Marco Aurelio abita ancora qui
A Roma la statua dell’imperatore che scrisse i “Pensieri” domina tuttora il Campidoglio. E oggi ricorda un’altra pandemia, un’altra decadenza, che ci rende simili agli antichi. Il reportage letterario di Silvia Ronchey
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Dall’alto del Campidoglio la statua di Marco Aurelio tende il braccio a Roma, distesa sotto i gradini della cordonata cinquecentesca, oltre i getti di fumo bianco dei lavori della metropolitana, per due mesi i soli ad alzarsi dal centro di piazza Venezia deserta come da un’ara sacrificale durante la quarantena. L’imperatore di bronzo ha una lunga esperienza di epidemie. Durante il suo regno la peste chiamata “antonina”, dal suo patronimico, o anche “di Galeno”, dal nome del suo medico che la descrisse, decimò la popolazione della capitale — il picco contò duemila decessi al giorno — e di tutto l’impero — milioni, se non decine di milioni di morti — riducendola, in alcune zone almeno, di circa un terzo. Cifre incommensurabili a quelle di adesso: la peste antonina durò, tra un’ondata e l’altra, quasi trent’anni, spopolò città e villaggi, dalla penisola italica alle Gallie e al Reno fino ai limiti estremi dell’ecumène — il mondo “abitato” o “conosciuto” — oltre le frontiere del quale non sappiamo in realtà cosa sia successo, come oggi in India o, peggio, in Africa.
Sappiamo invece che a quella pestilenza gli storici di Roma, a cominciare da Niebuhr nel primo Ottocento, attribuirono il radicale cambiamento nell’ordine sociale e politico del mondo antico che viene chiamato “decadenza”, e vi scorsero la premessa della cosiddetta caduta dell’impero romano. Ma Marco Aurelio Antonino, che in piena pandemia aveva preso personalmente il comando delle legioni decimate sul limes danubiano, annotò nel diario che scrisse in greco e si autodedicò (il titolo originale è A se stesso, poi generalmente riformulato in Pensieri o Ricordi): “La vera peste è la corruzione della mente molto più di qualsiasi infezione e corruzione possa prodursi nell’aria che ci circonda. Quest’ultima è peste da animali, che ci contagia in quanto animali; l’altra è peste umana, che ci corrompe come uomini”. La seconda epidemia, spiega, è fatta di menzogna, imbroglio, sopraffazione. Cose che in effetti produce l’animo degli umani, quando la prima peste, quella biologica, mette a soqquadro la società e a repentaglio i più deboli.
Che splenda la tramontana o soffi, per citare Orazio, l’accasciante scirocco, che il sole abbia cominciato appena a declinare o sia già calato il crepuscolo, se si attraversa la piazza la sagoma dell’imperatore filosofo in sella al suo cavallo dischiude lo spettacolo della strana Roma che fatica a riaversi dalla peste odierna, decalcandolo tra le quinte abissali della storia. Se si scende verso il Carcere Mamertino, lasciando a destra la lupa capitolina e a sinistra il convento francescano, si vedono il Foro Romano fino al Palatino, gli archi trionfali e le colonne onorifiche, la distesa di rovine bianco-grigie come i gabbiani che vi sostano stridendo, affamati dal lockdown dei ristoranti, e l’erba intorno cresciuta alta, senza passi di turisti, come quando quella rovinografia veniva esplorata e dipinta dai viaggiatori del primo Ottocento. In basso a sinistra, oltre il Clivo Argentario, lungo il Foro di Traiano e i suoi Mercati, si intravedono le figure distanziate dei molti cittadini di Roma affluiti al suo cuore archeologico dai quartieri circostanti o dalle periferie, chi solo, chi in coppia col suo cane, chi a piedi, chi in monopattino o in bicicletta, naso e bocca imbavagliati dalle mascherine, lo sguardo perso nelle rovine forse del paesaggio, sicuramente dei pensieri, delle abitudini, delle previsioni — delle certezze.
Il fatto è che siamo diventati antichi. Anche se non quanto le pietre dei Fori, siamo invecchiati, vivendo questi due mesi, più che se avessimo vissuto cento anni. I cambiamenti che stiamo intuendo avrebbero richiesto, in passato, secoli. Mai come in questo momento l’esperienza di una singola vita ci fa avvertire l’insondabilità della storia, la sua infinita mutevolezza.
Se il cambiamento avviene sempre attraverso la sofferenza, e se a soffrire sono sempre i più deboli, un altro grande storico, Gibbon, aveva visto l’età antonina in modo molto diverso dal prussiano Niebuhr: come, paradossalmente, “il periodo nella storia del mondo durante il quale il genere umano fu più felice e più prospero”. Il fatto è che mai come nell’epoca di Marco Aurelio gli uomini elaborarono e diffusero con tale pervicacia una tecnica di resistenza esclusivamente interiore alla brutalità delle cose, alla violenza della vita collettiva, alle sue ingiustizie e alle sue sciagure. “Un pensiero esatto e malinconico”, scrive Gibbon, “amareggiò l’intelletto umano più nobile”. L’imperatore lo mise in pratica e accampato al di là del Danubio, sotto una tenda che rimbombava di pioggia, lo annotò nel suo diario.
“Non sperare nella Repubblica di Platone!”, scriveva. “Accontentati di fare un passo avanti, anche se piccolo. Vivi senza superstizioni. Ama quel po' di abilità che hai nella tua arte e cerca di trovare pace in lei”. Marco Aurelio conveniva con Epitteto che prendere coscienza di quali cose siano in nostro potere e quali no sia lo sola forma possibile di libertà e di salute psichica: la chiamava in greco "eudaimonìa", accordo col proprio Daimon. Una parola che può tradursi dal greco anche felicità.
"Io sono libero", diceva Epitteto. "Sii un uomo libero", scriveva a se stesso il principe; ma sapeva di non esserlo. "Io sono ileos", rettificava, e cioè: "Io sono pacificato, riconciliato". "Io sono rassegnato". Quello che Marco Aurelio voleva spiegare è che si può essere liberi anche nella costrizione esterna. Cercava una rassegnazione che non nascesse dalla resa ma al contrario dalla libertà interiore, dalla consapevolezza che nessuno può togliercela, dalla disillusione accettata, dalla certezza che anche nelle più gravi disgrazie qualcosa dentro di noi può darci pace. Grazie a quella pace interiore, o, meglio, a quella ricerca di pace mai raggiunta ma sempre inseguita, e alla forza d’animo che infonde il perseguirla, non smise mai di combattere: contro se stesso e contro la peste umana, oltre che contro Iazigi, Sarmati, Quadi e Marcomanni.
I filosofi stoici, di cui Marco Aurelio era seguace, postulavano una dottrina dell’eterno ritorno, nei cicli cosmici come in quelli storici. Al di là di ogni teoria, l’esperienza millenaria delle società umane ci insegna che nel divenire della storia quella che vediamo come decadenza è in realtà sempre il segreto inizio di una rinascenza. Dalla cosiddetta caduta dell’impero romano d’occidente nascerà il millennio di Bisanzio, dalla caduta di Bisanzio germoglierà, di nuovo in occidente, il Rinascimento. Tornate sui vostri passi, sedetevi, guardate la piazza, percepite l’armonia che intorno alla statua dell’imperatore progettò Michelangelo: non è quella dell’imperatore che ha conquistato il mondo, ma quella del filosofo che ha conquistato se stesso. E che a se stesso, e a ognuno di noi, ha insegnato a reagire alla peste umana.