Sono i Turchi eredi di Roma
L’impero ottomano: un’organizzazione multietnica e multireligiosa che fondò il suo successo sull’inclusione
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Nel XVI secolo, quando l’età moderna iniziò la sua corsa, il mondo era dominato da quattro imperi. Il più ricco e potente era la Cina, governata dai Ming. Gli altri erano l’impero safavide in Iran, l’impero moghul in India e l’impero ottomano a cavallo tra i confini orientali dell’Anatolia e le sponde occidentali del Mediterraneo. Complessivamente, gli ultimi tre imperi dominavano e amministravano la parte del mondo che si estendeva da Vienna a Pechino, arricchendosi con il commercio tra Asia e Europa. A presidiare in particolare la cruciale area geopolitica che faceva da ponte verso le grandi vie dei traffici orientali alle discordi potenze europee, proprio nel momento in cui Spagna e Portogallo conquistavano il Nuovo Mondo e i suoi tesori, era un unico, fondamentale interlocutore: l’impero ottomano.
Non lo si poteva definire un impero orientale. Nel 1453, con la conquista di Costantinopoli, la città nella quale mille e cento anni prima Costantino aveva trasferito l’eredità dei cesari, il sultano turco era diventato un cesare lui stesso, erede dichiarato della successione dinastica romano-bizantina. Per gli oltre quattrocento anni successivi, come ricorda Donald Quatert nel suo Impero ottomano appena pubblicato da Salerno (283 pp., 20 euro), “i dominatori ottomani onorarono il fondatore romano ricordandolo nel nome della capitale”, che sino al crollo dell’impero, al principio del XX secolo, rimase Kostantiniyye/Costantinopoli nella corrispondenza ufficiale, sulle monete e, dall’Ottocento, sui francobolli.
Mentre all’estremo ovest del continente europeo l’Inghilterra elisabettiana, la Spagna imperiale, la Francia dei Valois e la repubblica olandese andavano costruendo la loro potenza e la loro futura identità nazionale attraverso sanguinose guerre di religione, l’impero che dominava il centro di quella medesima Europa, oltre che nella sua parte orientale il crocevia stesso tra Europa, Asia e Africa, imponeva un modello di amministrazione basato sulla tolleranza.
Dalla seconda Roma, di cui era diventato successore, lo stato turco aveva infatti ereditato non solo le forme di gestione della terra, il sistema fiscale, il dinamismo verticale delle élites, ma anche il cosiddetto cesaropapismo: “un sistema in cui lo stato controllava il clero” e dove era prescritto che “amministratori e ufficiali proteggessero i sudditi nella pratica della loro religione, che fosse l’islam, l’ebraismo o il cristianesimo, in qualsiasi loro versione (sunnita, sciita, greca, armena, siro-ortodossa o cattolica)”.
Nell’Europa occidentale, al tempo delle guerre di religione, le confessioni cristiane antagoniste facevano a gara nel demonizzare gli “abominevoli turchi”: Lutero li considerava una punizione divina per la corruzione del papato, i cattolici un castigo all’Europa per l’eresia protestante. Eppure gli ottomani, di recente islamizzati ma impregnati della spiritualità sciamanica delle loro radici turcomanne, non avevano creato uno stato confessionale islamico bensì, come scrive Quaetert, “un’organizzazione multietnica e multireligiosa che fondò il suo successo sull’inclusione”, sulla capacità, già bizantina, di “incorporare le energie della vasta e variegata moltitudine di popoli che incontrava” e inglobava.
Quando nell’occidente europeo le madri minacciavano i bambini disobbedienti che i “turchi” sarebbero venuti a mangiarli, con quel nome evocavano una realtà complessa. Gli eserciti con cui i sultani avevano conquistato il loro impero erano composti tanto di musulmani quanto di cristiani. La trasversalità nella composizione etnica dei fronti era evidente fin dal grande assedio del 1453, quando sotto le insegne turche combattevano molte milizie cristiane e sotto quelle bizantine molti turchi. Una secolare politica matrimoniale aveva del resto ibridato di sangue bizantino la stessa dinastia regnante ottomana, come racconta limpidamente Bernard Lewis nel suo classico La Sublime Porta. Istanbul e la civiltà ottomana (ora tradotto da Lindau, 201 pp., 18,50 euro). E una parte consistente della sua élite era tanto contraria all’offensiva militare quanto l’ala turcofila della corte bizantina era pronta a una coesistenza pacifica con gli eredi di Osman: preferiva “il turbante turco alla tiara latina”.
