A Bisanzio le civiltà si incontrarono
Un impero offuscato dal nostro stereotipo della «decadenza» di Roma, esempio di «rinascenze»
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Che cosa rappresenta Bisanzio nella nostra percezione collettiva? forse è ancora lo stereotipo della “decadenza”, sovrapposto alla millenaria vicenda dell’impero bizantino dall’immaginazione storiografica ottocentesca, a innescare un transfert con il nostro mondo attuale, depauperato dalla crisi finanziaria oltre che dalla caduta delle fedi tradizionali e dei miti progressisti, minacciato, secondo alcuni, da uno scontro culturale, politico e religioso con un’“altra” civiltà?
O magari si è insinuata anche nella cultura diffusa la consapevolezza che Bisanzio fu al contrario una successione di rinascenze, in campi spesso molto affini a quelli che interessano la società del nuovo millennio: dall’amministrazione di uno stato multietnico all’astrazione di un’arte quasi non più figurativa, dal sincretismo religioso ai risvegli di nuovi tipi di spiritualità? si è finalmente capito, forse, che ciò che chiamiamo Bisanzio non è quello che resta, ma quello che emerge dalla più spettacolare delle cadute, il cosiddetto crollo dell’impero romano? e che anche dal crollo può nascere una civiltà in cui l’arte, la bellezza, la cultura, la scienza individuale e la sapienza statale hanno continuato non solo a sopravvivere ma a fiorire per più di mille anni, ibridandosi fecondamente con quelle delle altre civiltà orientali, e mostrando quindi che ciò che chiamiamo scontro può essere invece incontro, arricchimento, sintesi nella mediazione?
Fatto sta che Bisanzio ritorna. Contemporaneamente allo straordinario successo di pubblico della mostra “Byzantium” della Royal Academy a Londra, in Italia si registra un’alluvione stagionale di libri bizantini che non può non essere segnalata, sia per la singolarità del fenomeno, sia perché, analizzando i loro temi e i loro contenuti, si può tentare di rispondere a queste domande.
La sospirata riedizione della Fine del mondo antico di Santo Mazzarino (Bollati Boringhieri, 217 pp., 14 euro) sviscera l’idea stessa di “decadenza”, raccontando il crollo del vecchio sistema imperiale eurocentrico, la corruzione e l’impasse delle sue classi dirigenti, la crisi dei suoi sistemi finanziari, con l’intuizione profetica che la storia romana dovrà estendere il suo sguardo all’altra sponda del Mediterraneo. Un grande classico, che unisce la genialità dell’ispirazione storica alla pacatezza e all’equilibrio. Il contrario del provocatorio, revisionistico Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero (Garzanti, 206 pp., 23 euro) di Paul Veyne, storico anche lui di formazione marxista e tuttora “miscredente”, ma apparentemente convinto che il primo e più spregiudicato degli imperatori bizantini si sia realmente convertito alla nova superstitio, la religione cristiana, “un capolavoro”, rendendola religione di stato meno per Realpolitik che per sincera evoluzione interiore.
Una cosa è certa. La culla della dottrina cristiana fu Bisanzio, la presunta “scismatica”, dalla cui ortodossia fu in realtà Roma a allontanarsi nei secoli bui del medioevo, in cui la Polis di Costantino splendeva di straordinari teologi e mistici oggi noti quasi solo agli addetti ai lavori. Per conoscerli ci si può addentrare adesso nel Millennio Einaudi dei Mistici bizantini(803 pp., 85 euro) curato da un esperto come Antonio Rigo e prefato da un maestro come Enzo Bianchi, che si apre con il Giovanni della Croce bizantino, Simeone il Nuovo Teologo: “A causa della ricchezza infinita sono povero / e credo di non avere niente quando possiedo molto”. Leggere i suoi inni conforterà manager, politici, banchieri, anime in cerca di sé.
Anche dopo il silenzioso crollo dell’impero a occidente la sua cultura raggiunse quelle che Braudel ha chiamato le “zone spaziodinamiche d’irradiazione” che consentono di capire meglio una civiltà. Spaziando nelle distese del sincretismo, il prezioso volume III del Manicheismo pubblicato dalla Fondazione Valla (534 pp., 20 euro) raccoglie inedite perle dello gnosticismo asiatico e microasiatico, in cui il manicheismo e lo zoroastrismo, il cristianesimo e il buddhismo si fondono in testi sorprendenti, come il Barlaam e Ioasaf antico-turco. Confermando quanto legata alla nostra sia stata la civiltà religiosa dell’oriente che oggi temiamo, e quanto la nostra a sua volta dipenda dai suoi più antichi tesori.
Dall’Asia Centrale così a lungo sincretistica e gnostica, prima di essere islamica, venivano le etnie turchesche che accerchiarono e poi conquistarono Bisanzio. Forse nessuno può spiegare meglio un impero di chi ci narra la sua fine — perché ogni impero ne ha una, formalmente almeno, il che non gli impedisce di continuare a vivere in un altro. Come la Prima Roma nella Seconda, Costantinopoli, così questa si perpetuerà in Istanbul. Le sue aristocrazie, in parte sacrificate, in parte integrate, domineranno l’élite dell’impero di Rûm, ossia, nuovamente, di Roma: quello ottomano, che di Bisanzio conservò la multietnicità e la tolleranza. Leggere la Grandezza e caduta di Bisanzio di Giorgio Sfrantze, suo ultimo storico, nella splendida traduzione di Riccardo Maisano (Sellerio 291 pp., 12 euro), ci riporta alla Stimmung della Caduta e la colloca in una dimensione archetipica, che commuove e consola.
Soprattutto se le si affiancano le immagini di due libri diversi tra loro, ma che entrambi affrontano il dilemma di Bisanzio dal lato visivo: L'arte bizantina e l'Occidente di Otto Demus, (Einaudi, 300 pp., 28 euro), implacabile ricognizione del debito artistico dell’occidente verso Bisanzio, e Bisanzio Costantinopoli Istanbul, scritto da più autorevoli mani e curato da Tania Velmans per Jaca Book (416 pp., 150 euro), corale studio sulla permanenza della bellezza, e delle varie estetiche, attraverso il cambiamento. Dalla Bisanzio grecoromana alla Costantinopoli bizantina fino alla Istanbul ottomana, i millenni di civiltà non portano, neppure dopo la conquista turca, all’annientamento dell’arte, ma al contrario la intensificano, la complicano e, strato dopo strato, la innalzano.
Così, lo sguardo rivolto agli “scontri di civiltà” del passato illumina il presente, evidenziando, al di là delle contingenze della politica, le infinite mediazioni, continuità e intercomunicabilità delle culture di cui è tessuta ancora oggi quella che chiamiamo Bisanzio.