Istanbul, o cara
Saggi, poesie e romanzi rilanciano il mito della «città delle città»
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“Ci sono luoghi in cui la storia è inevitabile come un incidente automobilistico — luoghi in cui la geografia provoca la storia. Uno è Istanbul, alias Costantinopoli, alias Bisanzio”, ha scritto Iosif Brodskij. Chi va a Istanbul non può non cogliere subito la sua essenza di istmo tra oriente e occidente, il trasbordo continuo, reale e metaforico, dell'uno nell'altro. Affacciandosi dai vapurs bianchi che salpano, affollati al tramonto di impiegati e pendolari, da Üsküdar e Kadiköy, si vede profilarsi la doppia sponda in cui l'oriente, come diceva Cocteau, tende verso l'Europa “la sua vecchia mano ingioiellata”.
Nell'ultimo secolo ottomano, il cielo notturno continuava a riflettere lo splendore del Re dei Re, il discendente del pâdishâh Mehmet il Conquistatore, l’Imperatore del Mondo e Messia dell'Ultima Era: il sultano. A ogni festa e celebrazione, tra un minareto e l'altro venivano tese scritte formate da fiammelle luminose. Su ogni barca si accendevano lanterne di carta multicolori che illuminavano tutto il Bosforo. I palazzi sembravano incendiarsi delle migliaia di riverberi che sconvolsero Hans Christian Andersen, quando, assistendo nel 1841 alle luminarie in onore del Profeta, si sentì avvolto — scrisse — in un incantesimo di luce e ingoiato in un'unica foresta di fiamme.
Proprio in quest’epoca — per la precisione, cinque anni prima, nel 1836 — e in questa Costantinopoli, dove ancora “la Torre di Galata offriva uno dei panorami più belli del mondo”, è ambientato L’albero dei giannizzeri (Einaudi, 382 pp., 15,50 euro), l’irresistibile thriller storico che sta tallonando nelle classifiche Dan Brown. Il suo eroe, un detective eunuco alla corte del sultano che legge le Relazioni pericolose di Laclos, è l’intelligenza scettica e sensuale del mondo che esattamente un secolo dopo sarebbe scomparso; il mondo sontuoso e cosmopolita, tradizionale e spregiudicato, che ancora viveva all’ombra della Sublime Porta; il mondo di cui l’autore Jason Goodwin, giovane giornalista inglese con un penchant per l’esotismo, mostrava una meticolosa conoscenza già in Lords of the Horizon, saggio storico sui seicento anni dell’impero che andava dai confini dell’Iran alle porte di Vienna riunendo tre dozzine di nazioni e centinaia di gruppi etnici.
Il nome Istanbul proviene dal greco demotico stin poli, “in città”: per tutto il medioevo Costantinopoli era “la città” per eccellenza, “la Città delle Città”, come la chiamavano i cinesi. Durante gli undici secoli dell'impero di Bisanzio e per tutto quello ottomano un alone di luce aveva circondato la sua architettura. Ad Haghia Sophia, descritta nel VI secolo da Paolo Silenziario nel visionario poema di cui proprio oggi esce finalmente l’edizione commentata e tradotta (Un tempio per Giustiniano, a c. di M.L. Fobelli, Viella, 234 pp., 45 euro), “la luce del Bosforo, con una leggera increspatura, brilla / sul marmo candido come l’argento che comincia a scurirsi. / Le volte racchiudono tessere d’oro, da cui / un bagliore sfolgorante, versando oro a profusione, / si riverbera sul volto degli umani, insostenibile”.
L’“insostenibile riverbero” di Silenziario era ancora vivo nella “splendeur déliquescente” dei palazzi degli ultimi pâdishâh descritti da Nerval e da tutto l’esercito di viaggiatori — da Byron a Pierre Loti, di cui è appena uscita una breve e intensa Costantinopoli nel 1890 (Ibis, 68 pp., 8,50 euro), da Flaubert a De Amicis, fino a Agatha Christie — che dal tempo di Selim III fino al Novecento fecero di Costantinopoli un vero e proprio genere letterario della cultura europea. Oggi, a Istanbul domina invece una gamma di toni che va dal nero al perla passando per il più frequente, il grigio sporco. Sul Mar Nero l'inquinamento è diventato estetica fin dalle prime opere di Ohran Pamuk, il più grande scrittore turco vivente: gli scarichi delle petroliere oleosi e cangianti fra i pontili di Galata, la penombra fuligginosa dei vicoli della città vecchia anneriti dal kömür usato come combustibile, il nero degli ubiqui lustrascarpe, l'ombra dei caffè invasi dal fumo.
E’ il sogno in bianco e nero che rivive ora nel suo Istanbul (Einaudi, 388 pp., 18,50 euro), dove la bellezza non è confinata nella nostalgia del passato ma si irradia dalle misere strade secondarie di Usküdar “che fino agli anni Ottanta brulicavano di case di legno, le vie vecchie, spaventose e maligne di Kocamustafapasha, rovinate dalla repentina costruzione dei palazzi in cemento armato”. Una fontana quasi demolita o il muro crollato di una chiesa bizantina, il Pantokrator, Santa Sofia Minore, non sono meno saturi di misteri dell’Istanbul moderna dai sotterranei abitati da clochards e dalle baracche prefabbricate (gecekondu, letteralmente “sorte in una notte”) sulle discariche della periferia asiatica.
La città scintillante d’oro e di colori che all’inizio del Novecento diventò improvvisamente grigia come uno schermo oscurato ha un forza irradiante, quasi radioattiva, che ricorda lo Stalker di Tarkovskij, fa vibrare la nostra coscienza collettiva, o forse la memoria rimossa della nostra civiltà. Perché con la fine della prima guerra mondiale era stato un evo intero, quello che potremo chiamare la belle époque, l’ancien régime o il mondo antico tout court, a sprofondare definitivamente per lasciare spazio al mondo nuovo, quello di Huxley, ma anche di Orwell: per cedere il passo a quel medio evo prossimo venturo, che oggi aleggia tra le ceneri tossiche delle torri gemelle.
Fin dalla seconda guerra mondiale si vedranno le conseguenze del cadere di quell’intercapedine di tolleranza, funambolesca mediazione tra civiltà, vocazione cosmopolita che dall’impero romano Bisanzio aveva trasmesso a quell’islam. Senza l’impero ottomano gli attriti fra etnie, strumentalizzati dall’occidente, diventeranno alla fine del secolo il massimo problema della nostra era.
Istanbul è dunque il simbolo della decadenza della modernità, delle contraddizioni fra civiltà, dell’enigma che oggi è l’incontro-scontro fra oriente e occidente. Di quest’enigma Goodwin, nell’ ottocentesca Costantinopoli dell’Albero dei giannizzeri, affida la soluzione al suo investigatore eunuco. Pamuk, invece, rinuncia a risolvere ogni enigma. Venata di uno spleen baudelairiano che lì si chiama hüzun, sfumata nella nebbia di grigi delle foto in bianco e nero che esalano come visioni oniriche dalle sue pagine, Istanbul è il palcoscenico dell’infanzia dell’autore e insieme di quella del nuovo evo nato dalla morte dell’impero; è il simbolo dell’incomprensibilità labirintica di tutto ciò che ci è accaduto da allora.