Se Mehmet II si considerava imperatore romano per avere conquistato la seconda Roma, Süleyman il Magnifico puntava alla prima. Non fu la battaglia di Lepanto, ora ricostruita e attualizzata da Niccolò Capponi nel suo Lepanto 1571. La Lega Santa contro l’impero ottomano (Il Saggiatore, 358 pp., 20 euro), a cambiare le sorti della storia d’Europa. Né Venezia né Genova, le repubbliche che con la loro guerra commerciale avevano consentito la caduta di Bisanzio, potevano realmente arginare la potenza turca, che si riprese presto dalla distruzione della sua flotta e non solo continuò la sua espansione nel Mediterraneo, ma intervenne sempre più spesso e più a fondo nello scacchiere occidentale, per inserirsi a pieno titolo nel sistema politico europeo.
Se c’è una data che segna il tramonto definitivo della minaccia turca alla prima Roma, che già Isidoro di Kiev aveva predetto, non è il 1571 ma il 1683: quando l’impero ottomano arrivò per la seconda volta sotto le mura di Vienna e venne definitivamente sconfitto.
Da allora non fu più questo esotico impero a incarnare l’eredità di quello romano, ma un altro, nato sul Danubio proprio con la missione di arginare l’espansione turca. Dopo che i regni balcanici avevano fallito, fu l’Austria ad acquistare, come scrive Quaetert, “il ruolo e l’identità di prima linea di difesa per l’Europa”. Da allora in poi gli Asburgo mobilitarono sotto le insegne imperiali le risorse di tedeschi, ungheresi, cèchi, croati, slovacchi e italiani, associando veneziani e polacchi, costruendo un impero multietnico e multireligioso, che durerà fino al 1918.
Sarà così l’impero asburgico il vero continuatore di quello bizantino: crinale tra oriente e occidente, difensore e insieme ibridatore di popoli e culture, mediatore di forme d’arte, di musica, di letteratura. Erede, nell’era degli stati nazionali, di quella Sehnsucht imperiale, di quel nostalgico, malinconico senso di un dovere storico sempre venato dal presagio di una fine, che aveva pervaso per secoli la civiltà di Bisanzio.
I BIZANTINI
Due imperi, un unico karma geopolitico. Al rinato interesse per quell’interfaccia tra oriente e occidente che fu l’impero ottomano si affianca una sempre maggiore attenzione per l’impero che lo precedette lungo undici secoli nella stessa area del globo: quello bizantino. In Judith Herrin, Bisanzio. Storia straordinaria di un impero millenario (Corbaccio, 470 pp., 22,60 euro) la storia bizantina è letta in chiave attualizzante, come indispensabile per comprendere le complesse radici culturali dell’Europa. Mentre Hartmut Leppin si concentra sulla cristianizzazione dell’impero romano d’oriente nell’attento, rigorosissimo volume dedicato al più controverso dei suoi artefici, Teodosio il Grande (Salerno, 350 pp., 26 euro). Ma anche in Italia la bizantinistica si risveglia. Giorgio Ravegnani, nei suoi Imperatori di Bisanzio (Il Mulino, 186 pp., 11,50 euro), offre una preziosa, sintetica quanto documentata e aggiornata panoramica dell’intero millennio bizantino. Mentre Mario Gallina, nell’ottimo Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII) (Carocci, 306 pp., 23,70 euro), si ferma alla vigilia di quella devastante catastrofe che fu la presa crociata di Costantinopoli del 1204. La stessa Conquista di Costantinopoli che Geoffroy de Villehardouin narra, non certo imparzialmente, in uno dei più impressionanti documenti storici mai prodotti da un occidentale su Bisanzio (SE, 159 pp., 19 euro).