greco, come gufo o civetta. E i minatori serbi, come uccelli dalle lunghe zampe. E il profilo del suo cavallo. E, nel margine destro del piccolo foglio, quello di Jacopo, che stava tardando.
Quando il medico si fece annunciare dai giannizzeri non aveva in mano il flacone che gli aveva chiesto. E il suo viso giovane e vecchio non era pallido come quando lo aveva congedato, chiedendogli di preparare la mistura. «Guarda il cielo, kyr», gli disse in greco, una delle sei lingue che Mehmet padroneggiava. Il giovane sultano si alzò e lo seguì fin sotto l’apertura rotonda ricavata nella sommità della tenda fin dall’inizio dell’assedio, dove, come in un planetario, scintillava sul denso inchiostro del cielo il bianco alfabeto delle stelle. Quella sera le costellazioni non si potevano vedere bene: era il terzo giorno di plenilunio. Ma a Mehmet sfuggì un grido. Cos’era successo alla luna?
Il disco era improvvisamente ridiventato una falce. Ma non era una luna calante, e nemmeno crescente. Era incavata in alto come fosse una barca. E in una maniera strana, come se a ridurre il disco fosse la sovrapposizione di un altro disco.
Mehmet lo considerò di malaugurio: «Qualcuno sta invadendo la mia tenda. Il cerchio del mio potere è stato intaccato». Proprio il motivo per cui aveva chiesto al suo medico di anticipare i suoi assassini. Ma Jacopo prese a narrare un’antica profezia dei greci, secondo la quale la Città non sarebbe mai caduta durante la luna crescente. Dunque poteva cadere durante la luna calante. La profezia diceva inoltre che l'ultimo imperatore si sarebbe chiamato come il primo, cioè Costantino. E così effettivamente si chiamava il capo dei suoi nemici.
Mentre l’ebreo parlava, Mehmet disegnava la luna proprio sotto il suo profilo. «Un’eclissi di luna è un segno funesto, ma non per te. La luna, infatti, è sempre stata la protettrice della Città. Anticamente la chiamavano Artemide, poi Theotokos, la Madre di Dio». Mehmet aveva staccato gli occhi dal taccuino e fissava l’etere notturno e i suoi sette cieli dal pertugio della tenda. Il disco scuro stava scavando il disco chiaro ancora più a fondo, la falce si andava facendo sempre più sottile. Le due punte si protendevano sempre più l’una verso l’altra. «E’ un segno, mio kyr. Non devi arrenderti alle trattative di pace che oggi ha fatto deliberare l’infido Chalil. Quando l’eclissi sarà finita, riorganizza il tuo fedele esercito e, mentre la luna starà calando, sferra il tuo attacco».
Fu così che, quattro notti dopo, Mehmet II conquistò la Città delle Città, e fu chiamato il Conquistatore. A cadere non fu la sua testa, ma quella di Chalil. Jacopo restò al suo fianco con il nome di Ja’qûb e fu ritratto da un pittore veneziano di nome Bellini, finalmente in vesti turche. L’impero degli osmani fu rifondato, e la sua capitale insediata nell’istmo tra Asia e Europa. In omaggio allo spettacolo di quella notte, di cui aveva disegnato sul suo taccuino l’inizio, il giovane sultano e primo cesare di Rûm ridisegnò la bandiera degli osmani.
Dicono che la bandiera turca sia esistita secoli se non millenni prima del regno di Mehmet, che la mezzaluna fosse già emblema dei principati ottomani e di altri regni orientali preislamici, ed è vero. Dicono che da sempre la falce di luna, Artemide e poi la Madre di Dio, fosse simbolo della Polis, e lo si potesse vedere scolpito accanto alle porte delle sue case, e anche questo è vero.
Però Ja’qûb Pas^a sapeva che la nuova bandiera di Mehmet non rappresentava una falce di luna, ma un’eclissi, l’eclissi di Bisanzio.